martedì 13 settembre 2022

Askatasuna e sindacati di base: il primato della partecipazione contro la repressione - Enzo Ferrara

 

L’11 luglio scorso il GIP ha chiesto alla Procura di Torino di riformulare le accuse contro gli attivisti del centro sociale Askatasuna, escludendo il reato loro contestato di associazione sovversiva. Sulla base di migliaia di ore di intercettazioni, il 29 luglio 28 attivisti sono stati rinviati a giudizio per reati contro le forze dell’ordine, le istituzioni e il Tav Torino-Lione; 16 sono accusati di associazione per delinquere: avrebbero costituito un gruppo criminale dedito a una serie indeterminata di delitti a scopo di lucro in Val di Susa. Su tutti pendono provvedimenti cautelari in attesa del processo il 20 ottobre prossimo.

Askatasuna significa in lingua basca “libertà”. È il nome scelto dal centro sociale più noto di Torino, la cui storia cominciò – spiega il sito Infoaut – “il 16 novembre del 1996, quando con un corteo studentesco autorganizzato, i compagni e le compagne autonome si staccarono da una manifestazione istituzionale per liberare l’ex Asilo degli Gnomi, in corso Regina Margherita 47”. L’etimo arriva dal passato profondo: è probabile la radice accadica di “scaturire”, che letteralmente è “sfuggire dalle mani”, “rinascere” dopo una prigionia o, per stare sulla stessa etimologia, dopo una “cattività”.

Il termine “cattività” a sua volta rimanda a un lucido testo di Claudio Novaro: Costruire il nemico: Askatasuna, i No Tav, il conflitto sociale, apparso dopo le notifiche di luglio su un sito di attivismo molto noto a Torino: Volere la Luna. Novaro ha raccolto la lezione dell’avvocata dei poveri Bianca Guidetti Serra, ed è il più noto difensore dei dissidenti valsusini nei tanti processi che li vedono coinvolti: si contano ormai più di cento procedimenti giudiziari legati al TAV in valle. “In questo cattivo presente – è il suo incipit – con una guerra che imperversa nel cuore dell’Europa, può sembrare residuale continuare a ragionare sulla repressione giudiziaria del conflitto sociale. Eppure l’ennesimo procedimento aperto a Torino, questa volta contro gli esponenti del centro sociale Askatasuna, merita una riflessione, perché evidenzia esemplarmente un cambio di passo dei dispositivi repressivi”. Novaro prosegue con una disamina degli avvenimenti giudiziari riguardanti Askatasuna, i No Tav e l’antagonismo torinese. Non torniamo sulla consistenza delle accuse della procura, che Novaro ha analizzato spostando l’attenzione sulle derive giudiziarie e democratiche che potrebbero sottendere alla loro origine; aggiungiamo solo che parlando di cattivo presente, ha offerto una riflessione anche etimologica sulla vicenda ricollegandola al concetto di “cattività”, ovvero di “prigionia del presente” in opposizione alla sua pretesa libertà correlata con i principi della democrazia.   

Come Centro Studi dedicato a un disobbediente torinese, Domenico Sereno Regis, abbiamo già ricordato che laddove valgono i principi delle libertà democratiche vige il “primato della partecipazione” garantito dall’articolo 3 della Costituzione, che non corrisponde alla semplice cattura di consenso da parte dei partiti e va inteso: “non come un tranquillante per creare meno grane agli amministratori, e ancora meno come mezzo di gestione del consenso popolare o come forma di compromesso cogestionale, bensì sarà quel modo nuovo di fare politica, in cui il cittadino, acquisita una sua maturità politica, rifiutata la delega in bianco e a tempi lunghi, tenderà a rivitalizzare gli attuali strumenti di democrazia, superando i momenti deteriori del parlamentarismo e della partitocrazia, esigendo una gestione sempre più diretta, cosciente, comunitaria dei problemi della società in cui opera” (D. Sereno Regis, Relazione Conferenza Nazionale sul Decentramento, in C. Bassis, “Domenico Sereno Regis”, Beppe Grande Edizioni, Torino 2012, p. 201).

Libertà, democrazia e partecipazione formano una triade inseparabile: non si dà l’una senza le altre due. Purtroppo, sembra che non sia questo il punto di vista dominante. Dura da tempo, ma nelle scorse settimane il paradigma repressivo anti-democratico, anti-libertario e anti-partecipativo si è reso più visibile anche in altri ambiti. Più in piccolo, sempre a Torino il 25 luglio, giorno di apertura del meeting europeo Climate social camp di Fridays for future, durante lo svolgimento di una manifestazione nonviolenta per il clima, la questura di Torino ha emesso un’altra trentina di denunce e 5 fogli di via contro attivisti di Extinction Rebellion. Nel primo giorno del meeting, due ragazze poco dopo l’alba si sono arrampicate e incatenate al balcone della Regione in pieno centro città, Piazza Castello, per sottolineare l’inadeguatezza della maggioranza che governa il Piemonte di fronte alla evidente crisi climatica. Nel giro di poche ore, assieme agli altri attivisti presenti per dare volantini o fare foto, sono stati tutti denunciati per invasione di terreni o edifici e per manifestazione non preavvisata. Le forze dell’ordine hanno notificato fogli di via fino a due anni sia ad attivisti arrivati in città per il Climate social camp, sia a persone che vivono e studiano a Torino. Questo nella settimana in cui centinaia di giovani si erano riuniti da tutta Europa per discutere e confrontarsi, ma anche per esprimere il proprio dissenso di fronte al vuoto politico contro le emissioni climalteranti. L’insussistenza delle accuse è subito apparsa chiara non solo a moltissimi osservatori che hanno espresso solidarietà ai ragazzi colpiti dai provvedimenti ma anche alla Procura che il 19 agosto, dopo la presentazione dei ricorsi al TAR degli accusati, ha iniziato a revocare i primi tre fogli di via.

Lontano dal capoluogo piemontese, martedì 19 luglio su mandato della procura di Piacenza, la polizia ha messo agli arresti domiciliari e disposto misure cautelari – rimosse dopo pochi giorni – per otto dirigenti nazionali e locali del SI Cobas e della USB operanti nella logistica. A questi si aggiungevano decine di lavoratori e attivisti messi sotto accusa: 350 pagine di ordinanza hanno costruito un teorema giudiziario sulla scorta di fatti criminosi quali picchetti, scioperi, occupazioni dei magazzini, assemblee. Le accuse sono simili a quelle contro Askatasuna, compresa l’associazione a delinquere – già disconosciuta per i sindacalisti ai primi di agosto dal Tribunale del riesame di Bologna. Restano le accuse di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio. Paradossalmente, la stessa procura afferma che le lotte condotte nei magazzini della logistica dal 2014 al 2021 sarebbero state attuate per motivazioni pretestuose e con intenti “estorsivi”, al fine di ottenere per i lavoratori condizioni di miglior favore rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale: come se da un’organizzazione sindacale ci si dovesse attendere qualcosa di diverso.

I principi democratici non sono messi in pericolo da spazi occupati come Askatasuna, dalle associazioni sindacali di base o dai presidi in Val di Susa: tutte esperienze che favoriscono, cercano e certamente non ostacolano la partecipazione. Il vero problema è che queste realtà sono capaci di associazione non sovversiva o a delinquere ma contro leggi discriminatorie e fratricide che impediscono perfino il soccorso ai bisognosi, contro grandi opere sovra-dimensionate e inutili, contro lo spreco di risorse per la produzione di tecnologie militari insostenibili. E sanno “socializzare i problemi e unire le lotte” oltre i confini nazionali: a fine agosto c’è stato un boicottaggio dei cantieri del TAV con arresti e denunce anche a St. Jean de Maurienne, sul lato francese del tunnel.

Piuttosto i principi democratici sono messi in pericolo – la citazione è di un torinese illustre: Primo Levi – da “tutte quelle forme di concentrazione del potere che negano al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, e in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti” (Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, Corriere della sera, 8 maggio 1974). 

In Val Susa è repressa perfino l’arte: Blu, un writer italiano che secondo il Guardian è fra i migliori artisti di strada contemporanei, è finito sotto processo per “imbrattamento” perché nel 2015 aveva dipinto su un cavalcavia un treno-serpente che si mangia la coda. I carabinieri l’hanno identificato e denunciato assieme ad altre quattro persone. Lo scorso 8 maggio si è concluso a Torino il processo contro Blu e i suoi correi, assolti perché il fatto (l’imbrattamento) non sussiste il bene pubblico (il cavalcavia) era stato non deturpato ma arricchito dal murale.

Preoccupano gli esiti di una ricerca diffusa a fine 2020 da Alessandro Senaldi dell’Università di Genova con il supporto dell’Associazione Bianca Guidetti Serra, i quali dimostrano come la repressione giudiziaria del movimento NoTav abbia lavorato – questa sì – ad alta velocità: udienze velocizzate, rapporti Digos copia-incollati senza filtro, utilizzo a man bassa del concorso morale e delle misure cautelari. Preoccupano tali risultati, perché l’ultima iniziativa della procura torinese si inserisce in un solco di repressione che, nel caso del movimento NoTav, riporta a procedimenti giudiziari contro giornalisti, scrittori, perfino nei confronti della tesi di una studentessa di sociologia che aveva usato il pronome “noi” per raccontare un’esperienza interna al movimento valsusino.

Alle vicende di repressione e censura fanno da contraltare esclusioni sistematiche della cittadinanza non omologata da ogni possibile forma di partecipazione da parte alla vita libera e democratica a Torino e in Piemonte. Dallo scorso maggio la stessa procura di Torino ha introdotto restrizioni al diritto di cronaca: in tema di arresti, prima di darne notizia, ora occorre il permesso. Dopo l’entrata in vigore delle disposizioni della ministra della Giustizia, Maria Cartabia, che ridisegnano i rapporti tra informazione e giustizia, a Torino è stato adottato un documento di indirizzo inasprendo i divieti di comunicazione con la stampa per magistrati e forze di polizia, prevedendo che sia il procuratore della Repubblica ad autorizzare il rilascio di informazioni, o a negarle quando necessario per la prosecuzione delle indagini e quando ricorrono altre ragioni di interesse pubblico. Solo il procuratore della Repubblica sarà quindi titolato a decidere cos’è di interesse pubblico e ad autorizzare o meno la diffusione della notizia. I testi dei comunicati stampa verranno raccolti presso la segreteria della procura e annotati in apposito registro; il comunicato deve arrivare con almeno 48 ore di anticipo, la richiesta di conferenza stampa almeno cinque giorni prima.

Dello scorso anno (DL 121/2021, comma 9-ter, articolo 3) sono i provvedimenti che, dopo il cantiere della Maddalena di Chiomonte, hanno ridotto a “Siti Strategici di Interesse Nazionale” – soggetti pertanto all’autorità militare e inaccessibili perfino a giornalisti e parlamentari – i comuni di Bruzolo, Bussoleno, Giaglione, Salbertrand, San Didero, Susa e Torrazza Piemonte, dove dovrebbero sorgere i cantieri della nuova linea TAV Torino Lione.

Ciliegina sulla torta della non-inclusione è stata a fine luglio la nomina nell’Osservatorio del governo sul TAV di Antonio Rinaudo, pubblico ministero in pensione, già facente parte del cosiddetto Pool anti No Tav costituito dal Procuratore aggiunto Gianfranco Caselli a inizio millennio. Rinaudo fu poi rimosso dal Pool assieme al collega Andrea Padalino nel 2014, ai tempi del maxi-processo contro i No Tav, da Armando Spataro, successore di Caselli alla Procura torinese. Ritorna ora come coordinatore del Tavolo Legalità, trasparenza e anticorruzione, mentre le richieste di ascolto e le denunce della popolazione sono ignorate

Non si comprendono questi teoremi giudiziari, queste scelte selettive di ostacolo alla partecipazione democratica se non come un tentativo di impedire che nei magazzini della logistica, così come nei territori inquinati o soggetti a sfruttamento di risorse, si rafforzino esperienze di consapevolezza, soggettività, coscienza di classe – o come ognuno preferisce chiamarle – capaci di non cedere sui diritti dell’ambiente, della salute e del lavoro. Si vuole negare legittimità al sindacalismo conflittuale e alle sue pratiche, così come si vuole negare il diritto alla difesa del proprio territorio e della propria salute a un’intera popolazione, o il diritto a rivendicare spazi di futuro per il proprio destino alle nuove generazioni, approfittando di ogni conflitto per dare un’ulteriore spinta repressiva, contro il diritto di sciopero come contro quello di manifestare o di prestare solidarietà e aiuto in modo autorganizzato a chi, migrante o malato o disoccupato, è in difficolta.

L’attivista No Tav Emilio Scalzo sottolinea sovente che un tempo era reato il comportamento opposto: “l’omissione di soccorso”. La sua storia è esemplare: 67 anni, estradato in Francia con l’accusa di aver colpito un gendarme durante una manifestazione a sostegno dei migranti che attraversano il confine fra Italia e Francia: uno dei luoghi più pericolosi da varcare per chi proviene soprattutto dalla rotta orientale, anche a causa della brutalità della gendarmerie francese. Fu prelevato in casa a Bussoleno da un plotone della Digos e della celere, internato nel carcere di Aix en Provence dal 3 dicembre 2021 fino al 12 febbraio 2022. Rilasciato ma costretto prima all’obbligo di firma e dimora in Francia, mai processato, è stato infine espulso il 21 aprile 2022 con l’obbligo di abbandonare la Francia, e divieto di dimora, entro 24 ore. Scalzo è sotto processo in Italia – e per questo non avrebbe potuto essere estradato – per l’occupazione della ex casa cantoniera di Oulx, struttura dismessa che fino allo sgombero, nel 2018, fu trasformata in centro di accoglienza per i migranti.

Questo mentre è chiaro che solo le mobilitazioni dal basso, il sindacalismo di base, i movimenti, le combattive associazioni a tutela dei migranti sono riuscite prima a rivoltare il paradigma della legalità e poi a svelare a quali orrori occorra abituarsi oggi per rimanere entro i suoi confini, celati dietro giungle di super-sfruttamento, caporalato, precarietà e salari da fame, resi possibili da connivenze e silenzi perfino sulle infiltrazioni della malavita organizzata. Dispiace la disattenzione complice, a Torino almeno, dei media locali: Repubblica, che come ricordava Luca Rastello “quando si convince di una cosa, non gli fa cambiare idea nemmeno la realtà”, e La Stampa, giornale “No Soul” che ha approfittato perfino dell’imbrattamento della propria sede con una scritta No Vax “Il vostro silenzio uccide” per fare di tutt’erba un fascio ed accusare di ciò il movimento valsusino e perfino il pacifismo.

Questo è il “cattivo presente” a cui rimanda l’articolo di Novaro: una realtà “catturata”, imprigionata da un immaginario di crescita economicamente e ecologicamente insostenibile, che per affermarsi non può che ricorrere a forme di violenza strutturale e culturale anacronistiche, e che non potrà generare altro che nuove contrarietà e nuove ribellioni.

Torna alla mente Herbert Marcuse – uno dei massimi esponenti con Max Horkheimer e Theodor Adorno della Scuola di Francoforte – maestro della nuova sinistra negli anni ‘60 del Novecento che mise a disposizione dei giovani del ‘68, con L’uomo a una dimensione (1964), gli argomenti per parlare delle democrazie europee come di società bloccate sul piano politico, culturale e ideale: una delle piú radicali disamine e contestazioni della condizione umana nelle società industriali avanzate, che non ha mai esaurito la forza del suo impatto critico e polemico. 

Vale la pena di riprendere quanto scrisse un altro illustre torinese, il sociologo Luciano Gallino che con la moglie Tilde Giani nel 1967 curò la traduzione di L’uomo a una dimensione per Einaudi e che nell’introduzione alla riedizione del libro nel 1991 così osservava: “L’attualità di L’uomo a una dimensione non è soltanto legata al persistere delle stesse distorsioni, nelle società industriali avanzate, che il suo autore intravvide all’epoca con lucidità. È la storia più recente che si è incaricata di restituire al libro una inquietante presa diretta (…). Una società non può continuare a incivilirsi; non può produrre individui consapevoli e autodeterminati; non può applicare la ragione all’arte di vivere, se non sa dialogare al proprio interno, o all’esterno, con qualche forma di opposizione radicale; se non sa interagire con forze che rappresentano un rischio perenne e una sfida, perché mettono in forse la sua identità, le strutture psichiche e culturali latenti che ne assicurano la persistenza, col risultato positivo che in tal modo codeste entità forzano una società a non bloccarsi, a continuare a crescere”.

Non so quanto sia rimasto nell’odierno Askatasuna di riferimenti alla tragica storia del braccio armato del partito nazionalista basco, l’ETA: Euskadi Ta Askatasuna (Nazione basca e libertà), nato nel 1958/59 in epoca franchista. Un movimento antifascista ma sempre in bilico fra diventare un esercito di liberazione o una banda di disperati capaci di attentati efferati. Bisognerà discuterne, perché si trattò di un movimento represso duramente, con metodi sudamericani, anche dopo la caduta di Franco e che iniziò a scomporsi nel 1981 dopo la ritrovata democrazia in Spagna, ma una sua frangia rimase attiva, purtroppo anche militarmente contro la popolazione, fino al definitivo scioglimento nel 2010. Tuttavia, va rilevato che le posizioni politiche e culturali coltivate oggi da Askatasuna, così come dai sindacati di base, dai movimenti ambientalisti e per il clima nascono anche da una esperienza quotidiana di esclusione dal sistema e da una profonda consapevolezza delle dinamiche di trasformazione dell’economia, del lavoro, dell’ambiente e del clima. È importante recuperare e condividere le fila di tutti questi pensieri, che si devono intrecciare con il lavoro scientifico e culturale. Sono questioni che riguardano i diritti di tutti noi, come lavoratrici e lavoratori, esseri umani liberi ed eguali, cittadini e soggetti di diritti, sul lavoro che – come ricordava Gallino – non è una merce, così come sull’integrità del territorio abitato e sulla propria salute. Per una vera transizione, per il cambiamento di cui abbiamo disperatamente bisogno, occorre non reprimere ma liberare, occorre che “scaturiscano” energie più giovani che sono già spontaneamente partecipative e impegnate nella trasformazione del presente in direzione maggiormente creativa, ecologista e solidaristica. Dobbiamo rinunciare a ogni illusione di continuità con le “magnifiche sorti e progressive” del recente passato, il cui orizzonte è breve, ormai legato solo più a occasioni di opportunismo politico e economico, destinato inesorabilmente a tramontare.

“Si dovrebbero aggiungere mutamenti ben più impegnativi – concludeva Gallino nella prefazione a L’uomo a una dimensione – quali una nuova razionalità tecnologica, fondata anziché sulla separazione storica tra scienze naturali e scienze umane, sulla loro intenzionale rifusione; un diverso ordine di priorità nei consumi individuali e collettivi; la diffusione di un’etica della responsabilità in ogni settore di attività economica ed amministrativa; una concezione innovativa di ciò cui occorre dar priorità nella formazione dei giovani; una dissociazione tra avere ed essere che pur non sacrificando troppo il primo (…) non subordini ad esso il secondo. Con un’espressione di Marcuse, l’Europa potrà far fronte alle sfide che provengono da Est e da Sud soltanto se riuscirà ad operare un mutamento qualitativo e quantitativo del suo tenore di vita, riassumibile in una “riduzione del sovrasviluppo”, con tutte le conseguenze – o per meglio dire le premesse – economiche, sociali e culturali che ciò comporterebbe. E tutti codesti mutamenti non si potrebbero imporre, ma soltanto ottenerli dai cittadini mediante forme di democrazia partecipata, delle quali nei sistemi politici europei, e men che mai nel nostro, non si intravede per ora nemmeno il presagio”.

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