giovedì 29 settembre 2022

Disabilità in costante aumento? - Daniele Novara

  

Era ora che una rivista di grande prestigio e diffusione come Tuttoscuola affrontasse uno dei nodi più critici e sconvolgenti del panorama scolastico italiano degli ultimi vent’anni: l’aumento delle neurodiagnosi di disabilità. Siamo su numeri davvero imbarazzanti: 277.840 nell’anno in corso (2021) su una popolazione di 7.407.312, ossia circa il 3,8 per cento degli alunni ha o avrebbe disabilità, finendo sotto il cappello della Legge 104 e pertanto necessita dell’insegnante di sostegno e dell’assistente educativo. Si tratta della legge generale sulla disabilità che si usa anche per gli anziani, una legge che, in caso di basso reddito, dà diritto a un assegno e, nel caso di lavoro dipendente, a tre giorni di assenza dal posto di lavoro.

Chi sono questi alunni con disabilità? Questi 280 mila alunni/e che vivono sotto l’ombrello scolastico della disabilità? L’immaginario va alla carrozzina, l’immaginario va al bambino o ragazzo con grave deficit cognitivo; l’immaginario va – infine – al bambino Down. Dimentichiamocene. Sono in stragrande maggioranza disabilità su neurodiagnosi riguardanti stati emotivi o psicoemotivi e stati comportamentali. Si tratta di sigle che cominciano a entrare nell’immaginario collettivo: ADHD che la vulgata traduce in ipercinetismo; DOP per il disturbo oppositivo provocatorio; specialmente, negli ultimissimi anni, il boom dell’ASD, il cosiddetto spettro autistico, anch’esso su base emotiva e comportamentale. In altre parole, sono bambini, ragazzi, alunni che non si presentano in maniera molto dissimile da tutti gli altri, non hanno subito traumi alla nascita, ma si comportano “male”. Le loro emozioni sono eccessive, hanno reazioni parossistiche, il grado di adesione alla vita scolastica è basso, a volte molto basso. Nel giro di un tempo abbastanza rapido (dieci-quindici anni), nella scuola italiana è scomparso l’alunno cosiddetto “difficile”. Tutti gli insegnanti che hanno lavorato negli anni Settanta-Novanta ne avevano uno in classe: complicato da gestire, che provocava, che non seguiva alla lettera le attività proposte, che disturbava i compagni e che interveniva mentre l’insegnante stava spiegando, o tentava di farlo. Insomma, un soggetto un po’ terribile, una specie di Lucignolo. A un certo punto, questi monelli non sono più stati tollerati, non tanto sotto il profilo disciplinare, ma sotto un altro profilo: il loro comportamento “trasgressivo” non è più stato considerato un disturbo all’attività scolastica, ma un disturbo in quanto tale, ossia una malattia, altrimenti detta “disturbo neuropsichiatrico”. Ribaltando quindi la percezione del bambino da “alunno che disturba” ad “alunno che ha un disturbo”.

Ed ecco che tanti genitori si sentono raggiungere dalla frase “Fatelo vedere…”. E non si tratta di farlo vedere dal pediatra, bensì dal neuropsichiatra infantile, ovvero da colui che studia, cerca e cura le malattie mentali.

Ritengo che sarebbe molto più utile indagare quale educazione ricevono questi alunni. I genitori devono prendere in continuazione decisioni educative: andrebbero preparati, andrebbero date loro informazioni al riguardo, meglio se appena escono dai reparti di maternità. La mancanza di informazioni pedagogiche attendibili sta compromettendo l’educazione dei nostri figli e la situazione viene risolta stabilendo che sono malati.

 

Vediamo un caso in cui il problema psichiatrico e il problema educativo vengono confusi: Filippo è un bambino di sei anni, ha iniziato la prima elementare da un mese circa, i genitori ricevono dalle insegnanti un avviso sul diario per un colloquio urgente. Filippo fa fatica, non ascolta, si muove in continuazione, corre per la classe, fa dispetti ai compagni. Le maestre non ce la fanno da sole e invitano i genitori a recarsi all’Asl di riferimento per una visita neuropsichiatrica. Inizia così un iter che porterà Filippo sulla strada della neurodiagnosi e dell’insegnante di sostegno. Nessuno si preoccupa del tipo di educazione che Filippo sta ricevendo in casa.

Dorme regolarmente nel lettone con i genitori, la mamma lo veste il mattino prima di andare a scuola perché il bambino ci mette troppo tempo e spesso gli prepara un biberon di latte e biscotti che finisce di bere sulla macchina. Lo pulisce anche in bagno perché lui non lo sa fare bene. Quando torna da scuola passa almeno due ore (e nel weekend molto di più) davanti al tablet, che possiede dall’età di tre anni. Usa liberamente il cellulare dei genitori per cercare giochi o vedere video divertenti. In tutto dorme otto ore perché prima delle 22,30 non vuole mai andare a dormire (perdendo in questo modo almeno un’ora di sonno ogni notte). La mamma lo chiama «amore» e lo bacia spesso sulle labbra. Al parco non ci vanno quasi mai perché il bambino si lamenta che gli altri lo prendono in giro.[1]

Sono passati oltre quarant’anni da quando, nel 1977, l’Italia decise di chiudere le classi differenziali per alunni con lievi ritardi o con problemi di condotta o in situazioni di disagio sociale e famigliare e svuotare le scuole speciali per sordi, ciechi e anormali psichici. Con questa legge, la 517/77 – che arrivò ancora prima della chiusura dei manicomi – furono abolite quelle classi in cui venivano concentrati i bambini con disabilità, in genere con ritardo cognitivo, e venne introdotto l’insegnante di sostegno nella gestione della didattica. Nel frattempo, è cresciuto di anno in anno il processo di medicalizzazione delle nuove generazioni.

Scambiare l’immaturià infantile, che è fisiologica e imprescindibile, con un disturbo neuropsichiatrico è quanto mai un azzardo.

Se il bambino non è più un bambino in quanto tale, ma un paziente, la sua natura e la sua energia infantile si spengono per adeguarsi a un eccesso di definizione diagnostica.

Un intervento di rafforzamento pedagogico dedicato ai genitori e alla famiglia sarebbe più efficace rispetto al porre una specie di marchio sui bambini che finiscono per essere reputati “diversi” dai genitori stessi.

Va inoltre segnalato che tanti sistemi diagnostici non sono completamente affidabili e andrebbero applicati con maggiore prudenza. Il rischio è che l’alunno, invece di attingere alle proprie potenzialità, resti sempre in attesa di un aiuto esterno che possa sostituirsi a lui, finendo addirittura per indentificarsi non tanto con le risorse che ha in sé quanto con la loro mancanza, riconoscendosi in uno status precario.

Come spiega Michele Zappella, tra i primi in Italia ad affrontare i disturbi dell’autismo:

“In poco più di due decenni, l’epidemia di autismo ha moltiplicato le diagnosi fino a quasi settanta volte, il tutto senza tenere presente che nei primi anni di vita ci sono variazioni della norma, difficoltà transitorie nel comportamento e vari disturbi del neuro-sviluppo. I disturbi specifici del linguaggio e i disturbi d’ansia sociale vengono spesso scambiati per disturbi autistici. Ci sono bambini normali che possono essere chiamati in causa da implacabili cacciatori di autismo. È necessario avere ben chiari quali sono gli aspetti centrali di ognuna di queste condizioni e situazioni, comprese in primo luogo quelle in cui c’è un comportamento autistico”.[2]

La rinuncia educativa sembra essere una sorta di profonda combinazione fra la paura dei genitori rispetto alle proprie responsabilità e la stanchezza della scuola nel momento in cui si dovrebbe impegnare in favore di quegli alunni che più di altri hanno bisogno di aiuto. Invece di aumentare le certificazioni neurodiagnostiche, è il caso di sostenere i genitori nelle loro funzioni educative, dando informazioni adeguate, chiarendo dubbi e favorendo il gioco di squadra, evitando così di trasformare l’ambiente scolastico da comunità di apprendimento a luogo di terapia. Occorre sostenere gli insegnanti e le scuole che sanno lavorare sul versante educativo piuttosto che su quello diagnostico.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1. Novara, I bambini non sono malati, sono bambini. recuperare il ruolo educativo adulto per evitare la patologizzazione dell’infanzia, in “Minori e giustizia. Rivista interdisciplinare di studi giuridici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia”, n. 3/2019
2. Novara, L’immaturità infantile non può diventare una diagnosi, in “Psicologia clinica dello sviluppo”, a. XXIV, n. 1 aprile 2020, pag. 91-96
3. Novara, Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare. Subito., BUR-Rizzoli, Milano 2017
4. Zappella, Bambini con l’etichetta. Dislessici, autistici e iperattivi: cattive diagnosi ed esclusione, Feltrinelli, Milano 2021
[1] D. Novara, I bambini sono sempre gli ultimi. Come le istituzioni si stanno dimenticando del nostro futuro, BUR-Rizzoli, Milano 2020
[2] M. Zappella, Quando l’autismo è una falsa diagnosi, in «Conflitti. Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica», n. 4, 2018, pp. 48-50.

da qui

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