Il dominio del denaro si è affermato con la crisi delle religioni che per secoli hanno offerto alcune risposte all’angoscia per la morte. Ma una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, l’unico modo di accogliere la morte. Per mettere in discussione quel dominio abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, abbiamo bisogno cioè di luoghi nei quali la capacità di muoversi come collettivi che riscoprono l’azione politica si interseca con l’esperienza del singolo che viene riconosciuto come tale. Appunti dalla “Piazza del Mondo” di Trieste, abitata ogni giorno dai migranti della Rotta balcanica.
Tre punti di partenza ineludibili mi sembrano i seguenti: tutte le
rivoluzioni sono fallite; tutti i processi di trasformazione radicale, sono in
crisi, anche nell’ambito di culture non occidentali (anche lo zapatismo, ad
esempio, vive difficoltà e trasformazioni); il capitalismo, con un passo di
morte, ci sta portando verso il disastro sociale e biologico. In questo
scenario ci sono lotte e anche tentativi di alternative, ma non
sembrano in grado di produrre un cambiamento significativo in una
macchina di potere globale nella quale le questioni di egemonia, come tra Stati
Uniti e Cina, rendono ancora più devastanti le dinamiche politico-economiche.
Di certo, la cultura del capitale, nata in Europa fra il XV° e il
XVII° secolo, diffusa ovunque con violenza estrema, ha infranto il nesso vitale
tra riproduzione della vita e produzione degli elementi vitali necessari alla
riproduzione; detto con concetti più pregnanti, il capitale ha spezzato il
nesso fra cura e bisogno. Ha ridotto la cura, indispensabile alla nascita e al
lungo processo di crescita dell’essere umano, al minimo, confinandola nel
genere femminile e facendo della produzione del necessario per i bisogni vitali
un oggetto di compravendita, una merce. Il sorgere e la potente affermazione di
questa dinamica storica hanno rotto il vincolo vitale dei bisogni con l’effetto
di spingerli all’eccesso, moltiplicandone illimitatamente la produzione. Lo
scopo, infatti, non è più la necessaria soddisfazione del bisogno, ma la
produzione tendenzialmente illimitata dello scambio, cioè del valore di scambio,
del denaro.
Questa frattura fra cura (riproduzione) e bisogno (produzione) si manifesta
come una ferita irreparabile all’equilibrio della vita: una ferita mortale.
Il capitalismo ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio, ovvero
in qualcosa di quantificabile, che vuol dire di controllabile, anche se
paradossalmente – un paradosso che vorrei chiamare ontologico – è proprio
questo esasperato bisogno di controllo che provoca il suo contrario: la perdita
di ogni controllo, siamo su una nave nel mare in tempesta.
Mi chiedo e chiedo: come mai il valore di scambio è diventato così
importante da costituire lo scopo dominante, se non unico, della civiltà che
negli ultimi secoli si è imposta in tutto il mondo, al punto di mettere a
rischio la vita stessa? La risposta – nella misura in cui è possibile
rispondere a questa domanda – si può cercare nella crisi europea della visione
religiosa della società e della vita, fra XV° e XVII° secolo, in cui è
apparsa e si è sviluppata una variante che ha aperto prima un sentiero poi
un’autostrada in grado di rimuovere il problema fondamentale di tutte le
società, di tutte le culture: la questione della morte.
L’essere umano è il vivente consapevole della morte: questo produce
un’angoscia che deve essere elaborata o rimossa. Le religioni, in senso lato,
servono appunto ad elaborare l’angoscia per la morte, attraverso rituali
in cui gestire il transito dalla vita alla morte mediante l’accoglienza
comunitaria del lascito del defunto.
In questa nuova cultura, che da Marx in poi chiamiamo correntemente
capitalismo, la forma fondamentale dell’organizzazione della società è ciò che,
con nome di origine greca, chiamiamo economia: il nomos dell’oikos (casa o
luogo della vita quotidiana), che invece dovremmo chiamare polinomìa, il nomos
della polis. Questa cultura è caratterizzata dalla tendenza a ridurre i
rapporti sociali a rapporti tenuti insieme da un criterio quantitativo,
misurabile attraverso uno strumento di calcolo: il denaro, per cui il valore e
il potere individuali, e quindi il potere sociale, si misurano essenzialmente
con il possesso o il controllo del denaro diventato la forma fondamentale di
relazione sociale. Il potere della ricchezza è sempre stato notevole,
soprattutto nelle società più grandi e complesse, ma con il capitalismo è
diventato la forma stessa del vivere sociale, non solo: della vita intera,
trasformata in un magazzino di merci.
Una società caratterizzata da una forma valoriale e organizzativa
misurabile quantitativamente è risultata molto efficace proprio per il potere
dell’astrazione nel rimuovere l’angoscia per la morte, eliminando nel contempo
ogni forma rituale. Una società del denaro è necessariamente una
società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, ma la
comunità è l’unico modo di accogliere la morte.
C’è una notissima riflessione storica che può aiutare a comprendere in
Europa il passaggio dalla società precapitalistica, in cui il valore del denaro
era anche molto forte ma non totalizzante, alla società capitalistica. Mi
riferisco a Max Weber che individua la formazione di un’élite capitalistica a
partire dalla cultura calvinista, soprattutto nelle sue varianti anglosassoni,
in cui si elabora “l’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane
come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica”1, una cultura emigrata anche in nord America. Di
questa cultura, inizialmente propria di una élite di origine borghese, Oliver
Cromwell in Gran Bretagna e Benjamin Franklin in America del nord sono due
figure esemplari: il primo con una terribile violenza coloniale contro gli
irlandesi nella feroce convinzione, su base religiosa, che vadano educati al
lavoro, analoga al “Manifest destiny” che ha guidato culturalmente
l’affermazione degli Stati Uniti; il secondo offrendo l’esempio concreto di una
quotidianità operosa tutta dedita all’onesto guadagno: “ricordati che il tempo
è denaro”, “ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”, in
cui risulta evidente il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia
nell’operatività quotidiana. I due aspetti sono complementari: la violenza
estrema, giunta fino al genocidio e la serena operosità di ogni giorno e si
sono a lungo appoggiati reciprocamente. Oggi – possiamo dire che il primo è
scomparso a favore del secondo:
“un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una
remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo
industriale (ma ancora negli anni Cinquanta) il rapporto tra il salario
dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80,
di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di
dollari di oggi. […] la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha
spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di
Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita
sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per
motivarlo «serve qualcosa di diverso»”2.
Un chiaro esempio di come il denaro ha acquistato una valenza insieme
simbolica, di altissimo status sociale, e di potere concreto.
Il denaro si è rivelato come il fondamentale strumento di rimozione
dell’angoscia per la morte nella misura in cui è uno strumento di potere in
grado di diffondersi nelle società attraverso la gestione della soddisfazione
dei bisogni vitali trasformata in produzione in merci: il denaro è
modernamente il diaframma tra il bisogno e la sua soddisfazione. Ciò ha
moltiplicato illimitatamente i bisogni, trasformando il cittadino in individuo
consumatore. Il denaro è penetrato alla radice del carattere
relazionale della soggettività.
Senza denaro siamo nudi in mezzo al deserto, come i migranti che
attraversano il Sahara – e anche in molti vi muoiono.
Con il denaro siamo chiusi in una gabbia dall’estensione illimitata.
Trasformare la vita intera in una produttrice di denaro – cioè di potere
dei pochissimi su tutti, su tutto – sta però avvelenando la vita: la morte
rimossa tracima dal pavimento della cella, delle innumerevoli celle della
terra. Con un paradosso, che ancora mi permetto di chiamare ontologico, la
morte è diventata il mercato più importante: la produzione di strumenti
direttamente o indirettamente legati alla produzione di morte, in tutte le sue
forme, con alto sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza Artificiale, di cui
l’esercito di Israele si serve nel genocidio di Gaza.
In tale contesto, con un brusco salto storico ed esistenziale che contiene
un sofferto nesso biografico, è inevitabile la domanda “Che fare?”.
Colloco questa domanda nell’esperienza di vivere su un confine di Stato, di
fronte, quindi, a uno strumento caratteristico di produzione di quella
violenza. Arrivo allora al luogo che chiamiamo “Piazza del Mondo”: la
piazza alberata di fronte alla stazione di Trieste. I migranti in fuga e in
cerca che arrivano dalla Rotta balcanica mi danno – anzi: ci danno perché non
può che accadere in una dimensione collettiva – l’opportunità di produrre un
tentativo di risposta: il loro cammino mi spinge, ci spinge, lungo il
nostro cammino. La piazza del Mondo è un luogo in cui si manifesta il fondo
della soggettività: la ricerca di riconoscimento, sia come disperato bisogno di
autoaffermazione che come ricerca di sé nell’altro. È un luogo, quindi, in cui
traspare la prima matrice del gesto politico, che, nell’azione di massa tende a
confondersi nello slancio emotivo e corporeo della moltitudine, momento
necessario, di entusiasmo e di lotta, ma insufficiente – come dovremmo aver
dolorosamente compreso – se non accompagnato dall’esperienza del singolo.
Il tempo della singolarità e quello della moltitudine tendono a divaricarsi: il primo molto più
lento e complesso del secondo, che vive di slanci. Io credo che sia nata in
questa drammatica divaricazione la crisi dei periodi di azione politica
radicale, come quello a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Ma solo un rapporto tra le due dimensioni temporali può garantire la
continuità, collocando i momenti di massa lungo un cammino.
Nella Piazza del Mondo si agitano molto concretamente, nell’incontro fra
corpi, queste problematiche. I bisogni elementari, necessari, si
intersecano con i bisogni di riconoscimento, il dolore fisico e psichico con la
gioia, l’allegria, la frustrazione, come le lingue molteplici, la diversità di
culture…
1 Max Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo,
Sansoni 1965 (1922), p. 145.
2 Maurizio Lazzarato, La “guerra civile” in Francia”, da
Machina rivista on line.
Nessun commento:
Posta un commento