martedì 3 maggio 2022

la solitudine dei saharawi

 

Sánchez volta le spalle al popolo saharawi - Marco Santopadre


La svolta di Sánchez sulla vicenda saharawi i cittadini spagnoli l’hanno incredibilmente appresa, venerdì scorso, grazie ai notiziari dei media marocchini; «senza alcun dibattito parlamentare né previa comunicazione ai media del paese» ha scritto il quotidiano progressista El Diario.
Finora tutti i governi spagnoli avevano difeso (almeno formalmente) una soluzione basata su quanto stabilito dalle risoluzioni dell’ONU e sul rispetto del diritto all’autodeterminazione della popolazione saharawi. Ma in una lettera inviata a Mohammed VI, il leader socialista ha comunicato di condividere il piano di Rabat che chiede un riconoscimento internazionale della sovranità marocchina sull’ex Sahara spagnolo in cambio della concessione di un certo grado di autonomia ai territori occupati dal 1975.
Nella missiva, Sánchez giudica «l’iniziativa di autonomia marocchina, presentata nel 2007, come la base più seria, realistica e credibile per risolvere la controversia».
Madrid si allinea così alla 
decisione di Donald Trump, che nel dicembre 2020 diede l’ok all’annessione marocchina dell’ex 53esima provincia spagnola in cambio della normalizzazione delle relazioni tra Rabat e Tel Aviv (che nel frattempo hanno fatto molti progressi, anche sul fronte militare).

 

La reazione del Fronte Polisario
Scontata e rabbiosa la reazione del “Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro” – l’organizzazione che storicamente rappresenta la popolazione saharawi e porta avanti la resistenza – e del governo della Repubblica Araba Saharawi Democratica, il cui territorio è occupato, per l’80%, dal Marocco. In un comunicato l’esecutivo della RASD condanna la decisione di Madrid definendola in «totale contraddizione con la legalità internazionale e le risoluzioni dell’Onu». Da parte sua il Fronte Polisario ha deplorato la mossa di Sánchez definendola un «ulteriore ostacolo» agli sforzi diretti a una soluzione negoziale del conflitto e riaffermando «la propria volontà di continuare la lotta armata per la liberazione». Del resto, dopo circa 30 anni di congelamento delle ostilità – in attesa che l’Onu organizzasse il previsto referendum per l’autodeterminazione contemplato dalle sue risoluzioni, che però non si è mai visto – nel novembre del 2020 i combattimenti sono ripresi – per quanto a bassa intensità – dopo la violazione da parte del Marocco del cessate il fuoco siglato nel 1991

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Spagna. Contrari destra e sinistra
Tornando alle reazioni in casa, a destra il blitz di Sánchez non è piaciuto. Il leader in pectore del PP, il galiziano Alberto Núñez Feijóo, ha bollato la presa di posizione del premier come «drastica e sconsiderata». Temendo concessioni alle rivendicazioni marocchine sulle enclavi nordafricane di Ceuta e Melilla se non addirittura sulle Canarie, la stampa conservatrice, unanime, parla di «cedimento al Marocco». L’ex premier popolare José Maria Aznar ha invece definito la svolta della Moncloa sul Sahara Occidentale un «errore storico» che il paese «pagherà caro».

Sul fronte opposto, la mossa del PSOE ha prodotto l’ennesimo strappo con gli alleati di governo di Podemos, che hanno informato di non condividerla affatto, così come le formazioni nazionaliste e di sinistra basche, catalane e galiziane. Anche la Ministra del Lavoro e vicepremier Yolanda Díaz e il ministro Alberto Garzòn (di Izquierda Unida) si sono smarcati.
Per la leader dei morados, Ione Belarra, la Spagna deve rispettare il diritto internazionale e il conflitto nel Sahara richiede «una soluzione politica equa, duratura e accettabile per tutte le parti in conformità con le risoluzioni dell’ONU, a partire dall’autodeterminazione del popolo saharawi». Per quanto in disaccordo, però, i viola non sono certo intenzionati a mettere in discussione l’alleanza di governo con i socialisti.
L’avallo di Sánchez alle richieste marocchine mira al varo di relazioni preferenziali – sul piano geopolitico, commerciale e militare – con il paese nordafricano, dopo anni di relazioni burrascose.

 

Madrid in cerca della normalizzazione
Agli inizi degli anni Duemila, Madrid e Rabat si sono affrontati militarmente per il controllo dell’isolotto di Perejil, nello Stretto di Gibilterra. Nel 2021, poi, la crisi è di nuovo esplosa dopo l’accoglienza riservata da Sánchez a Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario a lungo ricoverato sotto falso nome in un ospedale della Rioja a causa di alcune complicanze dovute al Covid 19. La vendetta marocchina è giunta il 18 maggio, quando 8000 migranti riuscirono a raggiungere Ceuta grazie alla “distrazione” delle guardie di frontiera di Rabat. Madrid accusò il Marocco di utilizzare i profughi come strumento di ricatto e Rabat imputò a Sánchez una connivenza con gli avversari della sua integrità territoriale.
Ora però Madrid vuole voltare pagina e cerca una base legale sulla quale basare il soddisfacimento dei suoi interessi nell’area, a partire dallo sfruttamento delle risorse ittiche dei pescosi mari al largo delle coste del Sahara Occidentale o dei giacimenti di fosfati. «Cominciamo una nuova tappa basata sul rispetto degli accordi, l’assenza di azioni unilaterali, la trasparenza e la comunicazione permanente» recita un comunicato diffuso dalla Moncloa, che mette l’accento sulla necessità di fare dei progressi nella comune gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo e nell’Atlantico. Secondo indiscrezioni, il ministro degli Esteri José Manuel Albares dovrebbe presto recarsi a Rabat per preparare la visita del premier spagnolo, che intanto il 23 marzo si è recato a Ceuta e Melilla.
Alle prese con una fronda nel suo stesso partito, Sánchez può comunque contare sul sostegno pubblico espresso dall’ex premier Zapatero e dell’ex ministro degli Esteri (anch’egli socialista) Moratinos, che durante il loro mandato provarono a convincere l’esecutivo – ma dovettero desistere – a sostenere il piano marocchino di annessione.

 

L’Algeria disapprova
Ora si attendono però le reazioni dell’inviato speciale dell’Onu per il Sahara, Staffan de Mistura (nominato da poco dopo due anni durante i quali la carica era rimasta vacante), e del governo algerino, da sempre principale sponsor della lotta dei saharawi per l’indipendenza, utilizzata spesso come arma contro i nemici di Rabat. Il governo di Algeri, al quale Madrid ha chiesto un aumento delle forniture di gas, ha richiamato “per consultazioni” il proprio ambasciatore a Madrid, Said Moussi, dicendosi stupito per il cambio di posizione della Spagna. Contemporaneamente, l’ambasciatrice marocchina in Spagna, Karima Benyaich, è tornata a Madrid dopo il suo ritorno in patria nel maggio del 2021.

Nei mesi scorsi il governo algerino ha già interrotto le relazioni con il Marocco bloccando il flusso del gas che prima arrivava in Spagna e Portogallo transitando sul territorio di Rabat attraverso il condotto Maghreb-Europa. Ora il gas algerino fluisce verso Madrid attraverso un altro condotto – il MedGaz – che bypassa il territorio marocchino ma che però ha una portata limitata, a cui Algeri sopperisce inviandolo in Spagna e in Portogallo attraverso delle navi cisterna.
Secondo alcuni media iberici, ora l’Algeria potrebbe provare a far pressione sul governo spagnolo, per convincerlo a tornare indietro sulla decisione di sostenere l’annessione marocchina del Sahara Occidentale, aumentando i prezzi del gas venduto a Madrid fino al 2024. L’Algeria fornisce il 43% del gas importato dalla Spagna, seguita a distanza dagli Stati Uniti (14%) e dalla Nigeria (11%).
Il governo algerino avrebbe recentemente rifiutato le richieste statunitensi di riapertura del gasdotto Maghreb-Europa (GME), ed anzi avrebbe chiesto al governo spagnolo di non rivendere al Marocco una parte del combustibile che Madrid importa dall’Algeria.
Il Marocco nel frattempo, avrebbe raggiunto un accordo con la società petrolifera Sound Energy per collegare i suoi giacimenti di gas di Tendrara al GME.
Dal canto suo l’Algeria starebbe lavorando ad un progetto volto a realizzare un lungo gasdotto che la collegherebbe alla Nigeria attraverso il Niger, e che potrebbe far arrivare fino all’Europa circa 30 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Le autorità algerine avrebbero già preso accordi in questo senso con il governo del Niger.


LINK E APPROFONDIMENTI

https://pagineesteri.it/2021/12/29/africa/il-sahara-occidentale-tra-occupazione-e-greenwashing/

https://www.publico.es/actualidad/carta-sanchez-rey-mohamed-vi-propuesta-marroqui-autonomia-base-seria-creible-realista.html

https://www.africarivista.it/algeria-continua-il-braccio-di-ferro-sul-gasdotto-maghreb-europa/199056/

https://www.publico.es/politica/decision-gobierno-espanol-sahara-no-cumple-derecho-internacional.html

https://www.aljazeera.com/news/2022/3/19/algeria-recalls-spain-envoy-over-western-sahara-policy-change

 

da qui

 

 

La pessima salute di ferro del governo Sánchez - Maurizio Matteuzzi

Qualcuno tracciando, nel gennaio scorso, un bilancio di metà mandato della coalizione fra i socialisti del PSOE e la “nuova sinistra” di Unidas Podemos, scrisse della “pessima salute di ferro del governo progressista spagnolo”. Un ossimoro azzeccato.

Ma in pochi mesi lo scenario anche in Spagna è drammaticamente cambiato e l’attacco in febbraio della Russia di Putin all’Ucraina con la relativa risposta NATO-UE – e anche molto altro – ha mandato giudizi e previsioni a carte quarantotto. E se oggi lo stato di salute del governo guidato da Pedro Sánchez resta pessimo, non appare più nemmeno così di ferro. Molti in Spagna considerano questo il passaggio più critico da quando nel gennaio 2020 il governo ottenne l’investitura delle Cortes. C’è anche chi, non solo in una destra colpita anch’essa dalla crisi, vede non più così sicuro l’approdo della legislatura alla sua naturale scadenza elettorale nel 2023.

Fino a fine 2021, nell’imperversare della pandemia, il governo di coalizione fra due soci che non si amano ha in buona sostanza tenuto fede agli impegni presi e implementato la “agenda progressista” faticosamente pattuita. Livelli record di spesa in sede di bilancio, misure sociali, riforme delle pensioni e del lavoro, leggi a forte impatto simbolico e politico quali eutanasia, riders, reddito minimo vitale, affitti, trans e LGBT, violenze di genere e femminicidio, memoria democratica, clima e transizione energetica verde, campagna di vaccinazione che ha toccato l’80% della popolazione, sblocco dell’impasse catalana con tanto di indulto per i leader indipendentisti…

La ripresa economica, dopo il disastro provocato nel 2020 dal covid, non ha però assecondato, finora, le speranze di Sánchez.  Nel ’21 l’occupazione ha superato per la prima volta i livelli del 2007, ma la crescita del 7.2% annunciata dal governo per quell’anno è andata via via riducendosi: prima al 6.5% per poi scendere al 5%. Il maggior tasso di crescita dell’ultimo ventennio ma pur sempre troppo basso. Soprattutto considerando che nel dicembre scorso il tasso d’inflazione era già schizzato oltre il 6% per poi lambire, con gli effetti collaterali della guerra in Ucraina – bollette di luce e gas, prezzo di gasolio e benzina, annunciato aumento delle spese militari dei paesi NATO, etc. etc. – la soglia insostenibile del 10% a fine marzo.

Pedro Sánchez e il suo governo, sotto assedio di una rabbiosa destra storica – il Partido Popular – che non si rassegna a non essere più al potere e di una nuova destra cavernicola – i fascio-franchisti di VOX – che è ormai il terzo partito spagnolo, non possono fare a meno di una economia che corra veloce, pena il rischio di regalare le bandiere della protesta alla piazza e ai gilet gialli di cui si vedono già i sintomi nelle massicce manifestazioni e scioperi di trasportatori, agricoltori, pescatori, autonomi, etc.; nonché il rischio che, come accaduto in altri paesi (la Francia, l’Italia), i ceti popolari delusi dalla sinistra riversino i loro voti sulla destra.

Sánchez lo sa bene. Per questo a fine di marzo ha annunciato un “Plan de Choque de Respuesta a la Guerra”, un “piano d’urto” anticrisi da 16 miliardi di euro che prevede uno “escudo social” con tagli fiscali e aumento del reddito minimo vitale.

Se basterà e funzionerà è da vedere. Decisivo sarà il fattore tempo. Perché il 2023, anno di elezioni regionali e politiche, è vicino mentre il rimescolamento fra e nelle forze politiche è al massimo.

Il PSOE, dopo la svolta centrista nel congresso di ottobre, è forse tentato di rompere con Podemos (almeno questo è il timore di Podemos che non si fida di Sánchez) per giocare la carta della grande coalizione con il PP che ha appena cambiato la leadership.

Il Partido Popular, che si è liberato del fallimentare Pablo Casado e  ha appena eletto col 98% dei voti il suo nuovo leader,  Alberto Núñez Feijóo, presidente della Galizia, “moderato e centrista”, è chiamato a decidere se continuare e formalizzare  l’alleanza con l’ultra-destra di VOX come già accade in molte città e regioni (la linea della presidente della Comunidad di Madrid, la sfegatata trumpista Isabel Díaz Ayuso) o  rilanciare una linea di centro-destra e/o avventurarsi in una qualche forma di appeasement con il PSOE .

Podemos che perde peso elettorale e ingoia rospi (l’ultimo la clamorosa giravolta con cui Sánchez riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, a danno del Fronte Polisario) ma non rompe perché “siamo l’unica garanzia che il governo faccia politiche progressiste”. E aspetta con crescente nervosismo che la comunista Yolanda Díaz, popolarissima ministra del lavoro, avvii il suo progetto di “Frente Amplio” nell’arduo tentativo di riunire gruppi e gruppuscoli della nuova sinistra che si sono andati frantumando.

Poi c’è VOX, che incalza il PP di Núñez Fejóo intimandogli di “decidere con chi vuole negoziare”, se con Pedro Sánchez e il suo governo chavista in salsa iberica o con i patrioti anticomunisti di VOX.

Saranno due anni di fuoco.

da qui



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