lunedì 23 maggio 2022

Tra guerra e pace – Edward Said

 

Due popoli nella universalità del dolore

Da New York, dove insegna letterature comparate, un intervento dell'intellettuale palestinese Edward Said. Mentre gli accordi di Oslo per la pace toccano forse il loro momento più basso, Said ricorda come le sofferenze di ebrei e palestinesi siano storicamente legate e quanto insultante sarebbe trascurare il peso di questa eredità, sia per la memoria dell'Olocausto che per i palestinesi, i quali continuano a venire privati dei loro territori da Israele

 

EDWARD SAID –

 

U NA DELLE PIU'IMPORTANTI differenze fra gli arabi che vivono nel mondo arabo e quelli che si trovano in Occidente è il fatto che questi ultimi sono costretti a confrontarsi quotidianamente con l'esperienza ebraica dell'anti-semitismo e del genocidio. Anno dopo anno è una valanga sempre crescente di libri, film, articoli e fotografie. Il 1996 è stato l'anno di Schindler's List, il film di Spielberg che ha messo davanti agli occhi di centinaia di milioni di persone, letteralmente, gli orrori dell'Olocausto. Vi sono state numerose polemiche circa le ragioni della catastrofe tedesca, circa i motivi per cui una nazione grandemente civilizzata, che aveva prodotto i maggiori filosofi e musicisti europei e alcuni tra i più brillanti scienziati, poeti e studiosi potesse essere precipitata non soltanto nella follia del Nazismo, ma nel più spaventoso progetto di sterminio umano che la Storia ricordi. Chiunque oggi viva negli Stati Uniti, in Francia o in qualunque paese europeo non può sfuggire alle immagini di Auschwitz e Dachau, ai continui richiami alla sofferenza e al tormento patiti dagli ebrei, prova incessante della disumanità di massa, rivolta principalmente contro un popolo solo, gli ebrei, i quali, nonostante i successi ottenuti e il contributo da essi apportato alla cultura, vennero ridotti allo stato di bestie, per poi essere uccisi a milioni coi gas e nei forni crematori.

E' CERTAMENTE VERO che gran parte di questa storia non solo circola ovnque nelle Università, nelle scuole, nei musei e nei discorsi pubblici in Occidente, ma è anche oggetto di controversie, come ha recentemente dimostrato il libro di Daniel Goldhagen, Hitler's Willing Executioners. La tesi sostenuta da Goldhagen è che ogni tedesco, non solo i membri del partito nazista o gli psicopatici dell'entourage di Hitler erano favorevoli e presero materialmente parte al genocidio nei confronti degli ebrei. La maggior parte degli storici si sono trovati in disaccordo con questo punto di vista estremo, ma la questione del diffuso senso di colpa degli europei e in particolare dei cristiani, continua a turbare il mondo occidentale. Fra gli ebrei americani, una comunità alla quale era stato risparmiato l'orrore di quanto accadde in Europa, l'Olocausto viene studiato e commemorato con grande fervore; ad esempio, è degno di nota il fatto che Washington sia la sede di un Museo dell'Olocausto di proporzioni grandiose, piuttosto che il luogo nel quale si commemora lo sterminio degli indiani d'America o quello di milioni di schiavi africani. Entro certi limiti, pertanto, l'Olocausto viene usato retrospettivamente per giustificare le realtà politiche contemporanee. E' consuetudine dei critici mettere in relazione la storia della sofferenza degli ebrei con i grandi successi ottenuti dalla comunità ebraica in America, o l'Olocausto e Israele, dei quali l'uno conduce all'altro e lo vendica. E di certo è stata portata alla luce una quantità di storia sufficiente a dimostrare che il movimento sionista più attaccato alla tradizione è parso a volte meno interessato a salvare l'intera popolazione ebraica dalla eliminazione che a salvarne una parte affinché potesse stabilirsi in Palestina; con analogo atteggiamento, esponenti dell'ala destra sionista (ad esempio Shamir) durante il periodo nazista ebbero contatti con i tedeschi per averne in cambio sostegno e aiuto.

Nel complesso, tuttavia, l'assoluta enormità di quanto è accaduto tra il 1933 e il 1945 fa impallidire ogni nostra capacità di descrizione e di comprensione. Quanto più si studiano questo periodo storico e i suoi eccessi, tanto più si è costretti a concludere che per qualunque essere umano degno di tale nome il massacro di tanti milioni di innocenti deve pesare con tutta la sua forza, e non può essere altrimenti, sulle generazioni successive, di ebrei e di non ebrei.

Per quanto si possa convenire con ciò che scrive Tom Segev nel suo libro The Seventh Million, quando afferma che Israele ha sfruttato l'Olocausto per ragioni politiche, può esservi poco dubbio che la memoria collettiva di quella tragedia e il fardello di paura con il quale essa grava oggi sulle spalle di tutti gli ebrei non si debbono minimizzare; certo, nella storia umana vi sono stati altri massacri collettivi (indiani d'America, armeni, bosniaci, curdi, ecc...), ed è certamente vero che alcuni di tali massacri non sono stati sufficientemente riconosciuti dai loro esecutori né adeguatamente risarciti, ma non vi è alcun motivo, a mio parere, per non piegarsi, pieni di orrore e di paura, davanti alla tragedia del tutto speciale che ha travolto il popolo ebraico.

I N PARTICOLARE, come arabo, ritengo importante riuscire a comprendere questa esperienza collettiva, e nella maniera più dettagliata di cui siamo capaci: un atto di comprensione, questo, che rassicura circa l'umanità di ciascuno e stabilisce che una catastrofe del genere non debba più venir dimenticata né debba mai più ripetersi.

Una simile immagine della sofferenza del popolo ebraico ha potuto avvalersi di commentatori arabi durante il processo ad Adolf Eichmann in Israele nei primi anni '60, quando il processo in questione venne usato da Israele per far conoscere tutti gli orrori del genocidio nazista. Commentatori appartenenti alle falangi della destra libanese hanno sostenuto a gran voce che l'intera faccenda era propaganda priva di fondamento, ma altrove, sulla stampa araba del tempo (in Egitto e sulla stampa libanese conservatrice) l'affare Eichmann venne riportato con tutta la giusta considerazione spettante agli spaventosi eventi accaduti in Germania in tempo di guerra. Eppure, secondo uno studio del periodo, condotto da Usama Makdisi, giovane storico libanese, presso la Rice University di Huston, Texas, i resoconti arabi del processo giunsero alla conclusione che sebbene ciò che era stato fatto agli ebrei in Germania fosse senza dubbio un crimine contro l'umanità, quello commesso da Israele, e cioè aver privato e scacciato un intero popolo, fosse un crimine non meno grave, e dello stesso tipo.

Makdisi arrivò alla conclusione che non vi era alcun tentativo di porre sullo stesso piano l'Olocausto e la catastrofe palestinese, ma solo che, giudicate secondo gli stessi parametri, Israele e Germania erano ambedue colpevoli di crimini scellerati di grandezza spaventosa. La mia sensazione è che forse il processo Heichmann si sia rivelato utile agli arabi nel corso delle battaglie psicologiche degli anni '60 come mezzo per far rilevare la durezza di Israele nei confronti degli arabi e non particolarmente come tentativo di far conoscere ai lettori arabi i dettagli dell'esperienza ebraica.

D I TUTTO QUESTO ho già parlato un un articolo sulla coesistenza, perchè questo problema sottolinea l'ironia storica dell'attuale momento di stallo, che forse soltanto gli arabi e gli ebrei della diaspora sono in grado di comprendere in pieno e in un certo senso di trascendere. Al momento non vi è alcuna pace reale, cosa che tutti, ad eccezione degli osservatori più ostinati e ingenui dovranno ammettere. Come ho già affermato in un mio precedente articolo (comparso sul numero speciale del Manifesto, il 19 dicembre scorso) il comportamento recentemente assunto da Israele e rappresentato dalla brutalità stravagante, ma regolarmente mai derivante da provocazioni, di Netanyahu, si esprime in una linea di continuità che ha origine nei primi lontani giorni di vita del paese, durante i quali il disprezzo, il dispiegarsi del potere grossolano e della sistematica brutalità esercitata nei confronti dei Palestinesi rappresentava il presupposto centrale.

Da un lato questa deplorevole strategia politica non giustifica in alcun modo i tentativi retrospettivamente compiuti dagli israeliani o dai palestinesi di usare l'Olocausto per assolvere la crudeltà di Israele o per liquidare l'Olocausto stesso come evento totalmente irrilevante o addirittura non plausibile. Il cinismo non è di nessun aiuto: come disse una volta Oscar Wilde, il cinico conosce il prezzo di ogni cosa ma non conosce il valore di niente. Noi possiamo dimostrarci tanto impazienti verso l'atteggiamento israeliano circa la "sicurezza psicologica" quanto verso i recenti tentativi degli arabi di arruolare personaggi quali l'abietto Roger Garaudy al fine di gettare il dubbio sui sei milioni di vittime. Nessuno dei due fa progredire la causa della pace, o quella della reale coesistenza tra popoli la cui parte di sofferenza storica li unisce inestricabilmente.

E PPURE, SE SI ECCETTUANO alcuni intellettuali ebrei qua e là, ad esempio il rabbino americano Marc Ellis, o il professor Israel Chahak, le riflessioni sulla triste storia dell'antisemitismo e sulla solitudine degli ebrei, da parte di pensatori ebrei, oggi, si è dimostrata del tutto inadeguata. Questo perché è necessario stabilire un legame tra ciò che è accaduto agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e la catastrofe che ha colpito i Palestinesi; ma tale connessione non può essere stabilita solo sul piano retorico o come argomentazione volta a demolire o sminuire il vero contenuto sia dell'Olocausto che del 1948.

Nessuno dei due eventi è simile all'altro. Allo stesso modo, nessuno dei due può giustificare la violenza di oggi. Infine, né l'uno né l'altro debbono venire minimizzati. C'è abbastanza sofferenza e ingiustizia per tutti. Ma a meno di stabilire una connessione tale per cui si consideri la tragedia ebraica come l'evento direttamente responsabile della catastrofe palestinese attraverso qualcosa che chiameremo "necessità" (anziché pura volontà), non potremo coesistere come due comunità segnate da sofferenze che le rendono separate e tra loro non comunicanti.

Il fallimento della Conferenza di Oslo è consistito nel pianificare, in termini di separazione, una divisione oggettiva di popolazioni in entità individuali ma diseguali, anziché riuscire a cogliere il fatto che il solo modo per elevarsi oltre quell'infinito andirivieni di violenza e disumanizzazione consiste nell'accettare l'universalità e l'integrità dell'esperienza dell'altro, e cominciare a progettare una vita comune, insieme.

Non riesco in alcun modo 1) a non considerare gli ebrei di Israele realmente e in misura decisiva come la conseguenza permanente dell'Olocausto, e 2) a non richiedere loro, al tempo stesso, il riconoscimento di ciò che hanno fatto ai palestinesi durante e dopo il 1948. Questo significa che come palestinesi noi esigiamo da loro considerazione e risarcimento senza in alcun modo minimizzare la loro storia di sofferenza e di genocidio. Si tratta del solo riconoscimento reciproco che valga la pena di ottenere, e il fatto che gli attuali governi e governanti siano incapaci di simili gesti sta a testimoniare la povertà di spirito e di immaginazione che ci affligge tutti. E' questo l'ambito in cui ebrei e palestinesi che vivono fuori dalla Palestina storica possono giocare un ruolo costruttivo, ruolo impossibile a coloro che vivono all'interno di questo territorio, sottoposti alla pressione quotidiana esercitata dall'occupazione e dal confronto dialettico. Il dialogo deve aver luogo al livello che ho qui esposto, e non su problemi degradati di strategia e di tattica politica.

Quando si considerano le ampie linee di pensiero della filosofia ebraica che vanno da Buber a Levinas e ci si rende conto della quasi totale assenza di riflessione sulla questione palestinese, ci si accorge di quanto cammino rimanga ancora da fare. Quella che si desidera, pertanto, è una idea di coesistenza che sia rispettosa delle differenze tra ebrei e palestinesi, ma che sia anche rispettosa verso la storia comune della diversa lotta e della diversa sopravvivenza che li lega.

NON PUO' ESSERVI più alto imperativo etico e morale delle discussioni e dello scambio dialettico su questo. Noi dobbiamo accettare l'esperienza ebraica con tutto ciò che essa comporta di orrore e di paura; ma al tempo stesso dobbiamo esigere che alla nostra esperienza venga data una attenzione non minore o forse che essa venga riportata su un diverso livello di attualità storica. Chi vorrebbe mai porre sullo stesso piano, dal punto di vista morale, lo sterminio di massa con l'espropriazione di massa? Sarebbe sciocco persino tentare di farlo. Ma le due cose pur essendo del tutto diverse, sono decisamente legate fra loro, nella lotta per la conquista della Palestina, che è stata così intransigente, con elementi così inconciliabili tra loro.

Mi rendo conto del fatto che parlare di priorità delle sofferenze degli ebrei, in un momento in cui le nostre case vengono abbattute, in cui la nostra esistenza quotidiana è ancora soggetta alle umiliazioni e alla prigionia che ci viene imposta da Israele e dai suoi numerosi sostenitori in Europa e soprattutto negli Stati Uniti, potrà apparire come una sorta di insolenza. Non accetto l'idea che togliendoci la nostra terra il sionismo abbia riscattato la storia degli ebrei, e non riesco nemmeno ad accettare l'idea della necessità di privare della propria terra tutto il popolo palestinese. Ma riesco ad ammettere l'idea che le distorsioni create dall'Olocausto abbiano generato distorsioni nelle sue vittime, e che tali distorsioni si riproducano oggi nelle vittime del sionismo stesso, e cioè i palestinesi.

COMPRENDERE quanto è accaduto agli ebrei in Europa sotto i nazisti significa riuscire a capire quanto vi sia di universale nell'esperienza umana quando è sottoposta a condizioni disastrose. Vuol dire compassione, comprensione umana, e un assoluto ritrarsi dall'idea di uccidere per ragioni etniche, religiose o nazionaliste.

A tale comprensione e compassione non mi sento di porre condizioni di alcun genere: sono sentimenti che si provano perché tali, e non per trarne un vantaggio politico. Eppure un simile passo avanti in termini di consapevolezza da parte degli arabi dovrebbe essere accolto da un analogo desiderio di compassione e di comprensione da parte degli israeliani e dei sostenitori di Israele, i quali si sono impegnati in ogni possibile forma di negazione e di espressione di non-responsabilità difensiva ogni volta che si è arrivati al problema del ruolo centrale esercitato da Israele nella storica privazione della terra, da noi subita come popolo. Tutto ciò è davvero ignobile. Ed è del tutto inaccettabile limitarsi a dire (come fanno tanti sionisti liberali) che faremmo bene a procedere verso la creazione di due stati separati dimenticando senz'altro il passato. La cosa è tanto insultante per la memoria ebraica dell'Olocausto quanto lo è per i palestinesi che continuano a venire privati dei loro territori da parte di Israele.

LA QUESTIONE fondamentale è che le esperienze di ebrei e palestinesi sono storicamente e organicamente legate fra loro. Volerle tenere separate significa falsificare ciò che vi è di autentico in ciascuna di esse. Affinché possa esservi un futuro comune noi dobbiamo pensare le nostre storie legate fra loro, per quanto difficile la cosa possa apparire. E quel futuro dovrà comprendere arabi ed ebrei, insieme, liberi da ogni progetto tendente all'esclusione, basato sulla negazione, che miri a escludere uno dei due contendenti per mezzo dell'altro, sia dal punto di vista teorico che da quello politico. E' questa la vera sfida. Tutto il resto è assai più facile.

(traduzione

di Maria Antonietta Saracino)

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1998002263

 

 

Vorrei accennare, inoltre, a un altro aspetto fondamentale della causa palestinese e dell'intero popolo arabo: la dignità. Il punto fondamentale che va messo in luce è la larghissima forbice che divide la nostra società dai pochi che ci comandano. Questi sembrano sottostimare se stessi e le loro nazioni, paurosi di aprirsi al loro popolo e terrificati d'irritare il fratello maggiore, gli Stati Uniti. Perché la collettività degli arabi non ha strillato il suo «no» contro l'intervento americano in Iraq? Contro le follie di Bush e del suo potere ricevuto da Dio, nessun leader arabo ha avuto il coraggio, come un leader di un grande popolo, di dire che noi abbiamo le nostre tradizioni e la nostra religione? Dov'è il supporto arabo, politico, economico e diplomatico, per sostenere un movimento anti-occupazione nella West Bank e a Gaza?

Forse la cosa che più mi colpisce dell'incapacità araba di dare dignità alla causa palestinese è la situazione in cui è caduta l'Anp. Abu Mazen, una figura di secondo rilievo con scarso peso anche tra i suoi, è stato scelto da Arafat, Israele e Stati Uniti proprio per la sua inconsistenza. Non è né un oratore né un grande organizzatore, e ho paura che esaudirà i desideri di Israele senza occuparsi di quelli del suo popolo. Un uomo che al vertice di Aqaba parlava come il pupazzo di un ventriloquo, che leggeva discorsi scritti dal nemico. Lentamente sembra, però, che le cose stiano cambiando e che Abu Mazen e Abu Ammar (Arafat ndt), nelle aspettative popolari, stiano per essere rimpiazzati da nuovi leaders e forze emergenti. La più promettente è formata dai membri dell'Iniziativa Nazionale Palestinese (di Mustafà Bargouti, n.d.r.), le cui attività hanno radici profonde nelle classi lavorative, e tra i giovani intellettuali. Offrono servizi sociali ai disoccupati e assistenza sanitaria nei campi profughi. Sono queste iniziative che rivelano la dignità e la giustezza della nostra battaglia, che viene appoggiata da persone di tutto il mondo, tra cui Rachel Corrie.

* Da The alternative information center(trad. di Pier Mattia Tommasino)

 

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003032109   1-7-2003

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