venerdì 17 settembre 2021

Come in cielo, così in mare - Giovanni Gusai

il romanzo è ambientato a Locoe (il nome di un villaggio realmente esistito, e tragicamente scomparso), dove Antine arriva per la prima volta a 28 anni.

una storia che dicono del figliol prodigo, di Ulisse, a me sembra semmai una storia di Grazia Deledda cento anni dopo, credo che a lei sarebbe piaciuta.

un libro sulle radici, sulla testardaggine, sull'amore, sull'economia, sui rapporti umani, sulle scelte, sui silenzi, sopratutto sui silenzi.

insomma un libro sardo, di oggi come di ieri.

 

 

 

Antine è un ragazzo come tanti, ha ventotto anni e vive a Milano, dove ha studiato architettura. Quando finalmente si laurea, dopo una notte di festeggiamenti sfrenati, rientra a casa all’alba. Ad accoglierlo ci sono i suoi genitori, che gli comunicano la morte della nonna mai conosciuta. Il padre, infatti, negli ultimi trent’anni non è mai tornato nella sua terra, la Sardegna.
Così Antine e la sua famiglia partono in nave verso l’isola per assistere al funerale. Il ragazzo, però, incuriosito da quel luogo sconosciuto ma in qualche modo familiare, decide di fermarsi lì, da solo, nella casa del nonno. Riavvia il suo vecchio 126, trova un lavoretto estivo e si stabilisce nel paesino di Locòe, dove gli abitanti mormorano e si chiedono perché il figlio di Salvatore sia ancora lì, visto che suo padre, assente per anni, è subito ripartito.
Ben presto Antine capisce che c’è un segreto intorno alla sua famiglia. Per scoprirlo dovrà restare e mettersi alla ricerca della verità e di se stesso.
Il romanzo d’esordio di Giovanni Gusai getta un ponte sull’incomunicabilità tra generazioni, tra chi è partito e chi è rimasto. Un silenzio che può essere interrotto solo da una nuova umanità che riscopra quei valori atavici che sono ancora dentro di noi, anche quando non ce ne accorgiamo.
Una storia che parla di appartenenza, distanze e coraggio a dei giovani sempre in viaggio, lontani da un’isola che muore spopolandosi.

da qui

 

 

E Giovanni Gusai cosa ritiene che sia importante per lui come scrittore: il diletto o la professionalità o altro ancora? E si sente un autore del passato, del presente o del futuro? O per uno scrittore non devono esistere i tempi verbali? Che cosa vede, infine, nel suo futuro di scrittore?

RISPOSTA: Questa è la domanda più difficile.

Per me è importante continuare ad avere qualcosa da dire (cioè da scrivere), più di ogni altra cosa. È essenziale che riesca a sforzarmi abbastanza da non ricalcarmi, da non passare per le solite strade, non raccontare la stessa storia in molti modi diversi – anche se forse l’umanità fa questo da sempre, cercare modi ogni volta nuovi per migliorare o riadattare la stessa narrazione di sé e delle cose. Mi auguro di tenere d’occhio quest’attenzione fondamentale: scorgere attorno a me e dentro di me nuove esigenze, situazioni che meritano di essere condivise e diffuse. E poi dare loro voce e parole. Sono consapevole di quanta fatica comporterà, e credo che Marcello parlasse di questo, cioè della necessità di imparare ad affrontare momenti che non siano puramente “di diletto”, e che anzi siano pesanti e difficili, talvolta noiosi, affinché si possa migliorare la qualità della propria scrittura. Ne sono consapevole e mi allenerò per non farmi trovare impreparato. Il diletto sopravviverà nell’approccio a questo sport entusiasmante e sfiancante che è la letteratura, che ci diverte e ci salva. Vivere così, impegnato e divertito, libero e coraggioso, significa per me vivere da scrittore, e uno scrittore non può che essere nel presente: è il solo modo per accaparrarsi il futuro.

da qui

  


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