“Dal fiume al mare” è stato e continua ad essere lo slogan principale di tutte le manifestazioni contro la guerra di Gaza. Una protesta mondiale dalle università americane a quelle in Europa, fino in Australia. Manifestazioni in grandissima parte spontanee che in Israele e nelle comunità della diaspora ebraica hanno tentato di ridurre a episodi di antisemitismo.
Tuttavia, “Dal fiume al mare” è uno slogan che solo in
apparenza è chiaro e senza complicazioni: non c'è nulla del conflitto fra
israeliani e palestinesi che sia facile. Poco prima che esplodesse la protesta
globale contro la brutalità dell'offensiva israeliana, ero stato invitato a
parlare in un'università italiana. A una studentessa che insisteva sulla
necessità che dal Mediterraneo al fiume Giordano ci dovesse essere una sola
entità nazionale, avevo chiesto cosa lei intendesse.
Se stava
sostenendo che dal mare al fiume dovesse nascere uno Stato bi-nazionale,
palestinesi e israeliani insieme con uguali diritti, la sua rivendicazione era
più che rispettabile: aveva un senso politico. Sebbene sia convinto che si
tratti della soluzione del conflitto più difficile da raggiungere: servirebbe
il tempo di due generazioni e forse un po' di più, perché l'odio fra i due
popoli, stratificato da un conflitto secolare, possa incominciare a sciogliersi
fino a una comune quotidianità. Ma per quanto oggi sia impraticabile, l'idea di
un solo Stato per i due popoli mantiene un alto valore morale.
Nel suo modo
di intendere “dal fiume al mare”, aveva precisato la studentessa, c'era però
posto solo per uno Stato palestinese. Per riparare, dunque, l'ingiustizia
storica subita da un popolo, il palestinese, la soluzione del conflitto era
trasferire quell'ingiustizia sulle spalle di un altro popolo, l'ebraico.
Non è stato
facile spiegare a chi mi ascoltava che dove vivo – a Gerusalemme - gli unici a
gridare lo slogan “Dal mare al fiume un solo Stato”, evidentemente quello
d'Israele, sono i coloni, i nazionalisti religiosi Itamar
Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e i loro accoliti, sostenitori del suprematismo
ebraico. Cioè i fascisti di quaggiù.
Per alcuni
di loro il territorio compreso fra il
Mediterraneo e il Giordano è perfino inadeguato alle dimensioni d'Israele
indicate dai testi sacri: la sua frontiera orientale è l'Eufrate, quella
settentrionale il Litani libanese e a Sud tutta la penisola del Sinai.
Le ambizioni
diverse di uno stesso slogan, aiutano a capire quanto sia complicato questo
conflitto. È uno scontro fra due nazionalismi, due etnie e da una trentina
d'anni, è anche una guerra religiosa. Progressivamente sempre di più. Qui a
Gerusalemme c'è ormai troppo Dio perché gli uomini possano determinare il loro
futuro con moderato pragmatismo.
“Ha perso
Israele, hanno vinto gli ebrei”, disse il laburista Shimon Peres dopo le
elezioni del 1996, quando fu inaspettatamente sconfitto da Benjamin Netanyahu.
Il nazionalismo attraverso la lettura biblica, il passato, la storia confusa
col mito, avevano incominciato a rendere impossibile una soluzione di
compromesso tra i due popoli. Il crescente successo di Hamas fra i palestinesi
era la prova di una speculare involuzione religiosa: il millenarismo come
ideologia.
Oggi, in
mezzo a una guerra sempre più distruttiva, sembra impossibile pensare a un
negoziato per uno Stato palestinese. Gli insediamenti ebraici si sono
moltiplicati e i coloni sono sempre più armati. Ma come alternativa a un
conflitto senza fine, continua a esistere solo una spartizione territoriale fra
i due popoli.
Guardiamo a
quella che un tempo fu la Palestina del vecchio mandato britannico iniziato nel
1920, che gli inglesi, incapaci di risolvere il conflitto, nel 1948
consegnarono alle Nazioni Unite. Israele, la striscia di Gaza, Gerusalemme Est
e Ovest, e i territori occupati in Cisgiordania: sono 25.500 chilometri
quadrati, poco meno della Sicilia.
In questo
piccolo territorio del Levante mediterraneo oggi vivono circa sette milioni di
ebrei e un numero di poco superiore di palestinesi, sia musulmani che
cristiani. Quasi 15 milioni, dunque, con una demografia crescente a favore
degli arabi. Gli abitanti della Sicilia sono meno di 5 milioni.
Appare
dunque evidente la constatazione di Rashid Khalidi, il più importante storico
palestinese che insegna alla Columbia University di New York, sulla cattedra
dedicata a Edward Said: “Come Israele è qui per restare, anche i palestinesi
sono qui per restare”.
Ignorare
questa realtà, preferendone un'altra inesistente e impraticabile, è come dare
un contributo al prolungamento della tragedia palestinese; gridare che dal mare
al fiume c'è posto solo per la Palestina, è come istigare un popolo che già ha
pagato un prezzo altissimo, a continuare un conflitto che non può vincere. Sul
piano militare, politico, diplomatico, economico, tecnologico, Israele è di
gran lunga più attrezzato. Può essere infastidito, perfino minacciato; può
essere costretto a un senso d'insicurezza permanente, ma non vinto. L'uso della
forza non è la strada per arrivare all'indipendenza nazionale palestinese.
Tuttavia,
nemmeno Israele può vincere del tutto, ignorando l'altro lato della realtà:
l'esistenza e la determinazione dei palestinesi. Prima del 7 ottobre, il giorno
dell'aggressione di Hamas, Israele era convinto di poter “gestire” il conflitto
con i palestinesi. Brutali assalti nelle città della Cisgiordania, centinaia di
morti, persecuzioni e migliaia di arresti; l'autonomia palestinese ridotta
dentro piccole isole metropolitane, una specie di bantustan mediorientale,
simile a quello dell'apartheid sudafricano.
La comunità
internazionale non protestava. Gli Stati Uniti, l'Unione Europea, l'ONU, la
Cina né la Russia: nessuno premeva per riprendere la trattativa su uno Stato
palestinese. Nemmeno i ricchi e influenti arabi del Golfo: erano più
interessati all'Hi-Tech israeliano che al destino dei palestinesi i quali, in
verità, non erano mai stati amati.
È umiliante per tutta la diplomazia internazionale, le potenze globali e regionali, gli organismi multilaterali e la dignità della politica, che a ridare vigore alla causa palestinese sia stata un'organizzazione terroristica guidata da uno psicopatico. Per Yahya Sinwar, capo dei capi di Hamas, i 2,3 milioni di abitanti di Gaza non sono che un'arma tattica da sacrificare ai suoi disegni di potere. Sinwar è insensibile alle migliaia di bambini uccisi sotto le bombe e a quelli che stanno morendo di fame, esattamente come la maggioranza degli israeliani.
Tuttavia, la
guerra di Gaza sta anche dimostrando che il conflitto tra i due popoli non può
essere risolto con le armi. L'assalto di Hamas il 7 ottobre
dell'anno scorso, ha innescato la crisi più grave nella storia del loro confronto. Ma non è
stato un episodio capitato all'improvviso, inaspettato e senza una causa
plausibile: è stato il frutto malato e perverso di decenni di occupazione
israeliana sempre più brutale.
Ora questa
crisi può trasformarsi in una opportunità, se gestita con lungimiranza e senza
testi sacri. Nessuno ancora sa quando e soprattutto come la guerra finirà; cosa
ne sarà di Gaza, e se Israele saprà liberarsi di Netanyahu e del suo governo di
razzisti. Ma quando inizierà, il così detto “day after” sarà l'ultima occasione
per i palestinesi di raggiungere l'indipendenza nazionale. E per gli israeliani
l'ultima per vivere in un paese normale, senza frontiere trasformate in prima
linea. Tutto questo richiede un realismo che i due popoli faticano a mostrare,
e una capacità ancora più rara di ascoltare l'uno la storia dell'altro. È
difficile credere che accada ma è anche impensabile che prima o poi il
conflitto non finisca.
Diversi anni
fa, un importante scrittore israelo-palestinese di Haifa, Emile Habibi, aveva
coniato un atteggiamento mentale, diventato il manifesto per chi vuole
sopravvivere a questo conflitto così ostinato e pervasivo: il pessottimismo.
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