domenica 6 dicembre 2020

Tutto sarà come prima

 Non siamo tutti sulla stessa barca - Alberto Zoratti


La mobilitazione diffusa della Società della Cura del 21 novembre scorso ha segnato un punto di discontinuità sostanziale rispetto al passato, sia sulla capacità di presa di parola che di convergenza dei movimenti sociali nel nostro Paese. Bisogna risalire alla primavera dei movimenti di venti anni fa per ritrovare la stessa necessità e le stesse aspettative, anche se in un quadro sociale, economico ed ecologico nettamente peggiorato e con un bagaglio di consapevolezze in più per alimentare l’onda di una mobilitazione permanente.

Le 45 piazze reali e virtuali hanno rimesso assieme concetti rimasti a volte troppo distanti: solidarietà e conflitto, radicalità e ascolto. Migliaia di donne e di uomini sono riusciti a ritrovare, in quei momenti tenuti assieme da una visione e da un collegamento zoom comuni, il senso di profondo di fare collettivo, di essere comunità politica: aperta, solidale, radicale. Ma ancora da consolidare a cominciare dai territori, dalle loro contraddizioni e potenzialità, nella prospettiva di trovare le diverse trasversalità che attraversano e innervano i vari ambiti dell’azione politica del momento presente.

La Società della Cura riporta al centro la questione dell’incompatibilità tra neoliberismo e persone, tra capitale e pianeta, stretti come siamo nella morsa tra un precariato crescente, diritti sociali sempre più limitati e un clima sempre più impazzito.

La convergenza diventa non solo un processo, ma anche uno spazio in cui ridare senso alle parole della politica, in cui riprendere in mano, collegandoli, i vari conflitti e le varie vertenze che hanno costellato gli anni passati del periodo precovid, intrisi di rilancio del Pil, lotta al debito e tagli alle spese sociali. Politiche irresponsabili che se da una parte hanno determinato il disastro a cui stiamo assistendo a causa della pandemia (dagli ospedali sotto pressione alle scuole in balia dei vari dpcm), dall’altra hanno aumentato la schiera degli invisibili, persone con vite e lavori precari, poco utili per la narrazione di un’Italia in ripresa, ma sostanziali per fare cassa sfruttandone capacità e ore di fatica.

Il mondo del lavoro è stato tra i grandi agnelli sacrificali delle politiche precedenti e dell’impatto del covid sulla nostra società. È l’Eurostat a certificare le conseguenze pesanti che la crisi economica riverserà sulle categorie meno protette, soprattutto in Italia (tra i primi posti dei Paesi a rischio in Europa): le lavoratrici e i lavoratori a tempo determinato, i precari, le donne e i giovani fino a ventiquattro anni.

Nonostante il blocco dei licenziamenti, che sta evitando impatti ancora più pesanti sul mondo del lavoro, sarà tutto il comparto dell’irregolare o del formalizzato a tempo a sopportare il carico della crisi attuale.

Ed è all’interno di questo quadro che il conflitto tra capitale e lavoro si riacutizza, perché ogni diritto perso nella categorie più deboli è una breccia aperta per disarticolare le condizioni di lavoro delle figure più strutturate.

In questa direzione va anche il tentativo di Confindustria di premere verso una sempre maggiore contrattazione aziendale, indebolendo la contrattazione collettiva e nazionale.

Nonostante la pandemia, e la retorica dell’andrà tutto bene, le imprese e la loro organizzazione di categoria hanno creato le condizioni perché il peso del rallentamento economico sia distribuito in forma ineguale.

Esempio solare è il ritardo cronico per il rinnovo dei contratti di lavoro: secondo i dati CNEL dell’agosto 2020,  il 61,6% dei contratti collettivi nazionali di lavoro risultava scaduto al 30 giugno.

Gli accordi in attesa di rinnovo erano 576 su 935. In pieno Covid, appena usciti dal lockdown e dai cori applauditi dai balconi, dietro la retorica dell’Italia unita contro la pandemia, gli interessi delle imprese rimanevano prioritari rispetto al diritto di vedersi riconosciuta una paga adeguata.

La stagione dei rinnovi contrattuali si riaprirà solamente con l’autunno, e alla vigilia della seconda ondata pandemica. Unendo disagio a disagio.

In tutto questo scenario rimane al centro il tema del lavoro giusto e dignitoso, della sua conciliazione con i tempi di vita, del riconoscimento dello spazio riproduttivo, che porta con sé anche la questione delle relazioni sociali di genere dove si rendono ancora più evidenti e cristallizzati i rapporti verticali, gerarchizzati e fortemente diseguali che esistono nei luoghi del lavoro, soprattutto se precario, irregolare o intermittente.

Disarticolare con il conflitto sociale quella cristallizzazione e quella diseguaglianza è alla base della costruzione di una società della cura, capace di rivedere l’ordine di priorità tra diritti e profitti.

 

Come è stato dimostrato dalle lotte dei rider per il riconoscimento delle loro tutele e dei tentativi di riportarli a miti consigli da accordi farsa come quello tra Assodelivery e il sindacato di destra Ugl, immediatamente sconfessato dalle lavoratrici e dai lavoratori e da alcune aziende del settore.

O i recenti scioperi del comparto della logistica, da anni in lotta contro i livelli di sfruttamento e  per aumentare le condizioni di sicurezza, soprattutto in periodo pandemico. Due esempi che, assieme alla recente vertenza Whirlpool, mostrano come la lotta per i diritti del lavoro sia uno degli elementi fondanti per la nascita di una società della cura.

La convergenza dei movimenti, che si è esplicitata con le mobilitazioni del 21 novembre come prima tappa di un percorso permanente, può svolgere un ruolo sostanziale di ricucitura delle lotte, delle vertenze, contribuendo a inserirle in un quadro più ampio che parla di una società dei diritti per tutte e per tutti.

E ritrovando i punti di contatto e trasversalità tra le agende dei diversi soggetti e movimenti che stanno alimentando questo processo: solidarietà, equità, ma soprattutto conflitto.

Perché il cambiamento sociale passa per la rottura degli equilibri esistenti, al di fuori della retorica perbenista del “siamo tutti sulla stessa barca”.

da qui



Reinventing capitalism Paolo Cacciari

 

Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo come carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo

(Friedrich EngelsDialettica della natura, Editori Riuniti, Roma, 1967)

 

Una nuova mutazione salverà il capitalismo, il benessere e il progresso come è accaduto nella storia di precedenti “grandi trasformazioni” delle società di mercato? Già Marx annotava che “il capitalismo è una storia incessante di modificazioni”. La sfida permanente che si trova a dover affrontare il sistema sociale che chiamiamo capitalista è riuscire a cambiare pelle ciclicamente per consentire ai suoi meccanismi interni di creare e riprodurre sempre nuovo valore monetizzabile. Cioè, continuare a crescere senza collassare. Per riuscirci ora – raggiunto il limite della crisi ecologica planetaria – deve risolvere una difficile equazione che gli economisti chiamano decoupling: lo sganciamento della curva della crescita del Pil da quella del “consumo di natura”, dell’aumento, cioè, dei prelievi delle materie prime e delle immissioni nella biosfera di scarti non metabolizzabili.

Il climate change, il surriscaldamento del globo, il buco dell’ozono, la acidificazione e la plastificazione degli oceani, la perdita della biodiversità, la desertificazione dei suoli e molto altro ancora fino alle pandemie da zoonosi (malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo, con “salto di specie”), sono il portato di una contraddizione originaria del sistema sociale capitalistico che ha la necessità di incrementare perennemente produzioni e consumi, pena l’implosione su sé stesso, la stagnazione e la depressione economica. Per contro e allo stesso tempo il sistema economico capitalista non può superare la soglia della disfunzionalità e della diseconomicità. Ovvero non deve “segare il ramo” che sorregge l’intero impalcato sociale, non può distruggere le risorse primarie a cui attinge, gli ecosystem service che la natura mette gentilmente a nostra disposizione: aria respirabile, acqua potabile, suolo fertile, foreste e oceani capaci di garantire il ciclo del carbonio-ossigeno e la fotosintesi clorofilliana, insetti impollinatori, processi microbiologici di movimentazione della materia (decomposizione e mineralizzazione), habitat incontaminati e quant’altro permette la rigenerazione della vita sulla Terra. Per riuscire a fronteggiare la crisi ecologica e la “stagnazione epocale” dovuta a rendimenti decrescenti dei capitali investiti le oligarchie tecnocratiche più innovative e reattive hanno elaborato un nuovo paradigma di sviluppo fondato su innovazione tecnologica e geoingegneria. Per dirla con le parole del Recovery and Resilience Facility (Rrf): “digitalizzazione e transizione ecologica”. Il Rrf è il cuore pulsante dei 750 miliardi di euro messi a disposizione dalla strategia Next Generation dell’Unione europea, che a sua volta è il piano attuativo del programma politico del European Green Deal.

Governi, banche e grandi compagnie vogliano fare sul serio. L’aleatorio sintagma “sviluppo sostenibile” (inventato quasi mezzo secolo fa a Stoccolma nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, 1972) verrà finalmente “messo a terra”, rendendo disponibili tutte le risorse scientifiche, tecniche, economiche e normative di cui il Green Deal avrà bisogno. Se ci si debba sentire più contenti o più minacciati da tanta euforia, dipenderà dal contenuto degli interventi che verranno realizzati. Portato via a forza dal proscenio l’ultimo negazionista dei cambiamenti climatici, il sociopatico Tramp, non c’è più nessuno che non si dica ecologista. Una insistente e ben alimentata narrazione mainstream sta inondando la comunicazione pubblica. Le foto a fianco di Greta Tumberg testimoniano una rinnovata “sensibilità etica” dei governanti, a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Senza ritegno persino una multinazionale come l’Eni, dopo aver devastato campi petroliferi in mezzo mondo, ci spiega a-tutta-pagina dei quotidiani a pagamento che: “Le foreste rivendicano la terra”. Banche e fondi pensionistici “decarbonizzano” i propri portafogli. I gestori dei fondi di investimento (a partire dal colosso BlackRock) sono alla ricerca di imprese patentate ESG (con rating positivi di impatto su Environment, Social, Governace) verso cui far convergere flussi di denaro rastrellati nei mercati finanziari attraverso l’emissione di green e transition bond (privati e sovrani), sustainability linked loan, mutui per l’efficienza energetica; impact investingbenchmark climatici e ancora altre tipologie di prodotti finanziari. Siamo entrati nell’era del “capitalismo ecologico”. L’ambientalismo è entrato nei consigli di amministrazione delle multinazionali. La riconversione energetica, assicurano, è un buon affare. Gli alti rendimenti sembrano dare ragione agli investitori più green e “pazienti” (disposti ad accettare rendimenti a medio-lungo periodo). Turn the switch, girare l’interruttore dai fossili alle rinnovabili, in definitiva, dipende solo dal confronto dei Roi: dal ritorno sul capitale investito. E più grandi saranno i volumi finanziari che affluiranno nella green economy, più alte saranno le aspettative di guadagno degli investitori. Ma per riuscirci serve una forte spinta iniziale (“infrastrutture nel segno della sostenibilità”, dicono) e una garanzia pubblica sui rischi. Il mercato – lo riconoscono finalmente – non riesce a fare tutto da solo. Ecco allora i maxi piani Green Deal di partenariato tra imprese, investitori e decisori politici a supporto della grande transizione ecologica dell’economia. A scriverlo in Italia sarà una tark force di sei manager “indipendenti” (da chi? dalle istituzioni pubbliche?). Non è bastata evidentemente la pessima performance della commissione creata per la Fase due post-covid del supermaneger Vodafone Vittorio Colao.


Reiventare il capitalismo

Il World Business Council for Sustainable Development, un’organizzazione di manager e chief executive officer (amministratori delegati) di più di duecento aziende che sommano un fatturato di oltre otto trilioni di dollari e diciannove milioni di dipendenti, ha recentemente pubblicato una agenda di azioni per “Reinventare il capitalismo” (Reinventing Capitalism: a transformation agenda Vision 2050 issue brief, November 2020). “Persino i capitalisti – ci assicurano – stanno iniziando a sostenere che il capitalismo, nella sua forma attuale sta generando risultati insostenibili – socialmente, ambientalmente ed economicamente”. E ancora: “Il sistema attuale sta generando livelli insostenibilmente elevati di disuguaglianza e viola i planetary boundaries. Sia la scienza che la storia suggeriscono che se il nostro percorso attuale proseguirà ci porterà alla catastrofe: tensione ecologica e stratificazione economica hanno dimostrato di svolgere un ruolo centrale in ogni crollo delle civiltà passate”. Ma tutto ciò, sia ben chiaro: “non significa che noi dovremo abbandonare il capitalismo – piuttosto l’opposto“. Infatti: “Il capitalismo è sia la più grande fonte di prosperità e progresso nella storia umana, sia la più grande minaccia per esso. Superare questo ‘paradosso’ è il cuore della idea della ‘reinvenzione’”. Niente di meno che una nuova “versione del capitalismo” capace di “affrontare i fallimenti a livello di mercato e istituzionale” e “cambiare le regole del gioco”. Il Wbcsd afferma quindi che “il capitalismo di cui abbiamo bisogno è un capitalismo che premia la creazione di valore reale, non l’estrazione del valore come fa il modello di oggi”. Un progetto che richiede “un’azione complementare da parte delle imprese, degli investitori e dei responsabili politici. Un’azione volontaria da parte del settore privato che deve andare di pari passo con modifiche alla legislazione e alla regolamentazione”. Insomma un vero nuovo patto sociale nel segno del green.

Considerando che gli estensori del documento, per lo più, continuano ad essere pagati in azioni delle società per cui lavorano, c’è da chiedersi dove sta il trucco. Il dubbio è che la loro intenzione non sia tanto salvare la vita sul pianeta, quanto garantire la capacità del sistema economico di continuare a generare, accumulare e riprodurre valore monetario. Temono infatti che le crisi ecologiche – come le nuove “sindemie”, combinazioni sequenziali di pandemie e malattie degenerative endemiche, come quelle causate da stili di vita, alimentazioni e condizioni ambientali insalubri – possano rendere vulnerabili anche le aziende più forti sul mercato. Comunque, si tratta di contrastare la tendenza secondo cui: “la popolarità del capitalismo è iniziata svanire”, specie tra le giovani generazioni. La speranza di una ripresa dei cicli economici espansivi viene dai “mercati dei capitali (che) apprezzano e premiano adeguatamente pratiche commerciali inclusive e sostenibili e, di conseguenza, viene mobilitato più capitale per conseguire gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile e la transizione verso un mondo di 1,5 °C.”, secondo quanto richiesto dall’Accordo di Parigi sul clima. Come dicono Ferruccio de Bortoli ed Enrico Giovannini su Economia & Politica del Corriere della sera: “Il mondo produttivo è alle soglie di un paradigma storico e chi tardi arriverà peggio alloggerà, come dice il proverbio. Lo spartiacque tra vincitori e perdenti, sul versante del benessere, del reddito e del lavoro, dei prossimi anni passa per la riconversione ecologica, opportunità straordinaria di business per le imprese innovative.” (Il futuro è green, Corriere della sera, lunedì 30 novembre 2020). È così che il principio ecologico della comune appartenenza di ogni essere vivente al mondo e della interdipendenza di ogni cosa, che richiederebbe cooperazione e solidarietà, viene rovesciato nell’esatto suo opposto: competizione, rivalità, appropriazione esclusiva dei beni (materie prime) e dei saperi (brevetti), gerarchie sociali e di potere. L’impresa capitalista riprendendo nelle sue mani (aiutata dalla “finanza sostenibile”) ciò che ha distrutto – l’ambiente naturale – si risolleverebbe dal discredito e riconquisterebbe reputazione, fiducia e autorità. Questo – in sintesi – è il progetto del “capitalismo ecologico”.

Hanno scritto un gruppo di associazioni che hanno partecipato alla tre giorni di novembre ad Assisi dell’Economy of Francesco: “A nome di una visione discutibile dell’economia abbiamo santificato il principio della concorrenza, mettendo in competizione individui, imprese e Paesi in tutti i campi proprio mentre le trasformazioni profonde che subiva il mondo richiedevano di andare nella direzione opposta. L’economia dominante è costruita su un modello bellico a tutti i livelli. Per questo va cambiata!” (Ma io cosa posso fare? Documento redatto da Jean Fabre, membro della Task Force dell’Onu per l’Economia Sociale e Solidale).

Verde pallido

Ma quanto è davvero verde il sistema economico immaginato e promosso dal Green Deal? Una indicazione ci viene dalle conclusioni che si stanno prospettando del lungo lavoro in sede Ue sulla individuazione e classificazione delle attività economiche eco-compatibili, chiamata in gergo dai tecnocrati di Bruxelles “tassonomia verde” (Regolamento UE 2020/852 del giugno scorso). I “criteri tecnici” che la Commissione europea sta elaborando in attuazione del Regolamento e che entreranno in vigore dal 2021, saranno molto elastici.. L’economia si tingerà di un verde assai pallido. Ad esempio, basterà mischiare il metano con l’idrogeno per produrre energia pulita. Poco male anche se l’elettrolisi dell’acqua per produrre l’idrogeno avverrà utilizzando l’energia nucleare (leggi il sito ben informato: www.rinnovabili.it/green-economy/finanza-sostenibile/tassonomia-verde-ue-idrogeno-viola). Qualsiasi combustibile fossile, qualora le emissioni dovessero essere “catturate”, compresse e pompate nel sottosuolo nei giacimenti esauriti di gas naturale, potrà essere considerato positivamente come “energia di transizione” ai fini del raggiungimento della “neutralità” del carbonio entro il 2050. Detto-fatto, l’Eni ha già annunciato un mega progetto di utilizzazione dei giacimenti offshore nel ravennate (vedi Il Fatto, Gasdotti e soldi, 12 ottobre 2020) e c’è da essere certi che chiederà il finanziamento nel piano nazionale del cosiddetto Recovery Fund.

La “tassonomia” europea è molto importante perché orienterà non solo gli investimenti pubblici dei piani nazionali del Recovery and Resilience Facility, ma anche quelli privati.

Nei giorni scorsi si è svolta una interessate settimana di incontri del Forum per la finanza sostenibile (www.settimanasri.it). È emerso che gli investitori istituzionali (a partire dai fondi di pensione), le fondazioni bancarie (Acri) e, in generale, i gestori di fondi del risparmio sono alla ricerca di attività imprenditoriali che possano rientrare nei parametri premianti della sostenibilità ambientale, sociale, gestionale, ovvero nell’“etica Esg” (Environmental, Social, Governace), come la chiama Ugo Biggeri di Banca Etica. I problemi sorgono per il fatto che non esistono metodologie standardizzate universalmente riconosciute e a prova di greenwashing per compilare le “dichiarazioni non finanziarie” e le rendicontazioni sugli impatti ambientali e sociali delle imprese. Per oro esiste la Direttiva della Ue del 1995 che si applica obbligatoriamente solo ad enti di rilevante interesse pubblico e con almeno cinquecento dipendenti. I modelli che sono stati elaborati da esperti di vari istituti specializzati sono inevitabilmente molto complessi e sono complicatissimi da compilare poiché i parametri di cui tener conto e le interrelazioni causali di ogni attività economica possono essere moltissimi. Basti pensare alle problematicità che incorre la applicazione della procedura di Valutazione di impatto ambientale, pur essendo normata da leggi. Ogni tentativo di codificare, modellizzare e calcolare la responsabilità sociale delle imprese estesa a campi – appunto – etici si scontra con il Codice civile che limita il loro scopo ai risultati economici e, soprattutto, con la logica intrinseca e stringente del mercato, specie quello finanziario. Wolfgang Streek ci ricorda che l’essenza del “capitalismo sta nell’investire capitale per creare più capitale per più investimenti”.

In conclusione è molto difficile riuscire a immaginare una impresa che riesca ad agire, per quanto mossa da buone intenzioni, in modo responsabile, sostenibile, eticamente orientata al bene comune (quantomeno al bene di tutti i suoi stakeholders) rimanendo ancorata all’interno di un contesto sociale e normativo performato dalla competizione, dalla proprietà esclusiva, dal ricorso all’indebitamento con pagamento degli interessi.

Edgar Morin (L’anno dell’era ecologica, 2007) ha scritto:

“Potrà svilupparsi un capitalismo ecologico che fabbrichi e venda in non-inquinante, il sano, il rigenerante (…) tuttavia il problema ecologico ci obbliga a prendere in considerazione la struttura della vita e della società umana (…) Abbiamo bisogno di una bio-antropologia, di un’ecologia generalizzata”.

Bergoglio nella Laudato si’ l’ha chiamata “ecologia integrale”.

da qui



Gli avvoltoi del Recovery Fund - Marco Bersani

Se la pandemia ha insegnato qualcosa, la sospensione dei vincoli finanziari imposti da Maastricht in avanti e i conseguenti fondi messi a disposizione dal Recovery Fund dovrebbero servire ad un radicale cambio di rotta, provando a costruire, con tutti gli attori sociali, un grande piano di conversione ecologica, sociale e culturale, che metta al centro l’abbandono del modello liberista e la costruzione di una società della cura, di sé, dell’altr*, del pianeta e delle future generazioni.

D’altronde, a meno che non sia brandito come un’ulteriore minaccia a diritti e reddito, lo slogan “Niente sarà più come prima” pareva suggerire un cambio di paradigma, basato sulla consapevolezza che la pandemia non è un fenomeno esogeno, arrivato come un nemico invisibile da un altro pianeta, bensì  il portato delle profonde contraddizioni sistemiche di questo modello insostenibile.

Sempre ricordando che, poiché Babbo Natale non esiste, il pasto non è gratis e senza cancellazione del debito e trasformazione della Bce in una banca centrale pubblica, ci stiamo preparando a spendere oggi per essere di nuovo chiusi in gabbia a doppio mandato domani, la predisposizione del piano per accedere alle risorse del Recovery Fund dovrebbe essere l’occasione per una riflessione collettiva che attraversi l’intero Paese e ne sciolga i nodi principali.

Servono soldi per la sanità, ma quanti e per quale concetto di salute e di sistema sanitario?

Servono risorse per la scuola, ma quanti e per quale idea di istruzione, formazione e ricerca?

Servono soldi per le infrastrutture, ma per fare le grandi opere climalteranti e che devastano i territori o per il riassetto idrogeologico e la ristrutturazione delle reti idriche del Paese?

Serve spesa pubblica, ma per le armi o per i diritti delle persone?

Che ciascuna di queste domande – e le molte altre che si potrebbero analogamente fare- rappresenti un bivio sul modello futuro di società, è un tema che non sembra sfiorare il governo e il Presidente del Consiglio.

D’altronde, se, come ci raccontano, la pandemia è un nemico esterno venuto a turbare il libero fluire di una società pacificata, non servono grandi discussioni: basta mettere in campo i campioni nazionali dell’economia e chiedere loro di presentare i progetti e gestire le conseguenti risorse.

Sembra incredibile, ma proprio di ciò si tratta: pur non ancora ufficializzato, il super-team che affiancherà il governo nella predisposizione del Recovery Plan, pare sarà costituito da sei amministratori delegati di società controllate dallo Stato: Claudio De Scalzi (ENI), Francesco Starace (ENEL), Marco Alverà (SNAM), Gianfranco Battisti (Ferrovie dello Stato), Alessandro Profumo (Leonardo-Finmeccanica) e Fabrizio Palermo (Cassa Depositi e Prestiti).

Tralasciando i non specchiatissimi curriculum giudiziari di alcuni di loro. non ci si può esimere dal notare almeno tre contraddizioni insuperabili:

1.      a) sono tutti uomini, sono tutti potenti, sono tutti intrinsecamente legati all’idea che l’aggettivo “grande” è la misura che qualifica i progetti;

2.      b) sono tutti a capo di aziende la cui cultura estrattivista nei confronti della natura e della società sprizza da tutti i pori;

3.      c) sono tutti manager di aziende, che, per quanto controllate dallo Stato, sono miste pubblico-privato e collocate in Borsa; pertanto devono rispondere all’imperativo degli utili per i propri azionisti e non all’interesse generale della società.

Uomini, estrattivisti, guidati dal profitto: da qualsiasi punto di osservazione si guardi il mondo, scelta peggiore non potrebbe essere fatta.

A chi persevera nell’illusione che la pandemia sia solo una parentesi, occorre che le lotte consegnino un bagno di realtà: il futuro è troppo importante per lasciarlo agli indici di Borsa.

da qui


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