domenica 6 giugno 2021

Tulsa 1921, licenza di uccidere

 

100 ANNI FA IL MASSACRO RAZZIALE DI TULSA - Claudio Geymonat

 

Fra il 31 maggio e il 1° giugno 1921, cento anni fa, nella città di Tulsa in Oklahoma, si compì uno dei peggiori episodi di violenza razziale nella storia degli Stati Uniti, a lungo poco conosciuto visti i grandi sforzi messi in atto per mettere a tacere le voci che intendevano raccontare un massacro costato la vita a centinaia di persone e la distruzione di migliaia di abitazioni.

Tulsa aveva all’epoca centomila abitanti, diecimila dei quali afroamericani confinati nel prospero quartiere di Greenwood. Il 30 maggio in città si diffonde la notizia di una presunta violenza sessuale perpetrata da un ragazzo di colore a una giovane bianca, violenza mai provata. Al calar della sera una folla inferocita si riunisce all’esterno del carcere cittadino in cui il ragazzo è stato relegato, con la volontà di linciarlo. L’isteria collettiva cresce e si scatena una violenza inaudita, una caccia all’uomo degna del far west. Secondo una stima successiva furono bruciate 1256 abitazioni di afroamericani, altre 215 furono saccheggiate. Vennero distrutti un ospedale, una scuola, due giornali, varie chiese, negozi e molte altre attività. Il governatore Robertson istituì la legge marziale e venne inviata in Oklahoma la Guardia Nazionale.

Nelle ore successive tutte le accuse contro il giovane furono ritirate.

L’Oklahoma Bureau of Vital Statistics ha registrato ufficialmente 36 morti. Tuttavia, vari storici stimano che il bilancio delle vittime potrebbe essere stato di molto superiore, di 300 unità, mai denunciate o mai registrate.

Negli anni a venire, mentre i Black Tulsans lavoravano per ricostruire le loro case e attività commerciali in rovina, la segregazione in città aumentò e il nuovo ramo del KKK, il Ku Klux Klan dell’Oklahoma crebbe in forza. Per decenni, non ci furono cerimonie pubbliche, memoriali per i morti o qualsiasi tentativo di commemorare gli eventi del 31 maggio-1 giugno 1921. Invece, ci fu uno sforzo deliberato per insabbiarli.

Il Tulsa Tribune, il principale giornale locale, ha rimosso dai suoi volumi rilegati la prima pagina del 31 maggio che aveva contribuito in maniera determinante a scatenare il caos in città, cavalcando con forza la notizia dello stupro, e gli studiosi hanno scoperto che mancano anche notizie negli archivi della polizia e della milizia statale. Di conseguenza, fino a poco tempo fa il Tulsa Race Massacre è stato raramente menzionato nei libri di storia, insegnato nelle scuole (compare nei testi dei libri di testo solo dal 2009) o addirittura ricordato.

Gli studiosi iniziarono ad approfondire la storia della rivolta negli anni ’70, dopo che era trascorso il 50° anniversario. Nel 1996, in occasione del 75° anniversario della rivolta, si tenne una funzione presso la Mount Zion Baptist Church, che i rivoltosi avevano raso al suolo, e fu collocato un memoriale di fronte al Greenwood Cultural Center. L’anno successivo, dopo la nomina di una commissione ufficiale del governo statale per indagare su quei fatti, scienziati e storici hanno iniziato a esaminare le vicende, comprese l’analisi delle numerose vittime sepolte in tombe senza nome.

Nel 2001, il rapporto della Race Riot Commission ha concluso che tra 100 e 300 persone sono state uccise e più di 8.000 persone sono rimaste senza casa in quelle 18 ore di follia collettiva.

La commissione ha raccomandato che lo stato  e la città di Tulsa risarcissero i sopravvissuti al massacro e i loro discendenti. Una campagna per la giustizia legale costituita nell’aprile dello stesso anno, la Tulsa Reparations Coalition, iniziò a guadagnare risalto nazionale. Nel 2003, un team legale composto da eminenti leader dei diritti civili ha intentato una causa civile, Alexander v. Oklahoma, contro la città di Tulsa, il dipartimento di polizia di Tulsa e lo stato dell’Oklahoma per conto di oltre 200 sopravvissuti e discendenti di vittime del massacro. Il distretto federale e le corti d’appello dell’Oklahoma hanno respinto le richieste perché i reati erano caduti in prescrizione.

La chiesa metodista afroamericana Vernon di Tulsa è uno degli attori che hanno presentato una querela per chiedere alla città e ad altri imputati federali di risarcire i parenti delle vittime.

La Vernon, fondata nel 1905, è l’unica chiesa rimasta parzialmente in piedi durante la caccia all’uomo.

Il pastore della chiesa Vernon, Robert Turner, arrivato in città nel 2017 , è d’accordo con tutte le raccomandazioni della commissione e spera in un’indagine penale completa. La sua petizione per le riparazioni è stata firmata da più di 26.000 persone.

Robert Givens è pastore della Christ Temple Christian Methodist Episcopal Church, una congregazione fondata a Greenwood ma che dopo i fatti del 1921 si è trasferita. La sua costruzione originaria era ancora nuova quando fu distrutta nel massacro.

«Non è mai stato fatto nulla per le vittime e i loro parenti», ha detto alla stampa in questi giorni.

Alcuni di coloro le cui famiglie sono sopravvissute al massacro sono diventati figure chiave nella storia nera della città. Il defunto John Hope Franklin, il famoso storico, era un membro di Christ Temple, e suo padre, l’avvocato B.C. Franklin, ha contribuito a estinguere l’ipoteca della chiesa sull’edificio in mattoni costruito dopo il massacro.

Jim Winkler, presidente e segretario generale del Consiglio nazionale di chiese cristiane negli Stati Uniti ha ricordato: «Sono nato in Oklahoma e ho ancora una famiglia lì. I miei nonni hanno vissuto appena fuori Tulsa dagli anni ’50 agli anni ’80. Ma non ho mai sentito una parola sugli eventi del 1921. Tuttavia, appena due anni prima c’è stato un altro massacro di neri intorno a Elaine, Arkansas nel 1919. A quel tempo, mio ​​nonno, allora adolescente, viveva a circa 40 miglia di distanza, a DeWitt. È facile per i bianchi pensare a tali eventi come a una storia antica a cui non hanno alcun collegamento, ma a volte se ci si ferma a considerare vari fattori: dov’era la mia famiglia a quel tempo? Quali atteggiamenti razziali avevano? Potrebbero aver sentito parlare di questi terribili incidenti? Ne hanno discusso con la famiglia e gli amici? Come li ha formati e cosa hanno raccontato ai loro figli di quei giorni? Sono abbastanza certo che mio nonno, un devoto razzista, non abbia raccontato ai suoi figli di quei massacri. Dubito che fosse infastidito da quello che è successo, ma grazie a mia nonna e all’influenza della sua fede e del suo coinvolgimento nelle United Methodist Women, i suoi figli sono diventati tutti devotamente antirazzisti e hanno trasmesso quell’eredità a me, ai miei fratelli e ai nostri figli. Spero che in ogni casa si possa parlare di simili tragedie per dirsi “Mai Più”».

(*) ripreso da riforma.it

da qui

 

 

TULSA 1921. REALIZZAZIONE E MASSACRO D’UN SOGNO (AMERICANO) - Andrea Sartori

 

Esattamente un secolo fa, un intero quartiere (Greenwood) abitato da circa 10.000 afroamericani nella città di Tulsa, in Oklahoma, venne dato alle fiamme, causando morti e devastazione. Gli aggressori erano una folla inferocita di uomini bianchi, risentiti e insofferenti del fatto che una popolazione di colore avesse raggiunto, tramite l’impegno e il lavoro, un livello di prosperità economica e sociale superiore al loro. A neanche sessant’anni dall’abolizione della schiavitù (1865), Greenwood era infatti conosciuta come l’America’s Black Wall Street.

In un lungo reportage interattivo e a più mani del 24 maggio 2021,[1] il New York Times sottolinea come, per la white mob di Tulsa, il colore scuro della pelle non potesse combinarsi con una condizione di benessere. La violenza dei bianchi infuriò per due giorni, dal 30 maggio all’1 giugno, diede alle fiamme 35 isolati e più di 1.250 abitazioni, uccise 300 persone poi sepolte in fosse comuni, distrusse chiese, negozi, banche e altre fiorenti attività commerciali. La dinamite lanciata dagli aerei in volo, secondo gli storici, rappresenta il primo attacco dal cielo sul suolo statunitense, il precedente – per mano americana – di Pearl Harbor e dell’11 settembre. All’atroce danno si sommò la beffa, quando i residenti di colore, accusati d’aver incitato le sommosse, vennero detenuti in campi di prigionia.

Dopo che per 80 anni il massacro di Tulsa ha galleggiato in una zona grigia della coscienza    tra memoria, inconsapevolezza e rimozione, lo State Commission Report del 2001 ha quantificato in 27 miliardi di dollari odierni i danni economici di un massacro che ha alterato per sempre le storie famigliari d’una intera città.

Nel 1921, gli Stati Uniti persero l’occasione di sviluppare una storia possibile. Una storia che, anzi, era già la realizzazione dell’American dream: la messa in opera, perfettamente riuscita, d’un sogno d’integrazione e successo personale e imprenditoriale, da parte di ex schiavi e di loro discendenti, nel cuore del Nord America.

Nella sua inchiesta, il New York Times insiste nel mettere l’accento non sulla questione identitaria della blackness di per sé, ma sul successo economico del quartiere di Greenwood. In questo modo il giornale mostra che quella del massacro non era una comunità incline a vittimizzarsi, a identificarsi con un passato d’oppressione e sfruttamento e ad appiattirsi su di esso. Tutt’altro: i neri di Greenwood incarnavano i tratti migliori del sogno americano, quelli dell’iniziativa e dell’entusiasmo. Questi tratti non erano più accompagnati, nel caso degli anni d’oro di Greenwood, da violenza, schiavitù e segregazione razziale, ovvero da ciò che, in linea con il genocidio delle popolazioni indigene, costituisce l’origine stessa degli Stati Uniti (Roxanne Dunbar-Ortiz, An Indigenous Peoples’ History of the United States, Beacon Press, Boston, 2015). Nell’analisi di Dumbar-Oritz, infatti, la vera fondazione degli USA entra in dissonanza con le retoriche della scoperta e della conquista di terre ‘selvagge’, ma anche con la narrativa dell’indipendenza dei coloni e della loro presunta missione civilizzatrice. Quelle retoriche e quella narrativa hanno definito e definiscono il racconto mainstream riguardo alla genesi degli USA e al ruolo che essi hanno poi avuto a livello internazionale.

Ebbene, all’inizio del ‘900, la comunità afroamericana fiorita intorno a Greenwood Avenue nella città di Tulsa aveva efficacemente sfatato, per almeno due decenni, un destino che la voleva vittima delle circostanze della propria origine. Questo non ha impedito che, l’1 giugno 1921, quella comunità dovesse piegarsi a una violenza e a un razzismo i quali, da tratto originario della fondazione d’uno Stato, sono divenuti elemento strutturale d’una forma di vita.

Il New York Times ha intervistato i famigliari delle vittime di Tulsa e Star Williams, 40 anni, nipote di Otis Grandville Clark, 18 anni all’epoca del massacro, sottolinea che suo nonno “spesso parlava di come ci si potesse godere la vita a Greenwood, e di come tutto quello di cui si aveva bisogno fosse presente nel quartiere […]. Il nonno diceva che il successo dei neri era visibile e che il senso della sua stessa identità e il suo orgoglio provenivano proprio da Greenwood”.

Quel che è sorprendente, in racconti come questo, è che l’identità dei neri non viene radicata dalle stesse persone di colore innanzitutto in un passato ancestrale, nel mito d’una terra e d’una cultura da difendere, ma in un presente operoso. Il presente, per Grandville Otis, era quello di un luogo nel quale i suoi avi erano stati deportati, ma che a quel punto, nel 1921, era vissuto come accogliente, come serbatoio di opportunità. Il massacro di Tulsa andò pertanto ad attaccare proprio questa modalità positiva e aperta del pensare, ormai estranea alla mitologizzazione reattiva del passato e dell’origine, e quindi autenticamente progressiva.

La storia di Tulsa ci dice qualcosa d’importante per l’oggi, perché mette in evidenza come la fuoriuscita dalla povertà sia il principale mezzo di contrasto alla subalternità, molto più di campagne identitarie astratte, che spesso se lasciate a sé stesse trascurano i problemi reali e non divisivi. Questi ultimi sono comuni a interi gruppi d’individui e sono indipendenti dall’origine etnica, dal sesso, dall’identità di genere e culturale: il lavoro, la sanità, l’istruzione sono tutti aspetti della vita ordinaria ai quali dà accesso uno status economico-sociale decente, come quello degli abitanti di Greenwood prima del massacro.

Da tale punto di vista, l’elezione e l’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti hanno fornito segnali ambivalenti. Le perplessità riguardano, come spesso accade nelle società televised, la modalità spettacolare della comunicazione politica, che sembra concentrarsi sugli effetti sensazionali dei messaggi e meno sui contenuti reali.

Il 20 gennaio 2021, venti giorni dopo i tragici fatti di Capitol Hill, sul lato ovest della stessa Capitol Hill s’è svolta infatti la cerimonia per l’incarico del nuovo presidente. Questi ha invitato l’afroamericana di Los Angeles Amanda Gorman a leggere una propria poesia, The Hill We Climb. Con questo gesto, in una cornice non poco hollywoodiana, Biden ha inteso ribaltare, in una sede istituzionale, le dinamiche escludenti del razzismo. Gorman non solo è di colore, ma è anche la più giovane poetessa e attivista di sempre scelta per questo ruolo. I lavori di Gorman, inoltre, trattano di oppressione, femminismo, razzismo, emarginazione e il loro venire ora in primo piano è – almeno nelle intenzioni manifeste e pubblicizzate – un segnale di rottura rispetto a un tipo di mentalità che per cento anni ha relegato un fatto come quello di Tulsa in un punto cieco della coscienza a stelle e strisce.

Alcune polemiche sono però sorte quando, a seguito del successo ottenuto da Gorman a Capitol Hill e quindi in tutti gli Stati Uniti, la casa editrice e la poetessa hanno ritirato i diritti di traduzione in Europa di The Hill We Cilmb, inizialmente concessi a una traduttrice per l’olandese e a un traduttore per il catalano. Le motivazioni addotte per il ritiro dei diritti sono state che la traduttrice non era una donna di colore e che il traduttore era un uomo bianco, non più giovane. L’assunto implicito alla base di queste decisioni, è che solo una giovane donna di colore può tradurre il testo d’una giovane donna di colore, in virtù d’una immediata similarità delle rispettive esperienze di vita, in virtù, cioè, della loro reciproca identificazione.

            La traduzione, si potrebbe tuttavia replicare, esiste perché è un tentativo di commensurare l’incommensurabile, di trovare un’altra lingua che getti dei ponti tra le culture anziché ribadire la medesimezza dell’identità.

            Naturalmente, per quanto riguarda gli Stati Uniti, il ritiro dei diritti di traduzione è più che comprensibile se si considera quanto è accaduto a seguito delle ricorrenti violenze perpetrate dalla polizia a danno degli afroamericani, sino all’evento simbolo dell’uccisione di George Floyd il 25 maggio 2020 a Minneapolis.

Ci si deve quindi esonerare dal pensare criticamente il nesso tra identità e politica, e tra politica e spettacolarizzazione dei messaggi istituzionali?

            Forse no. Va allora notato che, sull’onda del significato politico-sociale che la figura di Gorman ha rapidamente assunto dopo la cerimonia a Capitol Hill, Vogue Magazine ha deciso di dedicare a Gorman la sua copertina del numero di maggio 2021. La foto è stata scattata da Annie Leibovitz ed è titolata: The rise and rise of Amanda Gorman. Poet, activist, phenomenon.

            La parola phenomenon fa riflettere, poiché è coerente con il tratto spettacolarizzato e hollywoodiano della stessa cerimonia d’insediamento. Nella fotografia multicolore di Leibovitz, in cui il colore della pelle di Gorman risalta tra quelli accuratamente scelti e sgargianti dei suoi vestiti e dello sfondo esotizzante, è infatti la dimensione manifestativa (fenomenica) della percezione a essere valorizzata. Il mondo fashion lancia cioè il messaggio che la molteplicità dei colori che s’offrono alla percezione, è quel che rende bella la multiculturalità americana, la quale è presentata innanzitutto come una questione di sollecitazione percettiva, una sollecitazione che per di più evoca, con il tratto esotico della cover di Vogue, l’origine africana di Gorman. La copertina, tramite il colore verde brillante dell’abito immortalato da Leibovitz, sembra anche alludere a una svolta green o eco della nuova amministrazione. In tutto ciò non v’è ovviamente spazio per soffermarsi sul gesto paternalistico e fors’anche patriarcale di Biden (la scelta strategica d’una giovane afroamericana per il reading dell’insediamento), men che meno per i dubbi sul rapporto tra politiche identitarie e traduzione. La percezione d’un evento sensazionale (‘fenomenale’), infatti, sostenuta da una solida cultura dell’immagine e dall’inclinazione per le narrazioni edificanti, è più immediata, più d’impatto, più eloquente d’ogni altra cosa.

            La sensazionalità d’una cerimonia e della copertina d’un magazine prestigioso non è però sufficiente ad andare incontro alle esigenze d’una popolazione strutturalmente sottoprivilegiata. Quella sensazionalità non è abbastanza per fondare nella realtà le speranze di cambiamento di molti americani, i quali cercano rassicurazioni sul piano del lavoro, della salute, dell’istruzione, un tipo di rassicurazioni che gli abitanti di Greenwood erano riusciti a ottenere tramite condizioni favorevoli di prosperità e tramite il proprio lavoro.

            La politica di Biden per fortuna non è tutta nell’evento di Capitol Hill, ed è proprio questo fatto a far ben sperare, molto più della spettacolarizzazione, di per sé, del colore della pelle, una spettacolarizzazione che rimane confinata al piano ineffettuale della percezione.

L’American Rescue Plan Act è d’altra natura e Simon Kuper sul Financial Times (15 aprile 2021) ha osservato che i suoi duemila miliardi di dollari servono non tanto alle battaglie identitarie, ma a frenare davvero il cambiamento climatico e soprattutto a sostenere l’economia e il lavoro, con inevitabili vantaggi anche riguardo alla diversity etnica. Quindi: Forget Idenity Politics: Economics Is What Matters Now.  Kuper, d’altra parte, evidenzia che il motivo per cui gli afroamericani vivono in media sei anni in meno dei loro compatrioti, non è l’orribile violenza di cui la polizia ha dato troppe volte prova, ma la povertà. Questa richiede una spesa pubblica funzionale a tagliarla, come nella proposta di legge di Biden.

Lavoro e lotta alla povertà sono temi che non hanno il potenziale divisivo e identitario della mera percezione dell’altro. Al di là di come percepiamo qualcuno, v’è chi quel qualcuno è. Una politica comune e davvero non razzista dovrebbe attingere questo chi, ovvero una dimensione dell’esperienza in cui ognuno può vedere anche tratti di sé stesso a dispetto delle proprie, soggettive, percezioni e delle proprie origini culturali: a dispetto, cioè, della propria identità – la quale, come ogni identità, è irriducibile e in fondo apolitica.

Se così non fosse, il bel sogno di Amanda Gorman pubblicizzato da Vogue e subito amplificato su Instagram, non sarebbe tale anche per chi non è stato invitato a Capitol Hill il 20 gennaio di quest’anno – inclusi tutti gli altri afroamericani, i discendenti delle popolazioni indigene, gli asiatici, i latinos, le minorities di diversa provenienza, i bianchi poveri.

 

[1]https://www.nytimes.com/interactive/2021/05/24/us/tulsa-race-massacre.html?utm_source=pocket-newtab

 

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