venerdì 4 dicembre 2020

Restaurazione o ravvedimento? - Paolo Cacciari

  

1. La strategia Next Generation Eu varata un anno fa dalla nuova Commissione europea e il suo principale strumento operativo, il Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi di euro, tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti a tassi contenuti e rimborsabili a lunga scadenza, entro il 2058, hanno aperto speranze e aspettative, pur permanendo ancora molte incertezze sulle modalità concrete di erogazione.

Il combinato disposto tra le necessità di fronteggiare la crisi sanitaria (attraverso il Programma anti-pandemico della Banca centrale europea Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) e il riscaldamento climatico (con il piano di investimenti dell’European Green Deal) ha scardinato l’impianto teorico del neoliberismo e il suo dogma monetarista. Si chiude un lungo ciclo quarantennale di politica economica codificato in Europa dal Trattato sull’Unione di Maastricht del 1992. Il Patto di stabilità è stato “sospeso”, l’austerity sembra un brutto ricordo e la Banca centrale europea è stata autorizzata a creare moneta attraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico degli stati e l’erogazione di “stimoli monetari” “non convenzionali”, inaugurati già da Mario Draghi con il Quantitative Easing. Così gli stati potranno tornare al “deficit spending” secondo un rinverdito keynesismo. Già si parla di rendere permanente la “monetizzazione” del debito pubblico, sterilizzando il pagamento degli interessi e dilazionando sine die i piani di rimborso. Staremo a vedere quali altre alchimie (giri contabili tra i bilanci del sistema delle banche centrali e quelli degli stati nazionali) usciranno dagli alambicchi dei segreti gabinetti dell’alta finanza per creare capitale ex nhilo e consentire agli stati di indebitarsi “a costo zero”, evitando, miracolosamente, a un tempo, depressione e inflazione e, ovviamente, continuando a garantire buoni rendimenti agli investitori privati, poiché temo che i possessori dei titoli di credito – per quanto “pazienti” possano essere diventati – difficilmente rinunceranno ai loro bravi ROI (Return on investment). La moltiplicazione dei pani e dei pesci è uno scherzo da bambini in confronto a ciò che produce la “fabbrica della finanza” che è già riuscita a mettere in circolazione 2,2 milioni di miliardi di prodotti finanziari derivati, cioè privi di “sottostanti” reali, pari a 33 volte il Pil mondiale. Mah! Perdonate lo scetticismo, ma temo che vi sia una base di verità anche nel pensiero liberista quando afferma grevemente che “non c’è pasto gratis” e che ogni decisione di spesa comporta un costo che qualcuno, in qualche parte del mondo, in qualche momento dovrà pagare.

Rinunciamo, quindi, per ora, a capire le misteriose incoerenze della macroeconomia post-fordista e post-moderna e accontentiamoci di prendere ciò che di buono ha provocato la crisi sanitaria, economica e climatica. Dopo decenni di demonizzazione il debito pubblico non è più un tabù, il denaro non è più un problema e gli stati possono tornare a spendere qualche soldo a favore delle cittadine e dei cittadini.

Sovvenzioni e prestiti

2. Si prevede che in Italia con il Recovery Fund possano arrivare 208 miliardi (81 di sovvenzioni e 127 da prestiti), tre volte tanto quanto usualmente ne mette a disposizione l’UE. In più vi sono 45 mld residui da fondi strutturali non spesi (l’Italia infatti è riuscita ad utilizzarne solo 28 dei 72 mld messi a disposizione dalla Ue nella programmazione 2014-2020) e alti che potrebbero venire dai programmi Life, Green Deal Cal, ReacEU (politiche regionali di coesione), Azioni urbane innovative, Bando Shift2rail (vedi il bene informato sito: www.economiacircolare.com). Tutti i programmi della Ue sono ispirati al Green Deal e dovranno sostenere interventi mirati alla mitigazione e all’adattamento climatico (al fine di raggiungere la neutralità delle emissioni di gas climalteranti entro il 2050), all’innovazione digitale, alla inclusione sociale e alla “giusta transizione”. Progetti e investimenti saranno quindi valutati e vagliati dalle Direzioni generali della Ue secondo i parametri della sostenibilità ambientale e della coesione sociale. La road map è già da tempo stata tracciata dall’Accodo di Parigi – che Joe Biden sicuramente rilancerà –, dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile dell’Onu del 2015 e dal Green Deal di Ursula von der Leyen che in occasione del suo primo discorso sullo stato dell’Unione ha affermato: “La missione del Green Deal comporta molto di più che un taglio di emissioni, si tratta di creare un mondo più forte in cui vivere. Dobbiamo cambiare il modo in cui trattiamo la natura” (dai giornali del 15 settembre 2020) .

Siamo quindi finalmente giunti alla vigilia del Great Reset del sistema capitalistico mondiale, come annunciato dal fondatore e presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab? La tragedia della pandemia e il rischio catastrofico del riscaldamento globale sono shock capaci di innescare una vera inversione di rotta da una economia di crescita predatoria, estrattivista ed odiosamente discriminante a un nuovo modello di “sviluppo sostenibile”? Vi sarà una trasformazione sostanziale delle strutture di potere dominanti in direzione di un riequilibrio delle forze tra Nord e Sud del mondo, tra capitale e lavoro, tra i generi, tra le generazioni e tra il genere umano e Gaia? Vedremo, insomma, un grande riaggiustamento dei meccanismi di sviluppo all’altezza dell’urgenza e della gravità delle crisi sistemiche che attraversa il percorso di civilizzazione del mondo che abbiamo fin qui conosciuto?

Il quadro complessivo

3. Sappiamo che il market system è capace di fare cose che noi umani nemmeno sappiamo immaginarci, parafrasando l’androide Roy in Blade Runner di Ridley Scott. Abbiamo visto, e probabilmente vedremo anche in futuro, molte “varieties of capitlism”. È bene quindi prendere sul serio la sfida del Green Deal e analizzare concretamente, senza prevenzioni mentali, le misure e i piani che verranno finanziati e avviati. Diverse, infatti, potrebbero essere gli indirizzi che i decision-makers vorranno dare ai piani nazionali di Recovery. Potranno concepirli come uno strumento finanziario di mera ripartenza e restaurazione dei meccanismi di crescita precedenti la crisi pandemica, oppure come percorso di ravvedimento, presa in cura, guarigione e reintegro di una condizione di vita salubre e socialmente equa.

Vi è il rischio che gli attori economici e i decisori pubblici siano attratti solo dai denari freschi da utilizzare a favore di questo o quell’altro comparto economico, per affrontare questa o quella emergenza sanitaria, occupazionale, ambientale e venga perso di vista invece il quadro complessivo, sistemico che regola i modi di produzione, la creazione e la distribuzione della ricchezza sociale e l’utilizzazione delle risorse umane e naturali disponibili. Hanno ammonito Fabrizio Barca e Sabina De Luca, del Forum Disuguaglianze e Diversità, a proposito della massa di richieste che il Governo sta rastrellando dai ministeri e dalle Regioni: “una macedonia di progetti priva di strategia e obiettivi chiari e condivisi” (Per usare i fondi europei, Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020).

Dalla Rete 5G alla Tav

4. Il confronto aperto sul Recovery Fund verte, prima di tutto, sui criteri di valutazione e selezione dei progetti e delle misure normative che dovranno essere adottati dal governo. Senato e Camera (il 13 ottobre) hanno approvato una risoluzione alquanto generica sulle linee di utilizzo dei fondi, sulla scia di quanto già stabilito a luglio dal Consiglio Europeo e ora in fase di definizione con Parlamento e Commissione. La prima “condizione” è data dall’impiego dei finanziamenti finalizzati (per una soglia che sarà probabilmente fissata a non meno del 40%) al miglioramento dello scenario climatico descritto dall’Accordo di Parigi (contenimento dell’aumento della temperatura entro i 2°, meglio ad 1,5°, con il raggiungimento della “neutralità climatica” entro il 2050). Poi viene la “transizione digitale e l’aumento della produttività”, per una quota del 20% degli investimenti. Infine bisognerà promuovere l’“equità” e la coesione migliorando le “infrastrutture sociali”, l’istruzione, la sanità, uguaglianza di genere. Il tutto avendo cura di spendere rapidamente i denari e “promuovere investimenti privati”. Dal canto suo il governo italiano si è dato delle Linee Guida integrate con la legge di bilancio pluriennale traguardata al 2026. Gli obiettivi primari sono: raddoppiare il tasso di crescita dell’economia del 1,6%, aumentare l’occupazione di dieci punti, “supportare la transizione verde e digitale”, migliorare la “resilienza. Nello sterminato elenco di progetti e progettini raccolto dal Comitato interministeriale costituito presso la Presidenza del Consiglio di ministri ce n’è per tutti i gusti! Una lenzuolata di interventi che iniziano dalla realizzazione della Rete 5G, passa per la robotica, arriva al completamento della Alta velocità e di 39 opere stradali, non si dimentica del “Marchio Italia sostenibile”, né dell’“Italia in bici”, per finire nel sostegno alla natalità, nel rafforzamento della fiducia nelle istituzioni e nel restituire competitività alle imprese attraverso una ”quarta rivoluzione industriale” basata su tecnologie innovative e sostenibili. Il governo ha anche attrezzato allo scopo di selezionare i progetti un nucleo di valutazione presso il Comitato interministeriale per la programmazione economica che dallo scorso anno ha cambiato denominazione acquisendo la esse di Sostenibile: CIPES.

La loro resilienza                             

5. In vista della predisposizione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza – ultima data per concordare gli investimenti con la Ue: 20 aprile 2021 – in queste settimane abbiamo assistito a un gran fermento di incontri, presentazioni di ricerche, discussioni promosse da vari centri di competenza e think tank. Mi riferisco principalmente ai seguenti documenti: il Rapporto 2020 dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (che raggruppa 260 tra grandi imprese e associazioni, guidata da Enrico Giovannini e presieduta da Pierluigi Stefanini) sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030 che contiene molti suggerimenti forniti per ognuno dei 17 Obbiettivi; il Rapporto Italy for Climate con l’allegato “Appello” firmato da cento imprese presentato dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile che associa i gruppi industriali più impegnati nella sostenibilità (da Novamont ad Elettricità futura di Confindustria con Enel ed Eni) ed è presieduta da Edo Ronchi; le “Otto proposte al governo per finanziare decarbonizzazione e inclusione sociale” del Forum per la Finanza sostenibile che raccoglie 110 soggetti tra istituti di credito, fondazioni bancarie e operatori (tra gli altri, ne fanno parte Banca Etica e Intesa San Paolo, il Forum del Terzo settore e molte società di assicurazione, BlackRock e Cassa Depositi e Prestiti) diretto da Francesco Biggiato; alle “Raccomandazioni” del Forum Disuguaglianze e Diversità, guidato da Fabrizio Barca. Poi vi sono molte altre proposte elaborate da singole associazioni, reti e comitati. Tra queste ricordo il documento di Fridey for Future e quelle della Task Force coordinata da Luciana Castellina pubblicate da “il manifesto”.

L’ASviS, sulla scorta del non confortante Rapporto annuale sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030 (per la verità, va male non solo in Italia), si auspica una “resilienza trasformativa” – nuovo sintagma magico che dovrebbe riempire di significato l’ormai logoro “sviluppo sostenibile” – affinché la “ripartenza sia diversa dal passato”. ASviS pensa ad un ruolo centrale della Cassa depositi e Prestiti per realizzare un piano di “infrastrutture strategiche” da 200 mld in dieci anni (telecomunicazioni, transizione energetica, tutela del territorio), a una Agenda urbana e per le aree interne, a un “reddito di emergenza” che sostituisca gli attuali ammortizzatori, al superamento delle disuguaglianze di genere, all’economia circolare e ai “bilanci di sostenibilità” delle imprese, alla fine dei “sussidi dannosi per l’ambiente” (19,7 mld) ed anche alla creazione di un ente pubblico di ricerca per gli studi sul futuro.

La Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha inviato al Governo un Appello in cui si ricorda che “il riscaldamento climatico costituisce una minaccia peggiore della pandemia” (parole di Edo Ronchi) e che si dovrebbe riservare almeno la metà del Recovery Fund alle misure di mitigazione e adattamento con l’esclusione tassativa di qualsiasi agevolazione all’energia da fonti fossili. Va quindi modificato il quadro legislativo e fiscale favorendo le “comunità energetiche locali” e la riqualificazione degli edifici (privati e pubblici). Ricordato che l’Italia non ha ancora adeguato il proprio piano energetico, si tratterebbe di diminuire le emissioni di gas climalteranti del 43% nei prossimi dieci anni.

Il Forum Diseguaglianze e Diversità chiede un approccio unitario strategico del Piano nazionale, “superando la tradizionale segmentazione settoriale”, affidando un ruolo primario alle imprese pubbliche, alle Città metropolitane e ai comuni e coinvolgendo gli attori sociali, garantendo così la “democraticità del processo decisionale”. Gli obiettivi dovrebbero essere quelli di assicurare a tutti “una cura socio-sanitaria di prossimità”, “abbattere la povertà educativa”, prevenire le catastrofi naturali, superare il degrado abitativo, “orientare la trasformazione digitale alla giustizia sociale”, fornire una mobilità sostenibile, adattare l’accessibilità degli spazi collettivi. Altro ancora, nella linea del raggiungimento di un maggiore benessere collettivo.

Il Forum per la Finanza Sostenibile è impegnato nel favorire “investimenti sostenibili e responsabili nell’economia reale, secondo un’ottica di lungo periodo e con fiscalità agevolata”. Il Forum ha inviato una lettera al governo Conte, in cui si chiede di: modificare i vincoli di bilancio e i limiti di indebitamento, accelerare e accompagnare il passaggio degli investimenti dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili, incoraggiare l’erogazione di linee di credito vincolate agli obiettivi dello sviluppo sostenibile, emettere green e social bond sovrani e regionali per finanziare progetti verdi, il sistema sanitario e scolastico, i servizi territoriali, l’occupazione giovanile e femminile. Dirimenti saranno le modalità operative che il Forum indica per raggiungere gli obiettivi: l’impact investing (“finanza d’impatto”) e la “tassonomia” europea. Vale a dire: creare strumenti “oggettivi” che consentano di valutare preventivamente e misurare ex post (rendicontare non finanziaria) i risultati ambientalmente e socialmente attesi dagli investimenti. Per “tassonomia” si intende il Regolamento che la Commissione europea ha varato nel giugno scorso, dopo una lunghissima gestazione.

Cos’è la tassonomia

6. Il tentativo di regolamentare il flusso dei finanziamenti messi a disposizione dalle autorità pubbliche secondo parametri predefiniti, non eccessivamente discrezionali, ancorché indispensabile, non è impresa facile. Da un lato la UE deve garantirsi che i prestiti e le sovvenzioni concesse agli stati non finiscano in mille rivoli di aiuti incoerenti (il rischio della “macedonia” paventato da Fabrizio Barca), dall’altro lato anche il sistema della finanza privata ha bisogno di sapere verso quali settori economici concentrare i propri sforzi per raccogliere più denari possibili (anche dai risparmiatori privati) e incanalarli a favore delle imprese più affidabili. Il concetto di “sostenibilità”, alquanto vago e diversamente interpretabile, deve quindi essere “messo a terra” – per usare un modo di dire molto di moda. Ecco allora che da tempo i think tank dei tecnocrati di Bruxelles e delle varie lobby economiche sono all’opera per stabilire quali debbano essere i parametri di sostenibilità delle attività imprenditoriali meritevoli per il loro impegno extra legem, al di là del dovuto e oltre il rispetto delle norme ordinarie in vigore. In pratica la Ue vuole articolare un’azione premiale normativa – oltre che incentivata – a favore di quelle imprese che scelgono volontariamente di intraprendere un percorso virtuoso, ancorché non imposto dalle leggi.

Abbandonato quasi subito l’impervio compito dello stabilire quali potrebbero essere gli impatti positivi “non finanziari” delle imprese nel campo sociale (troppo complicato e vasto lo spettro dei possibili effetti delle attività economiche sulla vita delle persone e delle comunità) è rimasto in piedi solo l’obiettivo di determinare le ricadute sull’ambiente naturale. È nato così il Regolamento Ue 2020/852 del 18 giugno di quest’anno relativo all’“istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili”. In gergo chiamato “tassonomia”, poiché indica, a grandi linee e in attesa dei “criteri tecnici di vaglio” delegati alla Commissione europea (attesi per fine anno), le specie delle attività giudicate utili al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale secondo i parametri dell’Agenda 2030 sullo Sviluppo sostenibile dell’Onu e dell’Accordo di Parigi della Convenzione quadro delle Un sui cambiamenti climatici. Il regolamento (Art.1) “Stabilisce i criteri per determinare se un’attività economica possa considerarsi ecosostenibile al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento”. In pratica i prodotti finanziari e le obbligazioni che il sistema delle banche e del credito metterà sul mercato (titoli, bond, azioni, ecc.) dovranno contenere informazioni trasparenti e dettagliate sugli obiettivi ambientali dichiarati dall’investitore “sottostante”, ovverossia dall’impresa beneficiaria del finanziamento. Per attività economiche ecosostenibili si intendono quelle che concorrono a dare “un contributo sostanziale” al raggiungimento di sei obiettivi: la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, la protezione e l’uso sostenibile delle acque, la transizione verso un’economia circolare, la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, la protezione e ilo ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

Truffe

7. Stabilito il quadro metodologico, i problemi cominciano ad emergere non appena la “tassonomia” scende nel dettaglio delle attività da premiare. Vi sono molti diversi modi per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, così come vi sono varie tecniche per produrre, distribuire, stoccare e distribuire le energie rinnovabili. Escluso in prima battuta il nucleare e il carbone (il punto 3 dell’art.19 recita infatti: “le attività di produzione elettrica che utilizzano combustibili fossili solidi non [sono da] considerare attività economiche sostenibili”) rimane in campo tutto il gas naturale e rientra dalla finestra lo stesso carbone “ripulito”. Infatti, il Regolamento (lettera f) dell’art. 10) sdogana le tecnologie di cattura, stoccaggio e utilizzo del carbonio (carbon capture, storage, utilisation) che “consentono una riduzione netta delle emissioni di gas a effetto serra”. Inoltre, nel caso in cui non esistano alternative tecnologiche a basse emissioni ed “economicamente praticabili”, la graduale eliminazione dei combustibili fossili solidi dai cicli produttivi potrà rientrare tra le attività economiche giudicate ecosostenibili. Anche sulla gestione dei rifiuti il Regolamento si accontenta di “ridurre al minimo l’incenerimento dei rifiuti”.

Insomma, il percorso della classificazione del tasso di ecosostenibilità degli interventi, degli investimenti e delle imprese è irto di trabocchetti se non di vere e proprie truffe. Pensiamo agli impianti di accumulo, concentrazione, liquefazione, distillazione e mineralizzazione dell’anidride carbonica prodotta dalle centrali termoelettriche o da grandi impianti siderurgici, chimici, cementieri da riutilizzare poi come carburanti o materiali da costruzione. Anche queste potrebbero essere considerate “economia circolare” e rientrare tra quelle finanziabili dal Recovery Fund. Puntualissima, infatti, l’Eni ha annunciato un progetto per pompare e stoccare CO2 nei giacimenti di metano dismessi a Ravenna. Con quali effetti sulla stabilità del sottosuolo e sull’inquinamento delle falde profonde solo Dio lo saprà. C’è poi il grande capitolo dell’“idrogeno blu” prodotto bruciando gas naturale, variamente miscelato con biocombustibili di varia provenienza. Nemmeno tutte le tecniche di produzione di energia solare sono prive di controindicazioni. Pensiamo ai grandi impianti a concentrazione solare da installare nei deserti del Sahara per produrre energia elettrica da trasportare e consumare in Europa. Pensiamo alle grandi e meno grandi dighe idroelettriche che alterano il corso delle acque e sommergono e modificano terreni agricoli, paesaggi, economie locali. Pensiamo ai “termovalorizzatori” e ai cementifici che usano combustibili derivati da rifiuti e scorie varie. Pensiamo al grande “mercato delle indulgenze”, come George Monbiot chiama i complicati meccanismi di compensazione delle emissioni di CO2 (Emission Trade System). Pensiamo in generale a tutte le diaboliche tecniche di geoenginering, di ingegnerizzazione dei cicli naturali biogeochimici, ovvero all’alterazione deliberata del clima su vasta scala attraverso la fertilizzazione degli oceani per aumentare le capacità di sequestro del carbonio, o all’immissione di aerosol in atmosfera per schermare le radiazioni solari (impresa finanziata dal filantropo Bill Gates), o alle piantagioni di alberi geneticamente modificati.

Chiediamoci in quale misura gli investimenti in linea con l’obiettivo della sola contabilità del carbonio (“emissioni nette zero nel 2050” ) possono essere considerati davvero green friendly. Molti progetti in corsa per essere agevolati dal Green Deal sono utili semplicemente a giustificare se stessi e ad ammortizzare impianti (miniere, pozzi, centrali, gasdotti, rigasificatori…) dell’era fossile. Altri progetti sono concepiti per consentire ai grandi gruppi economici e finanziari di avere il tempo per spostare i propri interessi dal brown al green e “convertirsi” al nuovo business dell’energia rinnovabile.

In genere i criteri Esg (Environmental, Social and Governace) sono griglie di valutazione delle attività finanziarie che tengono conto degli effetti (impatti) su tutti i soggetti coinvolti dalla realizzazione dell’investimento, oltre agli stakeholders, così da allargare la “responsabilità sociale delle imprese” lungo tutta la filiera produttiva e sull’intero ciclo di vita dei prodotti. Ma i sistemi di certificazione sono armi a doppio taglio: favoriscono la canalizzazione di risorse finanziarie a un certo tipo di imprese giudicate meritevoli, ma concedono una patente (certificazioni e ecolabel) di pulizia e benemerenza a dei prodotti la cui effettiva utilità e il cui impatto globale (sull’insieme delle matrici ambientali) sono sempre difficili da valutare.

Ricordiamoci sempre che nella attuale situazione planetaria di surriscaldamento climatico e di sovra-sfruttamento delle “risorse” naturali la cosa sicuramente più efficace da fare sarebbe quella di diminuire il flusso di materie e di energie impiegate nei cicli produttivi e di consumo. Come dice Amory Bloch Lovins (Rocky Mountain Insitute) andrebbe valorizzata e premiata ogni quantità di energia prodotta in meno (il negawatt), a prescindere dalla fonte primaria utilizzata. Applicando questo concetto alla finanza sono giunto alla conclusione che gli investimenti davvero verdi sono quelli che non si fanno. In altre parole la guarigione di Gaia, la salvaguardia delle funzionalità biologiche della Terra abbisognerebbe di lasciarla in pace a riposare il più possibile.

Saremo in grado?

8. Come scansare l’effetto boomerang? Quale Piano di ri-assettamento del sistema a partire da un profondo ravvedimento morale, scientifico e politico? La correlazione tra surriscaldamento globale, perdita di biodiversità e salute umana dovrebbe essere al centro delle azioni di prevenzione primaria contro i rischi sistemici globali biologici.

Nel Rapporto 2020 dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile c’è un bel riquadro che dà conto delle ricerche scientifiche sul rapporto tra la pandemia Covid-19 e il degrado ambientale: “La distruzione e il danneggiamento degli ecosistemi naturali, con conseguente perdita di biodiversità e delle loro funzioni, destabilizza la rete di interconnessioni che regola i processi ecologici, producendo scompensi e disfunzioni che possono manifestarsi in modifiche dei processi naturali, fino a ‘salti di specie’ da parte di agenti eziologici (quali batteri e virus)”. Sono le stesse cose che descriveva David Quammen in Spillover (Adelphi 2014): “

Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si ritrovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale cerca una nuova casa (…) Dunque i virus non ce l’hanno con noi siamo noi a essere diventati molesti, visibili e assai abbondanti”.

Ha detto Fritjof Capra, direttore del Center for Ecoliteracy di Berkeley:

“Il coronavirus deve essere visto come una risposta biologica di Gaia, il nostro pianeta vivente, all’emergenza ecologica e sociale che l’umanità ha di fronte a sé”. Le sempre più frequenti epidemie nascono dalla degradazione e fratturazione della rete della vita. “I virus, che vivono in simbiosi con alcune specie animali cui non fanno male, saltano da queste specie ad altre, come quella umana” (Messaggio di saluto alla inaugurazione di Terra Madre).

Il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services ha documentato come l’intervento umano in questi ultimi decenni sia stato senza precedenti nella storia dell’umanità, modificando e trasformando il 75% delle terre emerse, e impattando significativamente il 66% degli oceani e dei mari del globo. Aggiungiamoci che metà dei 7,8 miliardi di esseri umani vivono ammassati in megalopoli insalubri e che gli allevamenti intensivi industriali rappresentano un facile veicolo di contagio. Pensiamo a ciò che è accaduto negli allevamenti di animali “da pelliccia” che sono stati infettati dal Sars-Covid-2. Solo in Danimarca sono stati abbattuti 15 milioni di visoni.

Ma non basta. Con lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost non si libera solo gas metano – il più potente tra i gas serra – rimasto congelato nei sedimenti marini e sulla terraferma siberiana, tornano in superficie anche antichi microorganismi pericolosi. Scott Rogers, un professore della Bowling Green State University, sulla scorta di ricerche di un team di scienziati cinesi e statunitensi sul ghiaccio di 15 mila anni fa dell’altipiano tibetano, dove sono stati trovati 33 virus, 28 dei quali sconosciuti, ha dichiarato: “Con gli aumenti dello scioglimento del ghiaccio in tutto il mondo, aumentano anche i rischi derivanti dal rilascio di microbi patogeni nell’ambiente”. I paleovirologi affermano che è noto solo lo 0,1% dei virus esistenti (Eliana Liotta e Massimo Clementi, La rivolta della natura, La nave di Teseo, 2020).

Si chiedeva Fritjof Capra:

“Saremo in grado di passare da una crescita indifferenziata ed estrattiva ad una crescita rigenerativa e qualitativa? Sostituiremo i combustibili fossili con fonti di energie rinnovabili per tutti i nostri bisogni di energia? Saremo in grado di rimpiazzare i nostri sistemi centralizzati di agricoltura industriale ad alto spreco di energia con coltivazioni organiche rigenerative orientate alla comunità? Pianteremo miliardi di alberi per abbassare la CO2 dell’atmosfera e rigenerare gli ecosistemi? Saremo in grado di fermare l’invasivo turismo di massa e invece rivitalizzare le comunità locali?”.

Ecco, presto fatto, un vero Recovery end Relience Plan lo dovrebbero fare gli ecologisti, non gli economisti.

da qui

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