martedì 8 dicembre 2020

Conoscenza e riconciliazione - Ascanio Celestini

 

Tre dollari per una bomba a mano sono troppi in un paese povero e i kalashnikov a buon mercato sono pochi per le operazioni di sterminio che si stanno preparando in Rwanda. Già nel marzo del 1992 il governo firma un accordo con l’Egitto per sei milioni di dollari e un altro uguale con il Sudafrica. “Ad anticipare i soldi per il Rwanda è una banca francese” ricorda Daniele Scaglione (Istruzioni per un genocidio EGA). Ma l’arma che diverrà il simbolo di questa eliminazione fisica porta-a-porta è il machete. Arrivano più di mezzo milione di pezzi, maggiormente comprati in Cina, come tutti i prodotti a buon mercato che acquistiamo sulle bancarelle quando non abbiamo il denaro da spendere nei negozi buoni.

L’Onu lascia soli i rwandesi. Soli o male accompagnati dalle nazioni che hanno interessi in quella regione del mondo. Quando il Fronte Patriottico di Paul Kagame dichiara la fine della guerra, a metà luglio, delle 300mila persone che abitavano la capitale Kigali ne restano 50mila. 2 milioni di hutu stanno scappando all’estero.

Nel gennaio del 2001 sono circa 100mila i processi da celebrare in Rwanda. Un milione di morti in tre mesi dall’aprile del 1994 per un genocidio che l’occidente riuscì a non vedere, ma che aveva antropologicamente costruito in cent’anni di scuola di razzismo. Che aveva alimentato con interessi coloniali100mila processi sono troppi in un paese grande come la Lombardia e più o meno con lo stesso numero di abitanti. Impossibile celebrarli. Così si istituiscono i gacaca, i prati della giustizia. Tra l’inizio di febbraio e la metà di marzo del 2002 studenti di legge e magistrati (in tutto 781) agli ultimi anni di corso vengono addestrati per poter preparare i rwandesi che assumeranno il ruolo di giudice nei gacaca. Saranno oltre 200mila e la loro scuola dura sei settimane. In estate comincia il lavoro di registrazione e schedatura dati. Raccolgono i nomi delle vittime e dei sospetti carnefici, poi cominciano le assemblee pubbliche.

Non c’è una sola persona che sia stata solo sfiorata dal genocidio. Tutti sono vittime o carnefici. E chi non appartiene a queste categorie è stato direttamente di sostegno a una delle due.

“Per noi è essenziale sapere come sono morti i nostri familiari e soprattutto dove si trovano i loro corpi, dove, dove, dove…” scrivono Esther Mujawayo e Souâd Belhaddad in Il fiore di Stéphanie (Edizioni E/O). “Non si deve interrompere chi sta parlando” e “è proibito offendere, perpetrare atti di violenza, manifestare il proprio dissenso o proferire minacce”. E questo rispetto deve esserci anche se “l’individuo che hai di fronte ha fatto a pezzi i tuoi”. Devi ascoltare senza cercare i suoi occhi. Non lo devi guardare, non devi reagire impulsivamente e parlare solo dei fatti “senza aggiungere alcun commento o lasciar trapelare una qualsiasi emozione. “Hai una gran voglia di picchiarlo ma non hai neppure il diritto di colpirlo con le parole”.

E qui mi fermo. La storia del Rwanda possiamo andarcela a leggere e sarebbe una buona cosa studiarla anche a scuola. Servirebbe per comprendere che la memoria ci serve per guardarci attorno prima che alle spalle. Dunque mi fermo, interrompo il discorso sul Rwanda per chiedere una riflessione sui gacaca. Cioè un tribunale che non ha come prima finalità la condanna, ma la conoscenza e la riconciliazione. Per quest’ultima credo che la strada sia lunga. Lunghissima. Forse impossibile. Ma la prima è fondamentale. Cosa chiediamo quando partecipiamo a un processo?

Una risposta ce la fornisce Alessandra Ballerini, avvocato specializzato in diritti umani e immigrazione. Tra le persone di cui si occupa ci sono Giulio Regeni e Mario Paciolla. Sulle pagine genovesi di Repubblica scrive: “Le persone che varcano la soglia del nostro studio, sto realizzando negli ultimi giorni, chiedono da noi principalmente due cose: verità e giustizia. Non necessariamente entrambe e non per forza alternativamente, ma certamente in questo ordine” (leggi Verità).

Queste “due cose” mi ricordano un testo di Pier Paolo Pasolini, intellettuale attorno al quale rifletto sempre più spesso in questi mesi. Parlo di Passione e Ideologia (Garzanti). E mi sembra illuminante sostituirle momentaneamente con le “due cose” di Alessandra Ballerini. Prendo a prestito la nota che Pasolini stesso scrive per spiegare le motivazioni della sua pubblicazione.

«“Verità e giustizia”: questo e non vuole costituire un’endiadi (giustizia vera o verità giusta), se non come significato appena secondario. Né una concomitanza, ossia: “Verità e nel tempo stesso giustizia”. Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una graduazione cronologica: “Prima verità e poi giustizia”, o meglio “Prima verità, ma poi giustizia”».

Passione e ideologia“: questo e non vuole costituire un’endiadi (passione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena secondario. Né una concomitanza, ossia: “Passione e nel tempo stesso ideologia”. Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una graduazione cronologica: “Prima passione e poi ideologia”, o meglio “Prima passione, ma poi ideologia”.


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