Solo ripensando profondamente al sistema repressivo
penale, alla pena, alla disciplina dell’immigrazione, che si potrà cercare di
curare la malattia, e non solo di nasconderne i sintomi.
Ci sono vari modi per affrontare il tema della
detenzione: chi viene detenuto, perchè, in che condizioni, con che prospettive
e con che finalità…
Io vorrei parlarne iniziando a raccontare quattro
storie, le storie di quattro persone.Con un’avvertenza: non sono quattro casi
eccezionali, ma sono solo quattro dei moltissimi casi dell’ordinaria follia dei
luoghi di detenzione o, forse e più correttamente, della banalità della
detenzione.
Faisal, è un uomo del Bangladesh di 31 anni. Vive da
molti anni in Italia, con i suoi familiari. Ad un certo punto entra in crisi,
si allontana dalla famiglia, comincia a vivere per strada…
Ha evidenti problemi psichici, ma nessuno lo prende in
carica. Un giorno, a metà febbraio del 2019, è a Lecce, dove vive in quel
periodo. Viene fermato per un banale controllo; ormai ha perso il permesso di
soggiorno, è un clandestino. Viene portato (o meglio deportato) a
migliaia di chilometri, a Torino, dove non conosce nessuno, e rinchiuso nel CPR
di Corso Brunelleschi in attesa che la sua espulsione venga eseguita. In realtà
tutti sanno che questo non sarà possibile, che non ci si riuscirà, ma lui resta
lì: accade sempre che il trattenimento continui ad essere prorogato sino alla
sua scadenza, indipendentemente dal fatto che ci siano prospettive effettive di
rimpatrio. Giunto al CPR il personale sanitario si rende conto che ha dei
problemi, e lo colloca in osservazione, ovvero in isolamento, in un locale
chiamato ospedaletto (una struttura che nulla ha di sanitario; piccole celle
con un cortiletto cinto da reti e muri, simili alle gabbie di uno zoo). Nei
mesi successivi non parla con nessuno, non riceve nessuna visita; viene visto
due o tre volte da uno psicologo, che si limita a prendere atto che il
trattenuto non risponde alle domande. Faisal muore l’8 luglio in quella stessa
cella di isolamento dove era stato rinchiuso quasi cinque mesi prima. Causa
accertata del decesso morte improvvisa cardiaca su base verosimilmente
aritmica; ma non conta che sia stato semplicemente dimenticato/abbandonato
in quella gabbia per quasi sei mesi.
Quella stessa estate Antonio, un ragazzone di 28 anni
entrato alle Vallette ad aprile con un passato di tossicodipendenza, comincia a
lamentarsi che non riesce a nutrirsi, a dire che perde peso. Lui era entrato in
carcere dopo un revoca di una misura alternativa comunitaria. Continua a
perdere peso (alla fine della sua vita la perdita di peso sarà di circa un
terzo), sino a che non riesce a tenersi in piedi. Quando prova a mangiare
vomita. Nelle note sempre più allarmate della garante comunale per le persone
private di libertà si chiede un intervento immediato; nelle sue lettere ai
familiari implora aiuto; in alcune annotazioni degli operatori penitenziari si
legge che forse digiuna per ottenere dei benefici. Muore il 30 dicembre, dopo
un ricovero in coma di una quindicina di giorni. Avrebbe dovuto uscire di lì a
pochi mesi. Ad ucciderlo, dal punto di vista medico, è una setticemia; a
condurlo alla morte, da un altro punto di vista è l’abbandono. L’udienza per la
sospensione pena viene fissata un paio di mesi dopo la sua morte.
Andiamo avanti di poco più di un anno, al 10 maggio
2021. Moussa, un giovane guineano, di appena vent’anni, è fuori da un
supermercato di Ventimiglia; Moussa ha avuto un permesso di soggiorno, ha
iniziato un bel percorso, parla bene italiano, ha imparato dei lavori, ha anche
fatto attivismo in un gruppo antirazzista di Imperia. Poi qualcosa anche per
lui si incrina: comincia a non poterne più di dover stare in centri di
accoglienza, cerca una sua strada, tenta anche di trovare fortuna in Francia,
ma lo rispediscono in Italia. Perde il permesso di soggiorno, inizia a vivere
un po’ per strada e un po’ ospitato da amici e conoscenti, tra Imperia e
Ventimiglia. E, allora, il 10 maggio 2021 fuori da questo supermercato, chiede
qualcosa a chi entra… Ad un certo punto un gruppo di italiani lo circonda, lo
assale, lo pesta brutalmente mentre è riverso sul marciapiede a calci e pugni
in testa, a colpi di spranga. Intervengono, dopo il pestaggio, le forze dell’ordine,
scoprono che è irregolare; quindi deve essere espulso. Finisce al CPR di corso
Brunelleschi, viene messo in isolamento nelle stesse cellette dove era morto
Faisal due anni prima… E’ il 10 maggio 2021. Il 23 maggio, al mattino, lo
trovano impiccato dentro quella celletta…
Angelo, un uomo di oltre quarant’anni, entra nel
carcere di Torino a gennaio 2023, dopo la revoca di una misura alternativa. E’
subito considerato a “rischio suicidiario”; un rischio che varierà in pochi
mesi più volte da alto, a medio, a lieve, poi di nuovo alto, e così via… più
volte manifesta intenti anticonservativi, e in alcune occasioni li mette anche
in pratica: una volta, a febbraio, tenta di impiccarsi; un’altra, a giugno, si
causa una profonda ferita al collo… Sin da quando è entrato il magistrato di
sorveglianza ha detto che bisogna cercare per lui una comunità per doppia
diagnosi, ma non si trova, non ci sono risorse… E intanto sta in carcere. Il 12
luglio è ritrovato nella sua “camera di pernottamento” (quella che una volta
chiamavamo cella… ma come chi è nel CPR è un ospite, e non un
detenuto, così la persona in carcere sta in una camera di pernottamento,
non in una cella), impiccato con un laccio da scarpe al letto a castello.
Queste non sono che alcune delle storie delle vittime
della privazione della libertà in Italia. Una cattività sempre più distante dai
principi costituzionali (Le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato,
si legge nella Costituzione), che a ben vedere non assume neppure l’altra
finalità che viene riconosciuta alla pena (al di là della costituzione), quella
retributiva, commisurata alla gravità del reato. Anche se è vero che, in
un’ansia securitaria e panpenalista, si è assistito negli ultimi anni da un
lato ad un progressivo ed esponenziale aumento delle pene detentive per
determinati reati, dall’altro ad un irrigidimento del sistema penitenziario per
quei reati, con le ostatività che anche le modifiche imposte dalle sentenze
della Corte Costituzionale non hanno saputo realmente riportare a realismo.
No, almeno le storie di Faisal, di Antonio, di Moussa,
di Angelo, dimostrano che il “senso” ultimo del carcere (o meglio della detenzione,
perchè anche quella nei CPR è detenzione, anche se chiamata trattenimento,
e il detenuto come si diceva è un ospite) è che nella detenzione si
è trovato il luogo dove scaricare e abbandonare il disagio, o meglio un luogo
nel quale scaricare e concentrare persone che non dovrebbero essere incatenate,
ma piuttosto curate o comunque aiutate. Una discarica che è anche, per altre
situazioni e nell’incapacità della politica istituzionale a svolgere il suo
ruolo, l’unico regolatore del conflitto.
Così alla carenza di risorse e al tradimento di Basaglia
non si può che rispondere cercando in tutti i modi di incarcerare e isolare il
disagio, che sia nei CPR per i migranti, che sia nel carcere per i soggetti più
fragili, con difficoltà psichiatriche, con problemi di tossicodipendenza; e al
conflitto (che è l’essenza stessa di una democrazia che tale voglia essere dal
punto di vista sostanziale e non solo formale) non si può che opporre la
repressione (e, dunque, la detenzione).
Disagio e conflitto trovano, dunque, una risposta di
solo contenimento (e concentramento), per numeri enormi ed assolutamente
incompatibili rispetto alle dimensioni finite del sistema detentivo (che deve
far fronte all’innalzamento delle pena e all’aumento delle fattispecie penali,
e alle detenzioni amministative che oggi possono arrivare a durare un anno e
mezzo). Da un un lato si inventano soluzioni di paternalistico perdono (la
messa alla prova, la particolare tenuità…) per chi, in fondo, ha solo commesso
un errore ma mi è simile, ma dall’altro si pensa di imprigionare
chi invece simile non mi è… E pazienza se la tagliola spesso scatta
così anche per chi ha commesso un solo reato, per chi avrebbe tante possibilità
all’esterno di “rieducarsi”.
Ed è, questa, una risposta sulla quale non
merita, evidentemente, impegnare risorse, investire. Tanto, al di là di quelle
belle parole della costituizione e delle leggi, quel che conta è tenere chiusi,
nascondere alla vista, rendere inoffensivi. E, allora, se il vero motivo della
detenzione è concentrare, e isolare dalla
società, che senso avrebbe dare una adeguata attenzione ai profili psicologici
dei detenuti, o investire le risorse necessarie per un adeguato sistema di
misure alternative anche per chi non può avere una casa nella quale andare,
perchè non ne ha i mezzi o perchè ha bisogno di qualcos’altro che non una
semplice stanza, o cercare percorsi di inclusione e regolarizzazione dei
migranti e non di clandestinizzazione.
Le storie di Faisal, Antonio, Moussa, Angelo, e le
altre centinaia di storie simili, qualcuna terminata con la morte, moltissime
con l’ulteriore marginalizzazione, ci dicono però che è tempo di cambiare il
senso ultimo della detenzione. La pandemia carceraria, la malattia
della detenzione, impongono una svolta decisa, che faccia tornare alla
costituzione e a quei principi che nel tempo avevano pure portato a riforme che
sono poi state tradite.
Fermo che occorre tornare a mettere in discussione
alla radice l’idea stessa, la legittimità, della detenzione, oggi è
urgente ricordare che il carcere, la privazione della libertà personale,
è e deve restare l’extrema ratio, chiunque sia il soggetto sulla cui
sorte si deve decidere.
Qualche agente in più, qualche riduzione di pena,
possono avere nella migliore delle ipotesi l’efficacia di una compressa di
paracetamolo, che per un po’ potrà far abbassare la febbre nei luoghi di
detenzione; ma non guarirà il tumore della detenzione. E’ solo ripensando
profondamente al sistema repressivo penale, alla pena, alla disciplina
dell’immigrazione, che si potrà cercare di curare la malattia, e non solo di
nasconderne i sintomi.
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