sabato 19 dicembre 2020

I giornalisti, il Kosovo liberato, Hashim Thachi e Robert Fisk - Ennio Remondino

 


Robert Fisk è un collega britannico scomparso una settima fa in Libano, dove viveva, a cui qualsiasi giornalista vorrebbe poter somigliare. Inviato speciale del quotidiano londinese The Independent, le guerre degli ultimo 30 anni se l’è fatte praticamente tutte. Quelle nella ex Jugoslavia e l’epilogo di quella del Kosovo, al seguito delle truppe Nato. Pesco a piene mani da una sua cronaca per raccontare del “Kosovo liberato” che per me, la voce ed il volto Rai dei bombardamenti da Belgrado, era stato vietato per decreto Uck: “territorio Comance” e non era una minaccia da prendere sottogamba. Nel frattempo, attualità stretta, il presidente del Kosovo Hashim Thachi si è dimesso ed è di fronte al tribunale internazionale dell’Aja per rispondere di crimini di guerra.

 

Robert Fisk

Si allunga la lista dei villaggi in cui si scoprono i cadaveri di contadini serbi assassinati. Di certo, una contro-pulizia etnica si sta svolgendo in Kosovo. Fino a pochi mesi fa, vittime delle atrocità delle truppe e delle milizie di Belgrado, alcuni albanesi del Kosovo si vendicano sulle minoranze serba e rom. Case incendiate, attentati contro chiese ortodosse, omicidi…: mentre quasi tutti i profughi kosovari sono tornati nella provincia, 160.000 serbi (su 200.000) sono stati costretti ad abbandonarla. Per i 35.000 uomini della forza internazionale (Kfor) è un patente fallimento, tanto più che l’esercito di liberazione del Kosovo (Uck), rifiuta di restituire le armi alle scadenze previste. Tutto ciò non può che alimentare i dubbi sui reali obiettivi della guerra della Nato e le critiche contro le manipolazioni mediatiche cui si è accompagnata.

Sempre i fatti prima di ogni considerazione

La cronaca di Robert Fisk, come sempre, vincola le sue considerazioni al dettaglio dei fatti.
Poco dopo l’arrivo in giugno delle truppe dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (Nato) a Pristina, Kathy Sheridan dell’Irish Times si recò in automobile a Vucitrn, una piccola città nelle mani delle forze di sicurezza serbe. Appena arrivata, vide un cadavere riverso per strada e molti poliziotti del ministero degli Interni serbo, meglio conosciuto con l’acronimo Mup. Tornata in tutta fretta a Pristina, riferì a un reporter del servizio radiofonico della Bbc di aver visto un morto a Vucitrn, ma che la zona era”piena di poliziotti serbi”. Qualche minuto più tardi quest’ultimo mandò in onda un servizio secondo il quale un inviato speciale irlandese aveva visto Vucitrn “ricoperta di cadaveri”.
Un’ora dopo, davanti al Grand Hotel di Pristina, incrociavo Keith Graves della catena SkyTv mentre chiedeva a un ufficiale inglese come fare per inviare un’équipe della televisione a Vucitrn per filmare i morti. Si stava facendo buio e Graves, un esperto reporter pieno di risorse, preferì rimandare il viaggio al giorno dopo. E’ solo allora che scoprì la verità: la Bbc aveva semplicemente gonfiato le dichiarazioni della Sheridan. La giornalista irlandese ottenne dalla radio inglese la promessa di poter spiegare in diretta che cosa aveva realmente visto. Ma grande fu il suo stupore e la sua rabbia quando constatò che la trasmissione era stata annullata. Commento di Keith Graves: “Il vero problema ormai è che il pubblico vuole solo atrocità”.

 

Atrocità utili all’audience

E di atrocità ne furono servite in abbondanza: quelle vere condite con quelle false. Il giornalista inglese non fa sconti alle responsabilità della Serbia di Milosevic. Racconta di eccidi di cui lui stesso ha avuto diretta testimonianza, ma il suo interesse è al momento quello di capire il ruolo dell’informazione nel teatro di quella tragedia. Il sensazionalismo del mestiere senza scrupoli che andava a braccetto con l’interesse Nato a trovare, post, la giustificazione ad una guerra sempre più diffusamente criticata.
L’Alleanza aveva finalmente “liberato” il Kosovo al termine di una guerra condotta in nome di “valori”, per usare le parole di Tony Blair. E che sia maledetto chiunque affermi che questa guerra assurda non avrebbe mai dovuto aver luogo.
Fin dall’inizio la maggior parte dei nostri colleghi giornalisti ha assunto un ruolo completamente passivo negli incontri quotidiani della Nato con la stampa. Nessuno ha osato interpellare il portavoce, James Shea, sulla supposta distruzione della Terza armata jugoslava, sulla nomina a comandante in capo dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) di Agim Ceku , uno dei responsabili della “pulizia etnica” compiuta dall’esercito croato in Krajina o, ancora, sul fatto che le soluzioni alla fine accettate dalla Nato per “chiudere” la guerra erano nettamente meno dure delle condizioni di pace che l’Alleanza aveva voluto imporre alla Serbia a Rambouillet.
I giornalisti accreditati alla Nato sono rimasti silenziosi anche quando ci si è resi conto che nonostante la “vittoria straordinaria” sull’esercito jugoslavo, questo aveva perso solo tredici carri armati e che si era ritirato dal Kosovo con i suoi effettivi quasi intatti.

I 13 carri armati di Milosevic distrutti

Robert Fisk, su quegli spunti, quei fatti, inizia a porsi interrogativi inquietanti.
Era necessario che tutto si svolgesse in questo modo? Gli inviati speciali della carta stampata, della radio e della televisione erano obbligati a comportarsi da portavoce dei generali dell’Alleanza e dei vari ministri degli Esteri? Verso la fine dei bombardamenti si noti peraltro che la maggior parte degli inviati ha utilizzato l’espressione “campagna aerea”, quasi che i mig serbi si alzassero in volo ogni giorno per combattere gli aerei della Nato Shea affermò che l’ospedale di Sudurlica era servito da bersaglio perché in realtà si trattava di una caserma. Questa dichiarazione era assolutamente falsa.
Abbiamo visitato il sanatorio, visto i pietosi resti dei morti, tra cui una giovane poetessa di diciannove anni; ma non uno dei miei colleghi ha chiesto spiegazioni alla Nato su questa menzogna.
Strane coincidenze Allo stesso modo sono stati pochi i giornalisti che hanno contestato da un punto di vista etico il bombardamento della sede della televisione serba a Belgrado . Circa due giorni prima del bombardamento, il quartier generale della Cnn ad Atlanta aveva avvertito i suoi inviati speciali che l’edificio sarebbe stato preso di mira e aveva ordinato loro di riprendere tutto il materiale, come effettivamente fecero. E’ allora che il ministro serbo dell’Informazione Aleksandar Vucic uomo vicino a Milosevic e quindi un obiettivo della Nato fu invitato negli studi della televisione serba, la mattina presto, per partecipare alla trasmissione del famoso presentatore della Cnn, Larry King. Gli si chiese di arrivare mezz’ora prima per il trucco! Vucic ha affermato di essere arrivato in ritardo. La Cnn assicura di aver disdetto l’appuntamento dodici ore prima. Se il ministro serbo fosse stato puntuale, si sarebbe trovato lì nel momento in cui arrivavano i missili, che uccidevano tra l’altro la truccatrice. Per la Cnn si trattò solo di una coincidenza.
Lo vogliamo sperare.

Un brutto personaggio Rai ha recentemente applaudito e quei bombardamenti contro i ’trombettieri di Milosevic’. Peccato che non c’era neppure un giornalista pifferaio come lui, tra quei morti

Fisk a Rambouillet

L’inviato di “Tre Indipendent” si occupa subito dopo dei cosiddetti accordi di Rambouillet, già ampiamente esaminati, che sono all’origine, o la giustificazione alla decisione Nato di bombardare. Quesito chiave: il dramma dei profughi kosovari albanesi nasce prima ed è la giustificazione (l’ideal politik) della guerra, o ne è soltanto la prevista conseguenza (real politik)?
(…) il generale Wesley Clark, comandante in capo della Nato, ha riconosciuto che la tragedia epica dei profughi era “interamente prevedibile” ma all’epoca nessun giornalista gli chiese perché non avesse condiviso quell’informazione con noi.

Il giornalista trombettiere

Ma torniamo alle questioni legate al modo di raccontarla quella guerra. Secondo Fisk, era stata soprattutto la stampa americana ed inglese, allora, a ritenere che il sostegno alle ragioni nazionali della guerra fosse “un vero e proprio dovere per un giornalista di un paese democratico in tempo di guerra”. In Italia accade anche di peggio, ma questa è altra cronaca e altro capitolo. Ancora i fatti.
Quando mi sono recato a Bruxelles, durante una delle quotidiane conferenze stampa, per fare una domanda sull’impiego di munizioni all’uranio impoverito, apparentemente responsabili di numerosi casi di tumore in Iraq, un generale ammise che la Nato ne aveva fatto uso ammissione tra l’altro ripresa in diretta.
Ma quando la Cnn preparò il nastro per mandarlo in onda, la mia domanda e la risposta del generale erano state misteriosamente tagliate.
Di recente l’addetto stampa di Blair, Alastair Campbell, pontificava davanti al Royal United Services Institute di Londra sul modo in cui i giornalisti erano stati ingannati dalla “macchina delle menzogne serba”, ma ovviamente non faceva menzione dei docili colleghi riuniti alle “messe” della Nato. E ritornava sul vecchio e logoro argomento, utilizzato nel corso di tutta la guerra: la Nato uccideva degli innocenti per sbaglio, i serbi li uccidevano volontariamente.

I morti per caso e l’ironia

In questo caso, Robert Firsk ricorre all’ironia. Ma anche se le vittime serbe fossero state uccise per sbaglio, questo renderebbe forse la loro morte meno dolorosa o più accettabile? Fa molta differenza essere decapitato da una bomba a frammentazione della Nato o da una granata serba? I serbi, non possiamo negarlo, sono stati responsabili di crimini orrendi veramente orrendi, a giudicare da quello che ho visto a Coska mentre la Nato non aveva intenzione (almeno lo vogliamo sperare) di uccidere civili. Ma se questa guerra non era indispensabile, allora le morti di cui l’Alleanza è responsabile pesano di più sulle nostre coscienze. E i giornalisti che lavoravano in Jugoslavia, lungi dall’essere gli strumenti di una qualche “macchina delle menzogne”, hanno fornito un doloroso ma necessario resoconto di quello che noi, la Nato, la nostra società occidentale facevamo subire ai serbi.
Robert Fisk, sull’argomento polemizza duramente. Primo: è quasi impossibile credere che un’aviazione che aveva bombardato con costanza ospedali, ponti, un treno, due autobus, un ponte di un villaggio in un giorno di mercato e molte case, oltre a caserme e raffinerie, non mirasse deliberatamente a obiettivi civili per piegare la Serbia. Secondo, nessuno è in grado di dimostrare o soltanto sostenere che i serbi avrebbero commesso atrocità volontarie anche se la Nato non fosse entrata in guerra.
E’ vero che i serbi si sono resi colpevoli di stupri, di esecuzioni di massa e di crudeltà contro kosovari innocenti, conclude Firsk, ma la natura della pace che ha concluso questa guerra suggerisce che quest’ultima avrebbe potuto non aver luogo. Questo conflitto avrebbe dovuto essere evitato.

Il carognismo in casa

L’ultimo attacco contro i giornalisti è arrivato dagli stessi inviati speciali. Una collaboratrice del The Irish Times mi ha accusato di voler mettere “sullo stesso piano le vittime” espressione puerile, ma pericolosa perché avevo previsto dall’inizio di giugno, e a ragione, che “il Kosovo sarebbe stato prima pulito etnicamente dai serbi. Poi in pochi giorni due settimane al massimo la regione sarebbe stata a sua volta pulita etnicamente dagli alleati albanesi della Nato”. Non solo questa citazione era stata estrapolata dal suo contesto, ma soprattutto il mio vero peccato era stato quello di avere ragione.
Da allora la maggioranza della popolazione serba del Kosovo è fuggita dalla regione, così come quasi metà degli zingari. I civili serbi che avevo visto ammassati nelle loro automobili o stretti in lacrime sui carri delle loro fattorie erano altrettanto innocenti degli albanesi odiosamente cacciati dalla loro patria due mesi prima. Ma il semplice fatto che questi nuovi profughi fossero serbi era sufficiente a far dimenticare la loro condizione di vittime. Mi venivano in mente i tedeschi dei Sudeti e dei territori orientali della Germania alla fine della seconda guerra mondiale. All’epoca non ci preoccupavamo di loro.”Hanno avuto quello che si meritano”, pensavamo. E ora riduciamo a bestie un intero popolo i serbi a causa dei crimini del loro governo e delle loro odiose forze paramilitari.

da qui

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