sabato 19 dicembre 2020

ricordando Walter Benjamin

 

Omaggio a Walter Benjamin, “Il capitalismo come religione” - Alessandro Visalli

Il 26 settembre 1940, Walter Benjamin che aveva compiuto da poco i suoi quarantotto anni, si uccise alla frontiera spagnola per il timore di cadere, lui ebreo, nelle mani della polizia politica nazista. La Francia era caduta e il filosofo tedesco, come molti altri, cercava di riparare negli Stati Uniti. Theodor W. Adorno e Max Horkheimer vi riuscirono, ma lui, che degli amici e colleghi francofortesi era il più anziano, se pur di poco, no.

Il frammento[1] di cui vorremmo per lo più parlare è del 1921, ed è forse parte di un progetto più ampio di “politica” che venti anni dopo non ha ancora compiuto e la morte impedirà. Anche gli anni nei quali è scritto sono anni tragici e violenti (alla violenza sono intestati alcuni altri frammenti dell’opera mai nata), la Prima guerra mondiale, questo conflitto senza precedenti che ha frantumato il senso dell’Europa, è terminata solo da pochissimi anni, ma anche i tre brevi anni di pace sono stati, per chi vive in Germania una continua tragedia. Dal 1918 al 1919 fu in corso una continua guerra civile a bassa intensità tra le forze che si contendevano il potere: le destre che poi troveranno sbocco nel nazismo, le sinistre divise sull’onda dell’esempio della rivoluzione russa. Dal 1919 è attiva la Repubblica di Weimar, che fatica a stabilizzarsi. Nel 1921 vengono costituite le Sturmabteilung (SA).

Ma non c’è solo il tempo, in questo scritto. C’è anche la dinamica del pensiero, nell’inseguirsi dei testi e delle controversie. Si tratta di un tema che, infatti, è molto presente nella riflessione critica sul capitalismo. Nel 1904 Max Weber aveva scritto “L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo[2], nel 1902 Werner Sombart aveva pubblicato “Il capitalismo moderno[3], nel quale il termine stesso è presentato.

L’avvio con questo doppio testo della scuola storica tedesca è citato[4] da Benjamin nell’avvio del suo frammento. Ma il tema centrale, quello dell’illimitatezza del desiderio disperato che la “forma di vita” del capitalismo introduce nel mondo, rinvia alla riflessione sulle radici che in quegli stessi anni Sombart inquadra. Il sociologo tedesco distingue tra “mentalità economica precapitalistica” come “erogazione”, equilibrio tra quel che si spende e quel che si ottiene nella produzione di beni necessari all’uomo “vivo”, e “capitalismo”, che è una “organizzazione economica di scambio” caratterizzata da una nuova collaborazione dominata dal principio del profitto e dal razionalismo economico. Ovvero dominata dal “calcolo”.

In altre parole, l’obiettivo “immanente l’idea di organizzazione capitalistica”[5] è il semplice aumento della quantità di denaro. Questo è il suo “scopo oggettivo”. Non sfuggirà la relazione di questa riproposta sombartiana con la lezione marxiana. Il “modo di produzione capitalista”, infatti, anche in Marx (che Sombart, allora socialista, legge con attenzione) si contraddistingue per l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di capitale) del tutto indifferente ai suoi mezzi. La formula tradizionale è rovesciata, il fine ultimo dell’economia non è più “vivere bene” (nel proprio ruolo), ma creare “valore”, in linea di principio indefinito ed illimitato. Il “valore” per il capitalismo non è dettato da una struttura antecedente di ruoli, o dalla parola di Dio, ma è direttamente una forma sociale, un modo di creare unità e dissolvere le differenze che diventa visibile nella metrica del “denaro”. La finalità di tutto diventa quindi creare la massima quantità possibile di valore, cioè di denaro che lo rappresenta.

Ancora nella classica lettura di Sombart, ripresa infinite volte, l’uomo nella cultura tradizionale è invece sotto determinato, incorporato, in una rete sociale di ruoli e dominato dall’idea “che il tenore di vita debba essere conforme al proprio ceto sociale”. Ovvero debba essere conforme ai propri doveri. “Lusso” e “nutrimento” sono le coppie di forme sociali che Sombart individua, l’uomo non ha sempre lavorato per il profitto, non lo ha fatto per diventare “ricco”. Anche il “lusso” si capisce male con le categorie contemporanee, su questo Mauss, con la sua descrizione del “potlatc” aiuta[6] in un altro testo che esce in quel torno di anni. Il “lusso” è in effetti una relazione sociale, un dovere ed una responsabilità verso dio e gli uomini. Verso la fine Benjamin dirà che il capitalismo non ha vie di uscita, nessuna via “comunitaria” è possibile, resta solo l’“individuale-materiale”.

Lo stesso concetto di “economia” è radicalmente diverso nel mondo tradizionale, come quello di denaro[7]. Lo scriverà bene Mauss, si vive dentro le proprie creazioni; l’uomo non è separato dalle sue azioni, non lo è dalle sue cose (c’è in realtà un legame nelle due direzioni, delle “cose”), ed anche quindi il “lavoro” (concetto eminentemente capitalista) non è mai separabile dal legame sociale, dai ranghi, dai ruoli, dai vincoli, dalle responsabilità, dai doveri, dagli amori. Quando si lavora si dona se stessi, si esercita e si viene esercitati da una lealtà. Ricorda Luigino Bruni, rileggendo Antonio Genovesi[8], che ciò che può essere solo donato (il proprio tempo, ovvero la propria vita) richiede reciprocità. Pretende riconoscimento e rispetto, pretende cioè riconoscenza. “Incentivi” e tanto meno “controlli” non possono ottenerla. L’uomo, davvero, non lavora per il denaro. Questa semplicissima verità era chiara ancora nel XVIII secolo, anche agli scozzesi, ma oggi non è più capita (anche quando è enunciata). La nostra religione non ce lo consente più.

Su questa linea si incontrano quindi anche le riflessioni, coeve di Marcel Mauss sull’economia del dono e di Gyorg Lukacs sulla reificazione[9], entrambe pubblicate nel 1923.

Dunque, come bene dirà una ventina di anni dopo Polanyi ne “La grande trasformazione[10], testo di poco successivo alla tragica morte di Benjamin, parlando della rivoluzione industriale: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi del mercato significa annullare tutte le forme organiche”[11], ovvero estrarre parte della vita dalle relazioni sociali, dalle strutture “totali”, per distillare un elemento, attraverso lo strumento del “contratto” e la sua particolare “libertà”[12].

Rispetto a queste notazioni, tutte di critici, Max Weber all’epoca amico di Sombart prende una linea meno netta, qualificando l’attività di lucro come un insieme di atteggiamenti e tecniche, di orientamenti basati sul calcolo continuo, ma su quello che chiama “un agire sobrio, riflessivo, costante, ma anche audace”[13]. Dove il socialista Sombart evidenzia anche lo spirito di rapina, l’aggressività illimitata, l’irrazionalismo (come farà, appunto, Benjamin), il momento selvaggio, Weber sottolinea l’ambivalenza, ma è affascinato dagli esiti. Inoltre, pone (sulla base di una limitata ricerca empirica) una relazione tra insorgere del capitalismo e spirito protestante, luterano e calvinista. La pulsione a connettere tempo e denaro (Benjamin Franklin, citato a p.76) è trasmettere a questo la natura “feconda e fruttuosa” del tempo, purché si rispetti l’ethos della “diligenza e moderazione”. L’irrazionale, ma leale e degno, “guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo” (Franklin[14]), è davvero spoglio da ogni considerazione eudemonistica o edonistica; si tratta di un semplice e chiaro “fine a se stesso con tanta purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in ogni caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla <felicità> o all’<utilità> del singolo individuo”.

Il punto è che questa irrazionalità anche per Weber contiene dei “sentimenti” connessi a “certe rappresentazioni religiose”. Lo stesso Benjamin Franklin (che era un deista e quindi non seguiva la confessione calvinista del padre, nella quale tuttavia era stato educato) se lo chiede, e nell’autobiografia risponde che gli “uomini” devono “fare denaro” come espressione dell’essere “spediti nelle proprie faccende” (un versetto della Bibbia) e dell’abilità nella professione (“beruf”). Deve farlo, insomma, per “dovere professionale”, un dovere verso il contenuto della propria stessa professione, una serietà interna. Queste idee, questa etica, questa valorizzazione del “beruf”, del dovere non è, però, un semplice rispecchiamento, o una sovrastruttura di condizioni economiche. Per Weber (che polemizza evidentemente con Marx, o, per meglio dire, lo rovescia) lo precede.

Questo spirito è, nella sua ambivalenza, quello che lega un interprete contemporaneo di Weber, come Jurgen Habermas, alla sua sempre riaffermata fiducia (da ultimo “Verbalizzare il sacro[15]) nei “potenziali spirituali” della modernità (globalizzata), pur nella contemporanea presenza di ben viste “tendenze autodistruttive”. La mossa kantiana che ne deriva, l’universalismo egualitaristico e individualistico al contempo, muove quindi dalla perdita di questo “senso religioso” e quindi dallo “sganciamento degli enunciati morali dal contesto sostanzialistico (cosmologico ed escatologico)”[16] al quale erano connessi nel senso ricordato con Sombart e Weber. Di qui, per conservare comunque la “coscienza normativa”, che è “struttura dello spirito”, si viene alla unica fondazione residualmente disponibile, basata sulla “razionalità procedurale”.

Ma si è davvero perso questo “senso religioso”? La scala è stata davvero gettata dopo essere “saliti” sulla piattaforma della razionalizzazione del mondo, o piuttosto non dobbiamo concludere che l’incantesimo ci trattiene ancora. E nella stessa mossa, inseparabile, la “razionalizzazione” incorpora, in modo bastardo e irriconoscibile, un “senso religioso” pervertito? Le “tendenze autodistruttive” di cui parla Habermas (rinviandosi al dibatto dell’inizio secolo, ovvero alla prima generazione della sua stessa scuola), sono davvero solo un’aggiunta ai “potenziali spirituali” della modernità, o ne sono piuttosto il codice?

Per aiutarci in queste domande andiamo al testo del 1921 di Walter Benjamin: prenderemo le citazioni dalla raccolta “Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940)”, sono solo sei pagine, da p.42 a 47, ma sono intensissime. Mentre Weber, secondo il nostro, vedeva il capitalismo come “una conformazione determinata dalla religione” (ovvero coevoluta insieme alla trasformazione delle sensibilità religiose), esso è per Benjamin proprio “un fenomeno essenzialmente religioso”.

Nel capitalismo, cioè, “può ravvisarsi una religione”. Oppure, come scrive il teologo Hugo Assmann, la razionalità economica “ha sequestrato e reso funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo”[17].

Ciò significa che “il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni”. Ma che genere di religione è?

Per Benjamin si tratta di una “pura religione cultuale”, la più estrema. Un puro riferimento al culto, a quello che Habermas chiama “il rito” (la ripetizione dei gesti, delle forme, delle pratiche, denso in sé di significati trattenuti, congelati in essi, non verbalizzati), senza avere “una teologia”. Il capitalismo in sé non ha infatti una vera e propria dottrina, si presta ad ogni possibile vestizione. Si veste anche di socialismo (ad un certo punto, fulmineamente, dirà). È in effetti più il contrario: ogni dottrina che scaturisce dal culto, dal rito, ha una sorta di “tonalità religiosa”, è una “verbalizzazione” che non conclude l’intero campo del culto. Così ha una tonalità religiosa per Benjamin “l’utilitarismo” (noi potremmo oggi dire il liberismo).

Secondo carattere è che si tratta di un culto “senza tregua e senza pietà”. Ininterrotto, costante, onnipresente, che entra in ogni cellula e tutto cattura.

Terzo, è un culto che “genera colpa” (la parola usata è schuld, della quale il nostro segnala “l’ambiguità demoniaca”) cioè anche “debito”. Come dice “il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza [ed indebita]. Così facendo, tale sistema religioso precipita in un moto immane”. Cioè anche in una “immane coscienza della colpa [del debito] che non sa purificarsi [da cui non ci si redime], fa ricorso al culto non per espiazione in esso di questa colpa, ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e infine e soprattutto per coinvolgere dio stesso in questa colpa e interessarlo infine all’espiazione”. Ma questa espiazione non arriva mai; infatti “sta nell’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo, resistere sino alla fine, fino alla definitiva, completa, colpevolizzazione di dio, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo”. Fino alla “autodistruzione” dello “spirito” (normativo) di cui parla Habermas con riferimento allo spettacolo dello scatenamento del capitale nella forma finanziaria che con i suoi “flussi” distrugge sempre di nuovo il mondo.

Ecco, per Benjamin, dove trova luogo “l’elemento storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi[18]. La vera e propria “estensione della disperazione a stato religioso del mondo”, una disperazione da cui, assurdamente, doversi “attendere la salvezza”. Siamo nell’assoluta solitudine della fine della trascendenza, e quindi della implicazione di dio nel destino umano. Nietzsche e Freud sono citati a supporto di questo codice, pensieri che “appartengono al dominio sacerdotale di questo culto”. Non si trova più salvezza nella umkehr (nel ‘rivolgimento’, ‘capovolgimento’, ‘conversione’ e quindi ‘pentimento’, ‘metaonia’, e ‘ripartenza’), ma nel “potenziamento”, costante, illimitato. Un potenziamento che non fa salti, e attraversa il cielo.

Il teologo della liberazione sudamericano Assmann, pur senza citare Benjamin, né il dibattito degli anni venti-quaranta (al di fuori del solo Polanyi che, in qualche modo, ne tira i fili) dirà cose molto simili. La promessa di autoregolazione senza alcun intervento umano intenzionale assume nel capitalismo il carattere di “buona novella” e di idolatria. Una buona novella strettamente connessa ad una “ideologia sacrificale” a danno sistematico della vita concreta.

Questa strada della redenzione attraverso il potenziamento, la crescita, è proprio anche di Marx. Per Benjamin, infatti: parimenti in Marx “il capitalismo che non inverte la rotta diviene, con interessi ed interessi composti che sono funzioni della colpa (si badi all’ambiguità demoniaca di questo concetto), socialismo”. Insomma, anche il socialismo (nella sua versione industrialista e progressista, ipostatizzante la tecnica e lo sviluppo materiale delle “forze produttive”) “appartiene al dominio sacerdotale di questo culto”. Partecipa al culto.

Ma, infatti, come dice Benjamin “il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma[19].

Del resto del legame tra capitalismo e religione era ben cosciente lo stesso Marx, che nel terzo volume de “Il Capitale”, alla fine del capitolo trentacinquesimo sull’argomento dei metalli preziosi e il corso dei cambi scrive improvvisamente: “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. <The Scotch hate gold>. Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’ la fede che rende beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario”[20].

In effetti, qui la tesi sembra affine a quella di Weber, ma se ne discosta, “il capitalismo – come va dimostrato non solo per il calvinismo, ma anche per gli altri indirizzi cristiani ortodossi – si è sviluppato in occidente in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che alla fin fine per l’essenziale la storia di quest’ultimo è la storia del suo parassita, il capitalismo”. Come abbiamo cennato su questa relazione tra capitalismo e religione, oltre il protestantesimo, si potrebbe anche rileggere il bel libro di Luigino Bruni “Il mercato e il dono”, che è imperniato sulla figura di un sacerdote e teologo settecentesco, il napoletano Antonio Genovesi (morto nel 1769), che dal 1755 regge nella prestigiosissima (all’epoca) Università di Napoli la prima cattedra europea (ovvero mondiale) di “economia” e scrive “Lezioni di economia civile[21] che anticipa di nove anni la più famosa “La ricchezza delle nazioni[22] (peraltro anche essa scritta da un autore che insegnava filosofia morale a Glagow connessa con la chiesa scozzese). Bruni, che legge anche Benjamin e lo cita, sostiene che il capitalismo “è nato dalla ricerca o dal desiderio del paradiso, e ancora oggi continua a vivere con promesse di altri paradisi”, paradisi secolari fondati su quei potentissimi simboli, codici e sogni che sono le merci ed il denaro stesso. Il capitalismo ha natura, insomma, “religiosa, simbolica e spirituale” e nulla come la finanza, con la sua auto programmazione impermeabile a qualsiasi ratio umana lo mostra. Insomma, “nell’età della riforma il cristianesimo non ha favorito l’emergere del capitalismo, ma si è trasformato nel capitalismo”.

Ciò che manca, ciò che è stato sottratto, per guadagnare l’illimitatezza, e dunque l’ansia che la rende necessaria, sistematicamente, è la “mancanza di una via di uscita comunitaria, non individuale-materiale”[23].

L’incapacità del capitalismo di riconoscere l’uomo vivo, con i suoi bisogni non traducibili nella metrica del valore-denaro, per tradurlo in uomo astratto è fondato su questa spiritualità necrofila nascosta. Come dio nascosto è il “capitale”.


Note

[1] - Walter Benjamin, “Capitalismo come religione”, 1921, ora in “Senza scopo finale”, Castelvecchi, 2017, p.42.

[2] - Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.

[3] - Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902.

[4] - Con riferimento a Weber ed alla tesi della dipendenza del capitalismo dallo spirito protestante.

[5] - Sombart, cit, p. 162

[6] - Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, 1923.

[7] - Sombart, cit, p.130.

[8] - Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”, Bocconi, 2016.

[9] - Gyorg Lukacs, “Storia e coscienza di classe”, 1923, Cit. in Axel Honneth, “Reificazione”,

[10] - Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1942.

[11] - Polanyi, cit., p. 210

[12] - su questo si può leggere anche la ricostruzione fatta da Axel Honneth in “Il diritto della libertà”, Codice ed. 2015

[13] - Max Weber, cit., p.92

[14] - Max Weber, cit. p.76.

[15] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro”, Laterza 2015.

[16] - Habermas, cit., p. 179

[17] - Hugo Assmann, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi 2020, ed or. 1990.

[18] - Benjamin, cit., p.43

[19] - cit., p. 45

[20] - Karl Marx, “Il Capitale”, Editori Riuniti, p.690.

[21] - Antonio Genovesi, “Lezioni di economia civile”, 1765

[22] - Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, 1776

[23] - Luigino Bruni, cit., p.46

da qui

 

 

Walter Benjamin, un pensiero per tempi bui - Dario Gentili

 

Il filosofo morto 80 anni fa è un'icona, nonostante la complessità del suo pensiero. Ciò accade perché, anche in una fase in cui non parevano esserci vie di fuga dall'oppressione, intravide la possibilità di invertire il corso della storia

 

Le ricorrenze rappresentano talvolta l’occasione per strappare – per qualche settimana o per qualche mese – all’oblio o a una trasmissione affidata esclusivamente agli specialisti il pensiero e l’opera di un autore. Quella della rammemorazione delle ricorrenze – se non godono di per sé di una celebrazione già solennemente imbastita – è un esercizio a cui si è dedicato anche Walter Benjamin. A ottant’anni dalla sua morte, tuttavia, il suo non è certo il caso di un pensatore scomparso dai radar delle mode culturali (e dunque non solo accademiche) e di cui ci si augura o si promuove la riscoperta. Anzi, a partire dagli anni Sessanta (vale la pena ricordare che, in vita e fino ad allora, era un autore praticamente disconosciuto), Benjamin è uno dei pochi filosofi che ha oltrepassato i confini dei circuiti accademici per far capolino non di rado nella cosiddetta cultura popolare. È stato ed è fonte d’ispirazione se non oggetto di film, rappresentazioni teatrali, romanzi, racconti, dipinti, e la sua stessa immagine è stata riprodotta – per mezzo di quella «riproducibilità tecnica» che lui indicò come destino dell’arte – in vari stili e fattezze. Per non parlare della frequenza con cui le citazioni tratte dai suoi scritti campeggiano ovunque, dalle mostre d’arte alle pagine Facebook. E sarebbe da rilevarne l’ironia della sorte per un pensatore i cui scritti sono stati spesso tacciati di oscurità ed ermetismo, aspetto che tra l’altro fece da argomento per la sua bocciatura all’abilitazione per l’accesso all’università tedesca (ben prima che il suo essere ebreo potesse comunque precludergliela).

Ora, non si tratta affatto di denunciare snobisticamente l’abuso del suo pensiero laddove tale utilizzo non sia suffragato da sufficiente conoscenza e competenza. Sarebbe anzi una posizione, questa, molto poco benjaminiana, considerando come per lui la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte avesse un potenziale rivoluzionario e come fosse una delle prerogative del comunismo – l’ha definita «politicizzazione dell’arte» – affermare una tecnica che fossero le grandi masse a padroneggiare piuttosto che esserne disciplinate e governate. Non da meno vedeva nelle forme d’espressione all’epoca più pop – Charlie Chaplin, Mickey Mouse, il jazz – una portata sovversiva e le anticipazioni di quell’«uomo nuovo» che avrebbe dovuto soppiantare il soggetto borghese.

Detto ciò, resta il fatto che oggi Benjamin è diventato una sorta di icona. Ma icona di cosa, che cosa il suo pensiero e la sua figura sono arrivati a rappresentare? Di certo la sua morte – suicida a Portbou in fuga dai nazisti, appunto ottant’anni fa – ha contribuito a farne un simbolo della resistenza estrema contro il nazifascismo e poi di tutti i profughi perseguitati (così, «profugo», lo definì Bertolt Brecht in una poesia dedicata alla sua morte). Eppure, difficile sarebbe stabilire che cosa la sua vita è chiamata a simboleggiare per quanto – a suo dire – fosse dominata suo malgrado dai dispetti della sorte (che attribuiva a un «omino con la gobba», personaggio delle filastrocche della sua infanzia berlinese) e – soprattutto nel suo esilio parigino – dalla precarietà lavorativa ed esistenziale di freelance, perennemente alla ricerca del miglior compromesso tra le richieste della committenza e ciò che delle sue concezioni non era negoziabile. Fosse stato per lui avrebbe trascorso un’esistenza da studioso minuzioso da spendere per la gran parte nelle biblioteche di quelle metropoli nella cui folla desiderava rendersi invisibile e sparire. E se non bastasse, a proposito delle Affinità elettive di Goethe, ha sostenuto categoricamente che mai la vita dell’autore deve spiegarne l’opera. Insomma, se i posteri hanno elevato la sua morte a simbolo, mai avrebbe concesso che lo diventasse la sua vita. E allora cosa è chiamata a suscitare l’icona «Walter Benjamin»? Se sarebbe da evitare – per rispetto, ripeto, verso una sua inequivocabile presa di posizione teorica – che lo sia la sua vita, una valenza iconica la riveste paradossalmente proprio il suo pensiero: la postura teorica e politica del suo pensiero.

Quello di Benjamin è un pensiero per tempi bui: per quei tempi in cui l’oppressione e l’ingiustizia non solo risultano insopportabili e non sembra lascino alcuna via di scampo o di fuga, ma sono diventati norma sociale. Il suo è il pensiero dell’imprevista chance rivoluzionaria, della possibilità estrema di salvezza, dell’ultima speranza che balena nella più cupa disperazione. Ecco perché, tra l’altro, la sua vita e soprattutto la sua morte non possono rappresentare il senso della sua opera; anzi, il suo pensiero sembra si ponga come redenzione della sua stessa morte. Non a caso la ricerca di Benjamin si focalizza sulle «epoche di decadenza», in quanto è in esse che va a rintracciare e far emergere le potenzialità ancora inespresse, che reclamano l’attualizzazione nel presente. E tale attualizzazione – in cui si compenetrano conoscenza storica e prassi politica – ha una portata rivoluzionaria, in grado di invertire il corso della storia, dettato dal continuum del dominio dei vincitori, il cui corteo trionfale calpesta e destina all’oblio la memoria di generazioni di sconfitti. Ebbene, questo cumulo di ingiustizia e oppressione che costituisce la storia è di per sé già sufficiente perché ogni attimo sia propizio per la rivoluzione, già adesso la potenza del passato può essere messa in atto nel presente. L’attesa dello sviluppo delle condizioni oggettive per la rivoluzione deve precipitare nell’istantaneità della rivolta, che trova il suo innesco in quelle congiunture in cui il progresso – il continuum della storia – incappa in punti ciechi e arresti, regredisce, e pertanto le stigmatizza come epoche di decadenza.

Epoche di decadenza sono state oggetto dei suoi lavori (il Seicento tedesco in Dramma barocco tedesco; la Parigi della «controrivoluzione» nel progetto sui passages e su Charles Baudelaire); ma epoche di decadenza e di crisi sono pure quelle che ha vissuto: la Prima guerra mondiale, la Repubblica di Weimar, l’avvento del nazifascismo. Benjamin scava nelle epoche di decadenza del passato per portarne alla luce i motivi più profondi per salvarli dalla damnatio memoriae che il progresso ha pronunciato, ma questa operazione da cronista o archivista non mira alla mera conservazione, bensì a rendere disponibili per il presente tali frammenti di passato affinché vi rintracci – per usare il termine a lui caro di Baudelaire – corrispondenze o, detto altrimenti, quell’«indice segreto» che, all’interno del continuum della storia, ne individua e collega i momenti di discontinuità. Insomma, lungi da Benjamin quell’atteggiamento borghese, accidioso e lamentoso, che ha definito – con una di quelle sue espressioni diventate ormai notorie – «malinconia di sinistra». Perché quello di Benjamin è sì un pensiero della chance rivoluzionaria in tempi bui, ma è altrettanto un’analisi delle ragioni per cui le rivoluzioni del passato non si sono realizzate o sono state sconfitte. Magari al tempo non erano ancora stati affinati gli strumenti per metterne a fuoco la fotografia (politica, sociale, economica, artistica), ma viene senz’altro quel tempo che ne rappresenta l’«ora della leggibilità», che afferra finalmente la fisionomia di quanto appariva in passato sfocato. Questo è il compito dello storico materialista, che così si pone a servizio della prassi politica.

Non è destinato soltanto al suo presente storico il lavoro di scavo nelle epoche di decadenza, che Benjamin ha condotto per farne emergere le potenzialità rivoluzionarie ancora da attualizzare. Se il suo pensiero ancora oggi ci sollecita e ci scuote dalla nostra malinconia di sinistra, è perché esso affida al punto di vista che si assume ora la capacità di cogliere la leggibilità del passato. Si tratta appunto di una postura ben situata nel presente, in quelle zone lasciate in ombra e ai margini dalla narrazione dominante, in quelle forme di vita che il carro dei vincitori lo vedono sfilare senza potervi prendere posto. E ai margini della strada, con il passare del tempo, ci si ritrova sempre più numerosi. Parlo ad esempio dei bohémiens di oggi, di tutti coloro a cui si concede, «nel migliore dei casi, di prendere parte al godimento, ma mai al potere». Sono parole, queste, con cui Benjamin descrive la condizione della Bohème nella Parigi di Baudelaire. All’epoca si trattava di una forma di vita minoritaria, escrescenza della vita metropolitana, che, in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx disprezzava definendola «schiuma di tutte le classi». E che però per prima ha fatto esperienza della mercificazione della sua forma di vita e della messa a valore capitalista del godimento. Potremmo tuttavia sostenere oggi che una frase come quella di Benjamin si attagli esclusivamente ad artisti, sfaccendati, eccentrici, dandy, outsider, opportunisti? Non si tratta piuttosto di una condizione comune e diffusa, quella di far parte del mercato del godimento? E in cambio del godimento (o della sua promessa), oggi come allora, la rinuncia alla politicizzazione della propria forma di vita. È quanto per Benjamin è accaduto a Baudelaire, il quale nel 1848 era dalla stessa parte delle barricate del proletariato capeggiato da Louis-Auguste Blanqui. Nella successiva fase controrivoluzionaria, però, si è venduto sul mercato, facendosi «impresario di sé stesso» (come non sentire risuonare in quest’espressione di Benjamin l’«imprenditore di sé stesso» con cui Michel Foucault definisce la soggettività neoliberale). Ecco, per Benjamin, uno dei motivi del fallimento della fase rivoluzionaria nella Francia dell’Ottocento è stato l’aver perso Baudelaire e la Bohème alla causa rivoluzionaria e comunista, lasciandoli preda del mercato. Una congiuntura «corrispondente» – l’ora della leggibilità della vicenda di Baudelaire e della Bohème – Benjamin la troverà poi nell’avvento del cinema, che avrebbe dovuto rappresentare quella «politicizzazione dell’arte» che le masse avrebbero dovuto condurre e invece – altra occasione perduta – la tecnica cinematografica è diventata strumento dell’industria capitalista.

Quelle di Benjamin sono diagnosi che hanno sempre valenza di prognosi. Riporto un brano ancora tratto dal lavoro su Baudelaire:

Nel momento in cui l’uomo, come forza lavoro, è merce, non ha certo bisogno di mettersi deliberatamente al posto della merce. Quanto più prende coscienza del fatto che questo suo modo di essere gli è imposto dal sistema produttivo – quanto più si proletarizza –, tanto più lo attraversa l’alito gelido dell’economia mercantile […]. Ma la classe dei piccolo borghesi cui apparteneva Baudelaire non era ancora arrivata a questo punto. Aveva solo iniziato la discesa della scala gerarchica di cui stiamo parlando. Molti suoi membri si sarebbero inevitabilmente accorti, un giorno, della natura di merce della loro forza lavoro.

Non suona forse – a noi oggi – questa prognosi di Benjamin come una diagnosi? Magari si fa ancora in tempo.  

da qui


QUI  si può leggere "Per la critica della violenza", di Walter Benjamin

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