mercoledì 28 settembre 2022

dopo le elezioni

scrive Luca Bravi

In quanto componente più anziana, toccherà a Liliana Segre aprire i lavori del Senato, quello a larga maggioranza composto dal partito che, se vai a ritroso (ma ce lo ricorda bene la fiamma sul simbolo), come minimo arrivi al MSI che si dichiarava erede dei fascisti. È una consuetudine, per carità, ma ci si aggiunge  un simbolismo potente, un po' come la sconfitta di Fiano (il figlio di Nedo) contro Rauti (la figlia di Pino). C'è chi legge il fatto che sia Liliana Segre ad aprire i lavori, come il simbolo di valori che restano a garantire il lavoro istituzionale democratico, forse pure sbattuto in faccia alla nuova maggioranza (e alla sua storia ripudiata a giorni alterni), eppure immaginarmelo mi crea un po' di pensieri negativi. Liliana Segre, come giusto che sia, sarà accolta dagli applausi dell'aula, sarà doveroso, scontato e pure giusto. A preoccuparmi è proprio questo: sarà l'ennesima occasione in cui, attraverso facili simbolismi esposti in pubblico e mai nella pratica quotidiana, l'estrema destra più forte di sempre in Italia potrà ancora una volta dirci di essere lontana da quella storia di odio, di sterminio e di razzismo del Novecento. Eppure restano gli stessi che, nel Ventunesimo secolo, hanno concretamente promosso politiche d'odio e di allontanamento, anche dalle scuole, perfino negando i pasti alla mensa ai bambini. 

La Shoah non è la stessa cosa delle politiche razziste di oggi, dal punto di vista storico è pure vero, ma attenzione ad usare la memoria della Shoah allontanandola dalle domande sul presente, perché diventa un simbolo vuoto, a quel punto utile solo come una fetta di prosciutto sugli occhi, per far finta che tutto procederà tranquillamente (ci siamo talmente abituati che è diventata un'abitudine bipartisan piangere per i crimini passati, ma giustificare sempre quelli del presente). L'esposizione pubblica del simbolo "Liliana Segre" in questa occasione, seppur azione dovuta per consuetudine istituzionale, porta con sé anche questa seconda faccia della medaglia, meno scontata e comunque presente.  Mi pare piuttosto il segno dei tempi.

 

 

Riflessione "a tiepido" - Francesco Filippi

E se fosse meglio così?

Il prossimo governo, probabilmente, gestirà la migrazione come un reato; chiuderà mille occhi sulle violenze ai confini della Festung Europa e anzi le favorirà; affosserà i progetti sull'allargamento dei diritti a tuttə; interverrà con leggi sul concepimento ma non sul fine vita; tratterà il diritto di  cittadinanza come un privilegio; smonterà coscientemente le tutele che difendono i diritti del lavoro; negherà lo sviluppo democratico dell'apparato di sicurezza dello stato, dai numeri sui caschi degli agenti alla protezione degli individui dall'invasione delle multinazionali dei dati; favorirà il privilegio di rendita rispetto al diritto al salario giusto; si occuperà di opere cementizie strategiche concepite anni fa trascurando l'infrastruttura sociale e culturale del paese di oggi; taglierà la sanità pubblica lasciando campo libero alla privata, ecc. ecc...

 

Rimarrà, insomma, nel solco di TUTTI i governi degli ultimi dieci anni.

Solo che almeno sarà "sincero": non racconterà favole sulle necessità contingenti, sulle opzioni limitate di breve termine, sulle difficoltà interne allo schieramento. Farà quel che ha sempre detto di voler fare.

E questo costringerà ad essere noi pure sincerə nell'opporci, o nell'accettare.

Ci costringerà a scegliere.

Finalmente.

 

 

Che fare dopo il voto? È ora di scelte radicali contro gli apparenti “padroni della storia” - Lorenzo Guadagnucci

La fine, stavolta, era nota. Chi ha corso per vincere (la destra) ha vinto, chi ha corso per non vincere (Partito democratico e possibili alleati) ha perso. Tutto come previsto, dunque, nelle elezioni politiche più scontate della storia recente, in virtù di un sistema elettorale non proporzionale e delle scelte compiute prima del voto (allearsi a destra, non allearsi nella non destra). Ora la parola la prenderanno i politologi (che passeranno in rassegna i flussi elettorali e i nuovi “colori” di città e Regioni) e gli editorialisti, che come al solito consiglieranno la linea politica ai vari leader di riferimento. Poi si insedierà il nuovo governo, che in Europa è già definito -seguendo gli standard internazionali- di estrema destra, invece del pudico e conciliante, nonché fuorviante, “centrodestra” in uso sui media italiani.

Poi c’è tutto il resto, ossia le cose più importanti, visto che queste surreali elezioni hanno eluso i temi cruciali del momento e del futuro più prossimo. Si è votato nel pieno di una guerra europea e nei giorni della sua escalation. Nessuno, in campagna elettorale, ne ha fatto davvero menzione ma mentre mettevamo le schede nelle urne, a Mosca, Kiev e Washington si discuteva e tuttora si discute, con sconcertante leggerezza, del possibile -se non probabile- uso di armi atomiche “tattiche” in Ucraina da parte di Vladimir Putin e del tipo di risposta che l’Occidente (cioè gli Stati Uniti) eventualmente sceglierà: una bomba “tattica” su una città russa o sulla capitale? Una bomba non tattica, o altro ancora? E mentre fingevamo di partecipare a una competizione (che, come detto, non c’è mai stata), tra cosiddetto centrodestra e cosiddetto centrosinistra, si contavano ancora morti e dispersi nell’alluvione delle Marche e scattavano in mezza Italia allarmi meteo sempre più allarmanti. Senza che, ovviamente, si parlasse davvero e seriamente di mitigazione degli effetti del disastro climatico in corso, del dissesto idrogeologico del Paese, dell’urgenza di riorganizzare la vita collettiva in modo da ridurre i consumi di energia, di suolo, di risorse scarse.

Possiamo dire, insomma, che abbiamo avuto elezioni menzognere (per il falso dibattito su una competizione che non c’è mai stata) e anche anacronistiche, poiché le questioni più pressanti e cruciali del nostro tempo ne sono rimaste incredibilmente fuori. Non c’è da sorprendersi, in questo quadro, se il numero degli astensionisti ha superato un terzo degli elettori, e nemmeno del successo di forze politiche che si rifanno al nazionalismo novecentesco, all’eterna fascinazione per il fascismo, a una vocazione identitaria vicina al suprematismo bianco statunitense: è il frutto, tutto ciò, del progressivo sgretolamento della cultura democratica, socialista e antifascista, minata al suo interno -ormai da un trentennio- dall’avvento dell’ideologia neoliberista. Nel rifiuto di un’analisi onesta della crisi profonda di un intero modello di sviluppo e di sistemi democratici che a quel modello hanno legato la propria sorte (vale ancora per tutti il motto di Margaret Thatcher “There is no alternative”, non ci sono alternative), la regressione verso una visione difensiva, suprematista e conservatrice del mondo non può essere una sorpresa.

Alcuni politologi già propongono una ridefinizione dello spazio politico istituzionale italiano ed europeo, secondo la quale ci sarebbero ormai tre poli: una destra neoliberista nazionalista con venature suprematiste (la destra al potere in Ungheria, Polonia e ora in Italia; il partito di Marine Le Pen in Francia; i neofranchisti di Vox in Spagna); un centro ugualmente neoliberista ma europeista e con venature progressiste sui diritti individuali (il partito di Emmanuel Macron in Francia; il binomio Spd-Verdi in Germania; il cosiddetto centrosinistra in Italia); infine una sinistra erede delle idee socialiste e aperta al nuovo vento ecologista, con venature populiste (qui si portano le esperienze della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e degli spagnoli di Podemos, mentre in Italia si attende una possibile evoluzione del Movimento 5 stelle o almeno del suo elettorato, con nuove organizzazioni da costruire). Osservato sotto questa lente, l’esito elettorale del 25 settembre risulta in effetti più chiaro e può far pensare a un astensionismo giovanile e di sinistra dovuto alla sommatoria di una campagna elettorale fuori dal tempo presente e di una proposta politica -quanto al polo di sinistra- ancora opaca e insufficiente.

In un quadro così bloccato, torna la domanda di sempre, l’assillo di chi vuole dare un senso al proprio impegno civile e politico guardando a un orizzonte di giustizia sociale e alle future generazione; la domanda è: che fare? La risposta è semplice a ardua allo stesso tempo: quello che si è sempre fatto, ma con più forza, con più lungimiranza, con l’urgenza imposta da avvenimenti sconvolgenti come la minaccia nucleare, l’annunciata recessione globale, gli effetti sempre più incombenti del disastro climatico: quindi studiare, organizzarsi, agire. È il tempo, questo, delle scelte radicali; è l’ora di mettere in discussione il modello di sviluppo e i sistemi politici che lo sostengono, avviati -lo abbiamo visto- verso una regressione illiberale; è l’ora di pretendere dagli apparenti padroni della storia -potenziali apprendisti stregoni- di indicare vie di uscita dalla guerra in Ucraina prima che sia troppo tardi (c’è sempre una via d’uscita ed è incredibile che le diplomazie e le istituzioni sovranazionali siano state messe in un canto); è l’ora di mettere la giustizia climatica, che è anche giustizia sociale globale, al centro delle scena, politicizzando l’ondata ecologista, rimasta finora sulla superficie delle cose; è l’ora di impegnarsi, di contestare e partecipare, è l’ora di organizzarsi avendo come orizzonte una trasformazione profonda dei modi di produrre, di consumare, di vivere, di stare insieme e una conseguente, altrettanto profonda trasformazione di sistemi politici che si stanno rivelando obsoleti, incapaci di affrontare le sfide del nostro tempo, se non proponendo illusorie scorciatoie destinate a moltiplicare ingiustizie, sopraffazioni e guerre.

È una sfida enorme, ma non deve spaventare: cambiare il corso apparentemente ineluttabile della storia si può, è già successo e può accadere di nuovo.

da qui

 

Le prime considerazioni economiche sull’esito del voto. E su quello che ci attende - Alessandro Volpi


Non è semplice trarre considerazioni chiare, in termini economici, sugli esiti dell’ultima tornata politica. Tuttavia tre mi sembrano più evidenti di altre. La prima ha a che fare con le ragioni della sconfitta del centrosinistra nel suo insieme ed è riconducibile alla fantomatica “agenda Draghi”. Provo a spiegare il perché penso abbia influito, e molto.

L’agenda Draghi è stata il paradigma della volontà di alcune forze politiche di trasformare le elezioni in un plebiscito su Mario Draghi: volete ancora Mario Draghi? Votate per noi. Questa semplificazione ha determinato la composizione degli schieramenti nel centro sinistra e il loro programma, generando tuttavia, una serie di paradossi a cominciare dal fatto che neppure le forze a favore di Draghi hanno composto un’unica coalizione, rompendo subito l’alleanza in nome della maggiore o minore “ortodossia” nei confronti dell’agenda. C’è stato poi il paradosso che la coalizione di centrosinistra ha aperto subito ai cosiddetti “avversari” dell’agenda Draghi, creando un “certo” disorientamento. Ma i limiti veri dell’agenda Draghi erano altri.

Intanto, non esisteva un’agenda Draghi in quanto tale ma esisteva solo Draghi come garante, in pratica senza vincoli, del futuro italiano. In questo senso si configurava un altro limite di quell’agenda: se si trattava di un mero artificio narrativo per sostenere Draghi, allora diventava ben poco credibile che centrosinistra e “terzo polo” non avessero avuto la capacità, anche separatamente, di esprimere un proprio leader in grado di aspirare a ricoprire la carica di presidente del Consiglio.

C’era poi un ultimo, decisivo limite: un Paese piegato, con disuguaglianze sociali in continua crescita, con una povertà dilagante resa drammatica dall’inflazione non aveva bisogno di rigorosi custodi dell’equilibrio finanziario che si traduceva inevitabilmente nella riproposizione di un modello adottato dal 2011 in avanti. L’inesistente agenda Draghi è stata percepita come un mantenimento dello status quo sociale, con la conseguente ulteriore polarizzazione dei redditi e con una fiducia davvero cieca nell’Europa in quanto tale, nel momento in cui proprio l’Europa sta cambiando profondamente pelle. Come era possibile pensare che reggesse i termini elettorali un ceto politico, impegnato unicamente a ricandidarsi, limitandosi a ergere Mario Draghi a sola icona politica e abbandonando ogni rappresentazione sociale e ogni capacità critica verso la Nato, verso l’Unione europea e verso un liberalismo moderato da anni Novanta? L’inesistente agenda Draghi, a mio parere, ha fatto perdere il senso della complessità della democrazia popolare.

La seconda considerazione guarda in prospettiva futura. La recente audizione di Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, presso la Commissione affari economici del Parlamento europeo è la dimostrazione che in Europa è in corso una pericolosa involuzione monetarista. In estrema sintesi la presidente della Bce ha dichiarato, in sequenza, che l’inflazione durerà a lungo e che l’economia europea sta per entrare in recessione. Di fronte a ciò -ha continuato Lagarde- la ricetta è molto chiara: aumenti dei tassi d’interesse, drastica riduzione degli acquisti di titoli del debito pubblico, contenimento salariale e scudo anti-spread applicabile solo con onerose condizionalità. Siamo tornati all’era Trichet, con la differenza non banale che ora l’inflazione può davvero fare male in termini sociali e aggravarla con soluzioni inefficaci e, al contempo, destinate a peggiorare le disuguaglianze sarebbe devastante. Per l’Italia, il messaggio è chiaro: basta debito per coprire la futura Legge di Stabilità. Si ha l’impressione, in tale ottica, che il governo Draghi fosse comunque finito vista l’impossibilità di fare una riforma fiscale e una certa diffidenza a mettere mano alle regole finanziarie.

La nuova stagione della sinistra dovrebbe partire da un europeismo critico, da un filologico appello all’articolo 53 della Costituzione, da una valorizzazione del risparmio diffuso e dalla restituzione di un carattere politico alle strategie monetarie, quantomeno per fronteggiare la politicissima Federal Reserve statunitense e per difendere il welfare. Nel frattempo l’esecutivo Meloni dovrà trovare le tante risorse che mancano  -una quarantina di miliardi- non facendo troppo affidamento al suo programma, dai chiari tratti prociclici: concepito cioè solo per un’economia che va bene, dalla flat tax incrementale allo stralcio fiscale fino alle tante, maggiori spese, non copribili solo con l’auspicio di una ripresa.

La terza considerazione individua il limite con cui il nuovo governo dovrà misurarsi. L’inflazione ci sta riportando velocemente indietro, con pericoli antichi e nuovi al tempo stesso. Il debito pubblico italiano è esploso a partire dagli anni Ottanta, quando è diventato insostenibile il peso degli interessi da pagare per collocarlo. In pochi anni si è passati da un rapporto debito-Pil del 50% a uno del 120%, sulla spinta del debito secondario. Tali interessi dovevano essere pagati dal Tesoro italiano per reggere la concorrenza di altri titoli di Stato, a cominciare da quelli americani che beneficiavano della copertura del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale. Oggi sta riproponendosi una situazione in parte simile. I tassi di interesse delle banche centrali sono saliti e i rendimenti dei titoli di Stato dei vari Paesi sono cresciuti per far fronte al loro deprezzamento, in parte dettato dall’inflazione. I Bund tedeschi hanno perso in pochi mesi il 18% del loro valore, i Btp italiani il 20% e questo ha spinto i rendimenti al rialzo. In tale ottica lo spread non cresce perché sia Italia sia Germania sono costrette ad alzare i tassi e dunque non sarà lo spread a determinare il quadro di riferimento, anche in termini politici.

Pesa invece, come negli anni Ottanta, la concorrenza dei titoli di Stato americani che rendono, sul decennale, il 4,5% e dunque sono molto appetibili. Ancora una volta, come allora, il Tesoro degli Stati Uniti può permettersi una simile operazione grazie alla forza del dollaro che sta schiacciando l’euro a 0,96 e sempre più giù. In altre parole, la politica economica degli Stati Uniti viene costruita, come in passato, scommettendo sulla debolezza degli altri Paesi e sull’aspettativa che la Cina non abbia intenzione, almeno nel breve periodo, di sganciarsi dal dollaro. Solo se l’Europa avesse una vera credibilità internazionale questa pesante rendita di posizione si indebolirebbe, in caso contrario ci troveremo a fare i conti con un nuovo decollo del debito soltanto per gli interessi da pagare; e gli appelli alla nazione rischiano di ricordare i famigerati “prestiti del littorio”.

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ALLA LUPA, ALLA LUPA - Gian Luigi Deiana

la favola di esopo in quota rosa

tutti i bambini sanno che non è bene esagerare nel dire bugie: poi infatti si finisce per non essere creduti nemmeno quando si dice la verità, soprattutto se le situazioni sono davvero serie; la favola antica del greco esopo, che narra di un pastore che lanciava per scherzo l'allarme sul lupo, insegna ai bambini esattamente questo: quando il lupo comparve davvero, nessuno più credette all'allarme, e il lupo ebbe campo libero sugli agnelli;

gli antichi romani ebbero la genialità di redimere in quota rosa il temuto animale: inventarono la lupa e ne fecero la mammina pagana della romanità; mito per mito, in tempi a noi più vicini se ne è fatta la mammina dell'italianità, per di più cristiana; a parte il discutibile gusto di dichiarazioni simili, gusto peraltro generalmente pessimo in tutto il linguaggio pubblico attualmente in voga tra i leader politici, sta di fatto che l'allarme sull'arrivo del lupo, immancabile da trent'anni in qua, si è man mano rivelato come stupida furbetteria, e alla fine la simpatica bestiola è sopraggiunta davvero: in variante romana, italiana, e cristiana; per un poco, quindi, ecco i figli della lupa;

le questioni che a questo punto si aprono sono molte e sono complesse, ma soprattutto sono indecidibili da parte del popolo elettore; sono invece decidibilissime, quanto al giudizio politico, le questioni che si chiudono: ma chiuderle bene, con un giudizio ponderato, è fondamentale per non ricascarci di nuovo;

le principali questioni oggi in chiusura sono due: primo, se il pd sia un partito di sinistra, e con ciò un baluardo della democrazia; secondo, se fdl sia un partito semifascista, e con ciò un pericolo per la democrazia;

il primo interrogativo deve trovare la risposta interpretando l'orientamento che il pd ha seguito da quando ha assunto questo nome di battesimo, partito democratico, ad oggi; cioè dal dopo prodi al naufragio draghi; rafforzando l'inchinamento totale alla dogmatica neoliberista, ai suoi culti e ai suoi sacerdoti, il pd è diventato un partito di chierici dell'ignavia; per vent'anni si è mascherato su verbosità vuote: il richiamo ai diritti e l'allarme sul lupo; verbosità vuote, che nel tempo hanno danneggiato la ragion d'essere di quei serissimi valori, in quanto troppo gratuitamente essi sono stati evocati nelle campagne elettorali, a corredo di liturgie sostanzialmente bugiarde; quindi, il pd, a ragion veduta, non è un partito di sinistra;

quanto poi questo ex partito di sinistra sia un baluardo della democrazia e dei diritti che la sostanziano, va misurato su dati fattuali grandi e piccoli, e non su stupidaggini come "scegli" , "o noi o loro", e via declamando; i dati fattuali sono per esempio l'oltranzismo atlantista, quindi l'esposizione alle ritorsioni nella vanteria delle sanzioni; le conseguenze delle privatizzazioni sui prezzi dell'energia, quindi extraprofitti selvaggi di grandi monopoli e crisi occupazionali nelle piccole aziende; l'emergenza ospedaliera, e l'insistenza sul numero chiuso a medicina; i peana sulla giustizia, e il silenzio atroce sui suicidi nelle carceri; la legge elettorale, più di tutto, è la corona di questo tripudio, e il chiodo più profondo inferto sulla costituzione della repubblica; insomma non sembrano buone credenziali per un baluardo della democrazia;

il secondo interrogativo, se il partito della lupa sia un partito semifascista, o al contrario una plausibile espressione politica di destra, è tutto da vedere; prima che si possa verificare nei fatti, l'allarme sul lupo fascista è peggio che vano; tra vedere e non vedere, la gente che è andata a votare, e più ancora quella che non vi è andata, è stata motivata non dal desiderio messianico del lupo, ma proprio dall'esaurimento della bugia sul suo terribile avvento, e dalla triste presa d'atto che dietro il lupo fasullo ci sarebbe stato invece di nuovo il drago vero; il popolo elettore ha dato la chance alla lupa non per una condizione di incoscienza, ma in obbedienza a una logica che non poteva più essere ingannata; l'ignavia è sempre vuota, e il vuoto viene inevitabilmente colmato per altra via, anche negli ordinamenti democratici;

per chi si troverà, probabilmente o necessariamente, a dover contrastare il governo di destra che si accinge a governare l'italia, sarà davvero dura; infatti dovrà produrre l'opposizione in una condizione nella quale non esiste quasi più l'organizzabilità del dissenso; ma questo black out, cioè l'insabbiamento del dissenso da parte del ceto politico, non può essere attribuito propriamente alla destra secondo la sua prerogativa consueta: il pd infatti, nell' illusione suicida di potersi rafforzare liquidando il dissenso organizzato a sinistra (e persino quello organizzato nel movimento cinque stelle), ha finito per dissolvere anche l'organizzabilità del consenso, persino il consenso su cui si basa esso stesso; la legge elettorale stessa testè sperimentata consiste in questo capolavoro: per liquidare gli altri, il pd, riducendosi in modo irreversibile a ceto politico autoreferenziato, ha suicidato se stesso;

è storicamente normale che il dissenso radicale venga contrastato e che i modi della sua organizzazione siano difficili; ma qui, col naufragio di questo partito di lunga storia e di larga base sociale, è l'organizzazione del consenso che è stata buttata alle ortiche: questo, e non la lupa, è ora per la sinistra il vero problema

da qui

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