‘Che grande abilità
scenica quella del capitale che ha saputo fare amare lo sfruttamento agli
sfruttati, la corda agli impiccati e la catena agli schiavi.’ (Alfredo Bonanno)
Il modello economico imposto dalla finanza occidentale è caratterizzato da
una logica ormai strutturale di “creazione distruttiva”, che è l’opposto della
“distruzione creativa” teorizzata da Joseph Schumpeter quale ‘fatto essenziale
del capitalismo’[1]. La “creazione” oggi
non interessa primariamente quel meccanismo di innovazione tecnologica per cui
nuove unità produttive sostituiscono quelle obsolete e in tal modo
aumentano la performance macroeconomica. Piuttosto, va riferita
all’espansione a leva (debito) del capitale speculativo trainato dalle
matrioske dei derivati, che richiede l’abbandono del quadro di valori
liberal-democratici già messo a tutela del capitalismo industriale. Il
paradosso cui ci troviamo di fronte è che l’innovazione tecnologica distrugge
il capitalismo a base industriale (il “mondo del lavoro”) e simultaneamente ci
assoggetta alle strategie manipolatorie delle oligarchie finanziarie. Tradotto:
le élite gestiscono la crisi terminale del capitale facendola pagare a masse
sempre più immiserite, e regimentate attraverso l’imbonimento di scenari
apocalittici “provocati dal Nemico”, che in tale contesto diventa un bene più
prezioso delle terre rare.
Se proprio vogliamo parlare di “sostenibilità” – concetto ideologico per
eccellenza – almeno non facciamoci prendere per i fondelli. Perché il lemma non
ha nulla a che vedere con i 17 obiettivi di “sviluppo sostenibile”
solennemente dichiarati dall’ONU (debellare la povertà e la fame, migliorare la
salute e il benessere, lottare contro il cambiamento climatico, per la parità
di genere, ecc.). “Sviluppo sostenibile” va piuttosto riferito a un modello
socioeconomico in avanzato stato di putrefazione che spinge
Wall Street ai massimi storici facendo pagare il conto di tale exploit alla
gente comune attraverso contrazione economica reale, erosione del potere
d’acquisto, e terrore emergenziale a getto continuo. La questione della
sostenibilità, quindi, andrebbe eventualmente posta nel seguente modo: siamo
felici di ricevere bastonate sui denti per sostenere i privilegi degli
ultraricchi e la loro sinistra idea di “migliore dei mondi possibili”?
Comprendere il presente significa guardare oltre i rituali ormai
folkloristici della politica. Si tratta infatti di riflettere sul legame causale che
lega la sopravvivenza dell’impero del Bene alla disperata evocazione del Nemico
(il Male) da combattere ad ogni costo. Se la disinformazione russa, come ci
dicono, arriva ovunque, noi non viviamo certo nel regno della trasparenza. Per
esempio, i nostri media omologati (quelli dello ‘sbarco in Lombardia’ ripetuto su
quattro TG concorrenziali nel fantastico mondo della “libera informazione”
italiana) si guardano bene dall’informarci che, dopo la decisione del G7 di
utilizzare i beni russi congelati per finanziare un nuovo pacchetto di 50
miliardi di dollari per l’Ucraina, il rublo si è notevolmente apprezzato rispetto al
dollaro. Perché la valuta russa si rafforza? Non ci avevano assicurato che le
sanzioni avrebbero trasformato il rublo in carta igienica, e che di conseguenza
Putin avrebbe fatto la fine di Ceausescu? O di Nicola II, l’ultimo degli zar? Ma allora perché
l’economia russa cresce di oltre il 3% mentre le nostre ristagnano, come
certifica non la TASS ma il Fondo Monetario Internazionale? Possiamo prendere
atto che dall’inizio del conflitto ucraino la produzione industriale tedesca,
misurata in ordinativi, è crollata di più del 20%? Che dire poi di un
debito sovrano USA che cresce al ritmo di 1 trilione ogni 100 giorni, e
che supererà i 54 trilioni (circa la metà
dell’attuale PIL globale) entro il 2034? Tale proiezione ha spinto Borge
Brende, Presidente del World Economic Forum (WEF), ad affermare: ‘non vedevamo questo tipo di
espansione del debito dai tempi delle guerre napoleoniche.’ Ma Brende ha
dimenticato di aggiungere che nei prossimi mesi andranno a maturazione Treasuries per
un valore di circa 10 trilioni di dollari. E forse è per questo che persino
Janet Yellen è costretta ad ammettere che la de-dollarizzazione non è il
soggetto di un film di fantascienza. Quo vadis, dunque, impero del
Bene?
Nel frattempo, la Federal Reserve – il manovratore occulto – continua nel
gioco delle tre carte: da un lato pompa liquidità nel settore finanziario
ricorrendo ad acrobazie monetarie di varia specie (dalla rediviva Operation
Twist all’utilizzo delle Supplementary Leverage Ratios)[2]; e dall’altro
mantiene invariati i tassi d’interesse. In altre parole, a Wall Street vengono
somministrate endovenose di liquidità aggiuntiva che però rimangono fuori dal
bilancio Fed – manipolazione monetaria allo stato puro. Un QE mascherato,
basato su immissione latente di denaro digitato al computer che, appunto,
spinge l’azionario a frantumare record dopo record. Ovviamente, tutto ciò non ha nulla a
che vedere con alcuna crescita reale. Al contrario, si tratta di un fenomeno di
dipendenza monetaria che nasce dalla mancanza strutturale di sufficiente
valorizzazione reale di capitale. Oggi più che mai, il capitalismo è
un’illusione ottica, un enorme deep fake macroeconomico. E
l’occidente, tenuto in pugno dall’ultra-finanza, affronta la sua grottesca
crisi di debito facendo altro debito – meccanismo che
garantisce profitti stellari ai pochi e impoverisce i molti, perlopiù ignari di
quanto accade attorno a loro.
L’attuale contesto pan-emergenziale è dunque sintomo di crescente fragilità
sistemica, interna al dispiegamento della logica implosiva del capitale.
Dovremmo allora apprezzare la logica invertita di quanto sta accadendo: i war
games alla periferia dell’impero del Bene, così come gli inside
jobs al suo interno – si pensi al recente attentato a Donald Trump,
che ha risvegliato il metabolismo complottista anche dei commentatori più
allineati – non sono la causa del declino dell’occidente; piuttosto, il sistema
alla canna del gas si prodiga di attivare scontri di ogni genere nel tentativo
di nascondere la propria insolvenza. Nulla come l’industria del caos e della
destabilizzazione consente oggi di monetizzare. Le guerre, per esempio – specie
quando pubblicizzate come umanitarie o difensive – non sono che mezzi criminali
per giustificare il confezionamento di quel “denaro facile” che viene sparato
nelle bolle speculative, mentre le effettive condizioni economiche di milioni
di lavoratori (o di “forza lavoro inattiva”) crollano verticalmente.
L’emergenza Putin, così come l’emergenza Covid, o quella del terrorismo
islamico subito prima, e magari dell’influenza aviaria già in rampa di
lancio[3], sono la leva
biopolitica della leva finanziaria che sorregge l’impero targato USA, che dopo
mezzo secolo di dominio globale cerca disperatamente di nascondere il proprio
tracollo.
Ma di queste cose non è dato ragionare pubblicamente, perché tutto può
far notizia tranne la conferma della raggiunta insostenibilità del sistema. Con
“insostenibilità” non s’intende che domani il mondo cadrà dal proprio asse.
Piuttosto, più sobriamente, che i gestori delle economie occidentali
continueranno a trovare il modo di gonfiare la mega-bolla speculativa,
alimentando così ulteriormente un’inflazione strutturale che, peraltro, serve a
mitigare i costi di rifinanziamento del debito (attraverso tassi reali
negativi). Perché un modello economico che vive di espansione monetaria
artificiale e cartolarizzazione infinita del debito può solo ambire a
capitalizzare la svalutazione che spontaneamente ingenera. Indipendentemente da
ciò che si pensa di Russia, Cina e altre autocrazie capitaliste, viene
difficile biasimare il crescente numero di paesi del “sud del mondo” che fanno
la coda per entrare nell’alleanza BRICS. Non hanno forse il diritto di provare
a liberarsi da quella trappola economica che, grazie a entità misantropiche
quali il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank, impone la dipendenza
debitoria dal dollaro statunitense, con tutto il carico di macelleria sociale
che ne consegue?
Prendiamone atto: la sostenibilità del “capitalismo neofeudale” in cui
siamo entrati richiede rituali sempre più macabri. Dopo decenni di stabile
declino, le economie “avanzate” non solo accelerano verso le sabbie mobili
della stagflazione, ma sprofondano nel più totale delirio di onnipotenza
autolesionistica. È il triste spettacolo dell’impero che inghiotte sé stesso.
Finché, in un recente passato, si trattava di blandire i produttori di
plusvalore alternando colpi di manganello alla carota del salario e del
consumo, tutto bene. Veniva fin troppo facile fingersi buoni, democratici, e
liberali. La scenografia che oscurava la prigione collettiva era ancora
credibile, quasi realistica, persino appetibile. Le macchie di sangue sui muri
venivano cancellate da passate di vernice chiamate “progresso”, “mobilità
sociale”, “democrazia”, “consumismo”. Il capitale e i suoi burocrati
riuscivano, insomma, nell’impresa di tenere accesi i desideri di quelle masse
che al contempo sfruttavano, umiliavano, o contribuivano a massacrare in varie
parti del “terzo mondo”.
Ora però la festa è finita. Il più grande teatro illusionistico della
storia incanta solo gli opportunisti e gli utili idioti. E poiché l’American
Dream si trasforma in incubo anche per le classi medie, non resta che passare
alle maniere forti: propaganda, censura, inaudite manipolazioni di massa,
somministrazione quotidiana di scenari farsesco-apocalittici, persino pulizie
etniche e il ritorno della violenza politica contro i non-allineati. È il
pilota automatico di un sistema che per sopravvivere al proprio fallimento
trasforma ogni visione del futuro, dunque del possibile, in una
visione di terrore. Siamo al divide et impera ontologico, per
cui la crisi del capitale, che non ha vie d’uscita, viene scaricata
direttamente sui teatri di guerra, e sulla retorica di divisioni politiche
alimentate a tavolino. L’allarmismo H24 fa da necessario contrappeso agli
effetti soffocanti di un “modello di crescita” basato su investimenti
finanziari a leva affidati ad algoritmi quantistici – applicazione di
intelligenza artificiale che qui come altrove non può che portare alla
demolizione (in)controllata di intere società “(s)fondate sul lavoro”. In
particolare, l’impero del Bene trasforma le proprie contraddizioni interne
nell’imperativo morale della lotta contro un Nemico che s’accanisce contro
vittime innocenti, e dunque va (o, nel caso della Russia, andrebbe)
rieducato con le bombe.
È impressionante osservare quanta fatica impieghino anche le menti più
acute a comprendere la logica immunitaria che lega un
dispositivo socioeconomico obsoleto al proliferare di narrazioni escatologiche
basate sulla produzione seriale di nemici. Soprattutto, non si afferrano le
ragioni elementari per cui l’occidente continua a comportarsi come un ubriaco
che cerca la rissa. Eppure, la logica è semplice: l’implosione viene affogata
in un’assordante cacofonia di eventi dai toni più o meno catastrofici. Il suono
delle bombe in Ucraina, Gaza, e Medio Oriente, così come il terrorismo da
guerra ibrida, le minacce di escalation nucleare, e gli attentati politici,
sono l’accompagnamento sinfonico all’inarrestabile declino dell’impero del
Bene. Solo il continuo “rumore emergenziale” può preservare l’illusione della
sostenibilità di un modello di civiltà arrivato a fine corsa. Ma è doveroso
chiedersi: fino a che punto sarà possibile riciclare il presagio dell’inaudito
nella mera provocazione apocalittica?
Guardiamoci intorno, i pupazzi sono usciti allo scoperto. Non si nascondono
più dietro a narrazioni finto-idealistiche come l’esportazione della democrazia
e del benessere. Piuttosto, da miseri burocrati in carriera quali sono, leggono
dallo stesso copione distopico. Il frontman NATO Jens Stoltenberg (nomen
omen) incita al conflitto diretto con la Russia, dichiarando senza alcun
pudore che dietro la crociata in Ucraina c’è lo scontro con la Cina. Larry Fink (capoccia
di BlackRock, con Vanguard la vera cupola dell’impero) sdogana la tesi
eugenetica della riduzione
della popolazione come incentivo alla competitività: ‘I problemi
sociali legati alla sostituzione degli esseri umani con le macchine saranno più
facili da gestire nei paesi sviluppati che hanno una popolazione in declino.’
Forse allora dovremmo chiederci: declineremo da soli o ci declineranno loro? E
quali sono le vere alternative? Ormai in molti hanno compreso che i barbari non
sono alle porte, perché sono tutti dentro. Fanno parte dell’impianto scenico,
una coreografia da film hollywoodiano distopico. Per questo non ci è difficile
ipotizzare che il capitale e i suoi viscidi funzionari possano ricorrere a
soluzioni eugenetiche. Perché nei termini utilitaristici del capitale-mondo,
l’energia di una forza-lavoro ridondante deve estinguersi o essere distrutta.
Amin Samman e Stefano Sgambati hanno osservato che ‘l’attuale sistema
finanziario opera sulla base di una “apocalisse mobile”, programmando e
rinviando continuamente milioni di punti terminali attorno ai quali sono
organizzate vite e mezzi di sostentamento.’
‘In questo modo, la finanziarizzazione del capitalismo installa
l’escatologia nel cuore della vita quotidiana, vincolando il soggetto
contemporaneo alle finalità della finanza attraverso la circolazione infinita
del debito. Viviamo tutti all’ombra dell’eschaton finanziario,
indipendentemente da come ci troviamo inseriti nella macchina finanziaria, e il
risultato è un trasferimento sull’economia del debito di tutto il carico
psicologico precedentemente riservato alla fine della storia.’[4]
Questa argomentazione può essere sviluppata rigirandola su sé stessa: la
bomba a orologeria inserita nel cuore dell’economia a leva viene ora impiegata
direttamente come arma bio- o geopolitica, affinché incarni esplicitamente “il
tempo della fine” (eschaton) nell’immaginario collettivo. Ciò porta alla
luce il contenuto represso della tesi sulla “fine della storia” di Francis
Fukuyama[5]. La famosa
affermazione che la liberaldemocrazia occidentale rappresenta la forma finale
del governo umano si realizza, oggi, nel collasso del futuro in un presente
claustrofobico, soffocato nelle dinamiche violente del debito e nella continua
minaccia di catastrofi globali: le liturgie escatologiche, ma prive di
redenzione, di ciò che ho definito “capitalismo emergenziale”, o “economia
libidica dell’apocalisse”.
Qui occorre essere precisi: l’annullamento del futuro coincide con la crisi
finale del capitale, ben rappresentata dalla crescente inconsistenza
del denaro. Il capitale monetario emerge ora come pura performatività
autoriflessiva, circolazione infinita di debito improduttivo, che
non realizza altro se non il nulla della propria
auto-proliferazione. Nell’era del capitalismo dell’ultra-finanza, il denaro
viene creato ex nihilo sotto forma di byte elettronici sugli
schermi dei computer delle banche, e quanto più velocemente circola come debito
da rifinanziare, tanto più accelera verso il suo destino rovinoso. Se è vero
che nell’olimpo finanziario il debito non viene saldato ma piuttosto
cartolarizzato e investito come asset in un loop potenzialmente infinito, in
realtà questo meccanismo è sempre più esposto a fragilità estreme – motivo per
cui il fantasma dell’apocalisse deve circolare direttamente nella realtà
quotidiana, sotto forma di catastrofe pandemica (Covid), naturale (cambiamento
climatico), geopolitica (Putin), e chissà cos’altro ancora. La caratteristica
principale del soft power occidentale è questa forma di
governo totalitario basato su retorica allarmistica, capace di
spostare la criticità di sistema su entità esterne, aliene, e minacciose
rispetto al nostro “stile di vita”.
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’accelerazione di questo modello di
governance. In passato bastava soffiare sul fuoco, magari con un ventaglio di
bigliettoni verdi. Così fu, per esempio, nell’ex-Jugoslavia quando, dal 1993, i
sauditi finanziarono un’operazione segreta per la consegna
di 300 milioni di dollari in armamenti al governo bosniaco, con la tacita
collaborazione degli Stati Uniti e in diretta violazione dell’embargo delle
Nazioni Unite (che la stessa Washington si era impegnata a far rispettare).
Questo come viatico alle criminali bombe NATO sulla Serbia; sulle quali,
ricordiamolo, disegnarono cuoricini anche Massimo D’Alema (Presidente del
Consiglio), Sergio Mattarella (Vicepresidente del Consiglio, con delega ai
servizi di sicurezza), e tutto il governo italiano di “centro-sinistra”,
evidentemente ansioso di accompagnare la NATO nell’espansione a Est. Come ha
riassunto Jeffrey Sachs[6] in una recente
intervista: ‘Nel 1999 abbiamo bombardato Belgrado [senza autorizzazione ONU] per 78
giorni, al fine di dividere la Serbia attraverso la creazione di un nuovo
stato, il Kosovo, dove ora abbiamo la più grande base militare NATO nell’Europa
sudorientale (Bondsteel).’
Oggi la guida USA-NATO istruisce i cagnolini europei ad abbaiare più forte
contro il Nemico, e i sottoposti, impegolati in antiche gelosie, fanno a gara
per ritagliarsi lo spazio warholiano dei quindici minuti di protagonismo
geopolitico. Dopo le sanzioni boomerang arrivano i missili boomerang:
l’autorizzazione a colpire il suolo russo con armi occidentali che, se
insistita, non potrà che ritorcersi contro i sudditi europei mandati ad
immolarsi per l’Imperatore. E come non bastasse è arrivato anche il taglietto
della BCE ai tassi d’interesse (mentre la medesima alza le stime
inflazionistiche!), che di fatto segna un ulteriore sacrificio a sostegno della
bolla azionaria USA. Perché la decisione di svalutare l’euro dello 0.25% non
serve a nulla se non a dirottare capitali verso il mercato statunitense, la cui
ampiezza (rapporto tra azioni in rialzo e azioni in calo in un dato indice),
come sottolinea persino Bloomberg, ha raggiunto il suo punto più basso
dal 2009, ed è sorretta quasi esclusivamente dal comparto tech (Nvidia in
primis).
Ecco dunque svelata la funzione del “progetto UE,” che, come ci ricorda Giorgio Agamben, non ha alcuna
validità politico-giuridica in quanto mero patto tra stati privo di fondamento
popolare: la Costituzione Europea (2004) fu clamorosamente bocciata nei
referendum francesi e olandesi del 2005, poi accantonata, e infine sostituita
dal Trattato di Lisbona (2007) – documento che ci si guarda bene dal sottoporre
all’approvazione del popolino brutto sporco e cattivo. D’altronde, è arcinoto
che il Parlamento europeo è un organo velleitario in quanto privo di quel
potere legislativo che invece afferisce alla Commissione, la cui attuale
papessa (Ursula) è espressione diretta delle élite di Washington e dunque
lontana dall’elettorato quanto la stella Earendel dal pianeta Terra.
Tuttavia, l’occidente continua a rifiutare l’introspezione, preferendo
invocare l’Altro come male assoluto. Per quanto l’esaurimento della civiltà
capitalistica sia globale, e sullo scacchiere geopolitico non s’intraveda alcun
modello di emancipazione realmente alternativo a quello attuale, l’odierno
sentimento antirusso è frutto di una consolidata tradizione ideologica. Perché
i russi sono da sempre considerati razza inferiore, barbari mischiati con i
Mongoli e dunque di natura infida, dalle “caratteristiche asiatiche.” La
russofobia è un’arma di tutto riguardo nell’arsenale della dottrina geopolitica
occidentale. Non importa se zaristi, socialisti o capitalisti di ultima generazione,
visti da ovest i russi da sempre ci appaiono come autocratici sottosviluppati
affetti da libidine da dominio. Freud, giustamente, direbbe che proiettiamo sul
Nemico mangiabambini le violente pulsioni coltivate nell’orto di casa. E oggi
questa secolare russofobia – sorta di discarica a cielo aperto del rimosso
occidentale – serve a nascondere il fatto che il capitalismo, nella sua veste
più moderna e avanzata di “stamperia globale”, ha raggiunto l’età
dell’impotenza. Detta con Hegel, l’occidente è una ‘forma di vita invecchiata’
– che però si crede ancora giovane e piena di energia.
Nel frattempo, il viagra del denaro facile sottoscritto dalle banche
centrali ha talmente rincitrullito le oligarchie occidentali da far loro
dimenticare di essersi deindustrializzate al punto da non poter più neppure
produrre armi e munizioni sufficienti a salvare le apparenze. E così ripartono
i mega investimenti (a debito) per il comparto tech-militare. Alla base della
nuova corsa alle armi c’è sempre la dipendenza dal feticcio della bolla
speculativa: trilioni (quadrilioni se contiamo i derivati) di denaro privo di
sostanza valoriale – cioè scorporato dal lavoro umano – che
orbitano sopra le nostre teste a ritmi vertiginosi grazie a massicce iniezioni
di moneta inflattiva. Come dire: la virtualizzazione dell’economia (denaro che
si auto-feconda senza valorizzarsi, ovvero senza attraversare i
corpi dei lavoratori che producono merci) ingenera ora una serie di grotteschi
spettacoli da grand guignol che potremmo leggere, in chiave
ironica, attraverso l’immortale adagio di Totò:
‘armiamoci e partite, io vi seguo dopo.’ Questo perché l’occidente arriva per
primo all’esperienza del collasso. Negli anni in cui Fukuyama vergava il suo
poco lungimirante classico, la fuga dei capitali nell’eldorado finanziario
aveva già iniziato a decostruire le società capitalistiche “avanzate”,
spingendole all’attuale condizione parossistica per cui si spende più per
rifinanziare il debito sovrano che per la riproduzione sociale (lavoro,
infrastrutture, trasporti, agricoltura, educazione, sanità, ecc.). Non per
nulla Fredric Jameson definì il postmodernismo (e la decostruzione) come una
sorta di tintura per capelli del “tardo capitalismo” neoliberista, in quanto
consegnava a quel progetto di violenta frammentazione sociale una hybris
culturale tipicamente borghese: ‘tutta questa cultura postmoderna, mondiale e
tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il
nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo: in questo
senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è
sangue, morte, tortura e orrore.’[7]
D’altronde, è difficile immaginare che una civiltà si sbarazzi allegramente
degli idoli che ne hanno segnato la storia. La Russia è in questo senso un
obiettivo storicamente comodo, pratico, e funzionale. Che nell’epoca moderna
sia stata bersaglio di espansionismo da ovest era un tempo materia da scuole
medie. Polonia (inizio Seicento), Impero svedese (fine Settecento), Impero
napoleonico (inizio Ottocento), Germania (Prima e Seconda guerra mondiale) –
invasioni che si sono tradotte in territori occupati, risorse devastate e
depredate, perdita di una parte ingente della popolazione; e altrettante
sconfitte. Il crollo dell’URSS determinò poi un vuoto geopolitico in cui si
infilò subito l’egemone, installando al potere un presidente alcolizzato (Boris
Eltsin) che avvallò il saccheggio sistematico delle immense risorse,
liberalizzando e privatizzando tutto il possibile. Imperialismo allo stato
brado passato per spontaneo processo di democratizzazione. Il risultato, per la
popolazione russa, fu un’enorme catastrofe sociale, economica, culturale, e
demografica.
Per comprendere l’attuale ondata di russofobia basterebbe consultare La
Grande Scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia
americana, di Zbigniew Brzezinsky (uscito nel 1997). Brzezinsky –
consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, co-fondatore con David
Rockefeller della Commissione Trilaterale (1973), e nota eminenza grigia della
politica estera statunitense dall’amministrazione di Lyndon Johnson fino a
quella di Barack Obama – espone chiaramente l’importanza dell’Ucraina come
‘perno geopolitico’ per il mantenimento della supremazia statunitense nel
continente eurasiatico – a conferma che “l’operazione Ucraina” era da tempo
stata messa in cantiere. Dare sostegno all’indipendenza ucraina, offrendo
l’adesione alla NATO e all’UE (Brzezinsky parla del decennio 2005-2015 come
‘periodo di tempo ragionevole’), sarebbe stato fondamentale per raggiungere
questo scopo. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto ‘attribuire un valore aggiunto
all’intrigo e alla manipolazione al fine di prevenire l’emergere di una
coalizione ostile che potesse eventualmente cercare di sfidare il primato
americano. […] Il compito più immediato è quello di garantire che nessuno stato
o combinazione di stati acquisisca la capacità di espellere gli Stati Uniti
dall’Eurasia o di diminuire significativamente il loro ruolo egemonico.’[8]
Condizioni altrettanto chiare venivano poste alla Russia: accettare il
primato globale degli Stati Uniti o auto-condannarsi al ruolo di “emarginato
eurasiatico”. Per quanto Brzezinsky avesse previsto rischi e difficoltà,
contava sul fatto che la terapia d’urto dell’ultra-liberalizzazione imposta
tramite Eltsin avrebbe a lungo favorito gli USA. Ma presto l’ottimismo degli
anni Novanta svanì, ed emerse un quadro diverso. La ripresa della Russia sotto
Putin, la crescita economica sostenuta della Cina, e il fallimento della
politica estera neocon dopo l’11 settembre hanno, da una parte, spinto
Washington a mettere quasi tutte le uova capitaliste nel paniere finanziario; e
dall’altra ad accelerare l’opzione del sabotaggio delle relazioni tra UE
(Germania in primis) e Russia. È in tale contesto che va collocata l’escalation
di quella strategia di ‘intrigo e manipolazione’ già caldeggiata da Brzezinsky.
Nel frattempo, la NATO era entrata in Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria
(1999), paesi baltici, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia (2004), Albania
e Croazia (2009), mentre già dal 2008 si preparavano le carte a Georgia e
Ucraina. Poi vi fu il golpe antirusso di piazza Maidan del 2014, la secessione
delle Repubbliche russofone del Donbass, l’annessione della Crimea, la strage
ucro-nazista di Odessa, e i ripetuti bombardamenti del Donbass (circa 14,000
vittime), fino all’Operazione Speciale del 2022 (tuttora venduta alle masse
come invasione dei Cosacchi che presto, come da retorica da Guerra Fredda,
porteranno i cavalli ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro). Ma il piano
originario di far implodere la Russia tramite sanzioni e armi all’Ucraina è
subito fallito, rivelandosi un bluff da giocatore di poker (più che di
scacchi). Ora l’autorizzazione a colpire il territorio russo con armi
occidentali (maneggiate da intelligence occidentale) è, evidentemente, la mossa
disperata di chi non ha altri argomenti che aumentare la percezione del rischio
per proteggere gli ultimi due fragilissimi bastioni imperiali: il dollaro quale
traballante valuta globale, e il complesso militar-industriale, funzionale alla
creazione di finanziamenti dal nulla a sostegno della gigantesca bolla equities
cui è appeso per la sacca testicolare il destino dell’impero stesso.
Contemporaneamente, sul fronte palestinese l’occidente tiene deliberatamente acceso
un teatro di guerra ancor più raccapricciante: esseri umani da più di 70 anni
trattati peggio delle bestie vengono fatti spostare tra le macerie per poi
essere sterminati senza pietà, arsi vivi nella plastica dei loro miseri
accampamenti, maciullati dalle bombe nelle scuole e negli ospedali. E su questa
barbarie assoluta, che di per sé mette una pietra tombale sulla
presunta superiorità morale e politica dell’occidente, si costruiscono solo
penose recite mediatiche tra la fazione dei moralisti, improvvisamente
risvegliatisi da istintivo torpore, e quella dei prezzolati propagandisti di
regime. In pochi hanno il coraggio di collegare i puntini e mettere il
dito nella piaga di un modello socioeconomico che si aggrappa alla guerra per
non cadere nel vuoto. Perché al sistema servirebbe proprio un salto di qualità
nel gioco al massacro, un sacrificio umano di dimensioni inaudite che consenta
al capitale di fare quello che ha sempre fatto: riprodursi. Il capitalismo
solipsistico dell’ultra-finanza si è già messo all’angolo da solo. Da almeno
mezzo secolo lavora alla propria dissoluzione, che gestisce seminando panico e
distruzione, fino alla promessa dell’apocalisse. Ma essendo null’altro che
dinamismo pulsionale – ossessione per il rendimento oggi affidata all’algoritmo
– il capitale non è in grado di riflettere su sé stesso in quanto causa del
proprio male. Il suo motore auto-espansivo si è già schiantato contro un muro.
Continuando ad accelerare arriverà presto alla completa auto-combustione.
Alleato alla tecnologia di terza e quarta rivoluzione industriale, il
capitale è giocoforza asociale ed eugenetico. Ha da tempo inibito il suo
dispositivo di riproduzione sociale incentrato sulla “necessità economica”
dell’estrazione di plusvalore dalla merce-lavoro (l’ossessione per la fatica
che ancora contraddistingue i moderni) da convertire in profitto attraverso la
competizione. Su questo versante non c’è più nulla da fare: o si comincia
realmente a costruire un mondo oltre il capitalismo, pianificando una via
d’uscita collettiva dal cerchio magico della merce (“merda metafisica”,
parafrasando Marx), o la tendenza distruttiva non potrà che accelerare.
Pensiamo davvero che ci siano altre soluzioni, magari riformiste?
C’è ancora chi ha il coraggio di usare questa parola in buona fede, senza
sentirsi attraversato da un profondo senso di inutilità esistenziale? Siamo ben
oltre il tempo massimo per le riforme. Siamo già nella fase in cui il capitale
divora tutto, incluso sé stesso, pur di sostenere l’illusione della propria
immortalità (illusione particolarmente dura a morire).
Le tecnologie digitali si sviluppano a ritmi incontenibili. Ma nonostante
questa crescita esponenziale renda precario un sistema che insiste a definirsi
“fondato sul lavoro produttivo di valore”, rimaniamo così legati alle categorie
del capitale, e dunque alla sua autorità, che per disfarcene avremmo bisogno di
uno sconvolgimento profondo delle nostre abitudini, e del coraggio di sgombrare
l’ego dai suoi attuali contenuti. Viceversa continuiamo ad aggrapparci
all’illusione che, se solo gestito meglio, il capitale saprà ancora una volta
uscire vincitore dalla sua crisi “ciclica”. Scriveva l’anarchico Bonanno: ‘Gli
sfruttati hanno quasi nostalgia di questa illusione. Hanno fatto il callo alle
catene e ci si sono affezionati. Sognano qualche volta affascinanti
sollevamenti e bagni di sangue, ma si lasciano abbagliare dalle parole delle
nuove guide politiche.’[9] D’altronde, già
Etienne de La Boétie, nel sedicesimo secolo, aveva posto la medesima questione
nel Discorso sulla servitù volontaria: ‘Sono dunque i popoli stessi
che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di
sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta,
si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà
rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio
male, anzi se lo procura.’[10]
Oggi questa passione per la sudditanza, tra il nevrotico e il perverso,
sembrerebbe seguire una doppia logica, che testimonia della natura divisa del
potere stesso. Da una parte, sappiamo che ogni emergenza può essere manipolata
attraverso il monopolio del codice del potere. Il capitale globalizzato si
permette il lusso di fomentare conflitti per poi scommettere su entrambe le
posizioni; ogni disputa può coincidere con i giochi di equilibrismo di chi
manovra le leve del potere. Ma, occorre ribadirlo, il limite di questa visione
sta nel sottovalutare la cecità autodistruttiva di un modello di
socializzazione che ha come unico fine la propria espansione. Oggi il
capitalismo d’emergenza ci lega al cappio dell’eschaton finanziario: come
dimostrato nel 2020, una psico-pandemia può servire a chiuderci in casa e
permettere al sistema di stampare trilioni di dollari da iniettare direttamente
nel corpo finanziario, così da rinviarne il collasso. Tuttavia questi subdoli e
criminali azzardi generano esplosive contraddizioni che le élite faticano a
tenere sotto controllo. L’odierna manipolazione a sfondo escatologico può rapidamente
avverarsi, trasformandosi in barbarie globale. Presumere che chi detiene il
banco sia in grado di bluffare in eterno significa cedere alla più pericolosa
delle illusioni.
[1] Joseph
Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy (New York:
Harper & Bros, 1942).
[2] L’Operation
Twist è una strategia di politica monetaria (già utilizzata dopo la
crisi del 2008) che consiste nella vendita di titoli di debito a breve termine
finalizzata all’acquisto di titoli di debito a lunga scadenza, i cui tassi in
questo modo vengono tenuti sotto controllo. Con l’utilizzo della Supplementary
Leverage Ratio, invece, le banche beneficiano di una leva pressoché
illimitata per l’acquisto di debito USA a un costo di finanziamento dello 0%;
operazione che, in sostanza, consente alle grandi banche di fare QE per conto
della Fed, assorbendo cioè quei titoli del Tesoro USA sempre più bistrattati.
[3] Al prossimo
convegno sulla Bird Flu a Washington, DC (2-4 ottobre 2024)
sono in programma gruppi di discussione sui seguenti temi: •Pianificazione
della gestione delle morti di massa •Sorveglianza e gestione dei dati
•Fornitura di vaccini e farmaci antivirali •Contromisure mediche •Impatto
socio-economico sulle industrie del pollame e dell’allevamento •Valutazione
rischi-benefici: sanità pubblica, industria e prospettive normative •Sforzi di
educazione alla prevenzione e comunicazione dei rischi •Comando, controllo e
gestione •Gestione della risposta alle emergenze •Pianificazione aziendale
•Pianificazione dell’educazione scolastica •Pianificazione delle comunità.
[4] Amin Samman and
Stefano Sgambati, ‘Financialising the Eschaton’, in Clickbait
Capitalism. Economies of Desire in the Twenty-First Century (ed. Amin
Samman and Earl Gammon), pp. 191-208 (193) (mia traduzione dall’inglese).
[5] Francis
Fukuyama, The End of History and the Last Man (London: Penguin
Books, 1992).
[6] Insieme ad altri
accademici USA come Richard Falk e John Mearsheimer, Sachs da tempo condanna
gli errori (e crimini) in politica estera commessi dai politici statunitensi,
da Bill Clinton a Joe Biden passando per George W. Bush, Barack Obama, e Donald
Trump. Gli illustri politologi non riconoscono però il legame causativo
profondo tra l’implosione economica e l’emergenzialismo/avventurismo bellico.
[7] Fredric
Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo (Milano:
Garzanti, 1989), p. 15.
[8] Mia traduzione
dall’inglese.
[9] Alfredo
Bonanno, La gioia armata (Catania: Edizioni anarchismo, 2013
[1977]), p. 13.
[10] Etienne de la
Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (Milano: Jaka Book,
1983), p. 42.
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