martedì 14 settembre 2021

l’Afghanistan è lontano?

 

"I POLITICI AFGHANI CI HANNO TRADITO, MA LA RESISTENZA DELLE DONNE CI RESTITUISCE SPERANZA"

Intervista di Joshua Evangelista al regista Amin Wahidi

 

Amin Wahidi è un giornalista e regista nato a Kabul. Dopo aver lavorato per la rete televisiva nazionale ATN (Ariana Television Network) creando e presentando contenuti televisivi educativi, nel 2007 ha subito minacce di morte durante le riprese de Le chiavi per il paradiso, un film a cui stava lavorando e che parla degli attentatori suicidi in Afghanistan. Oggi vive in Italia, dove ha realizzato cortometraggi come l’Ospite, vincitore del Premio Città di Venezia 2014, il lungometraggio La Cena Persiana e il documentario Behind Venice Luxury, vincitore del premio Città di Venezia 2017. Oggi Amin è attivamente impegnato come mediattivista nel far conoscere quello che sta succedendo in Afghanistan. Lo sentiamo quasi contemporaneamente all'annuncio ufficiale della formazione del nuovo governo talebano. Accetta volentieri di darci il suo punto di vista sull'Afghanistan di oggi ma chiede di non parlare della sua vicenda personale. "Sono passati tanti anni e in una situazione del genere non mi sembra giusto distogliere l'attenzione da quanto sta succedendo in Afghanistan. Ogni personalismo crea solo distrazione".

Amin, la presa di potere da parte dei talebani poteva essere evitata?

Senza dubbio. Ci sono diversi fattori da analizzare. Il primo riguarda il modo in cui la comunità internazionale abbia lasciato tutto il potere nelle mani un gruppo di poche persone, con doppia cittadinanza. Persone senza radici popolari, che non hanno fatto alcun investimento effettivo sulla società civile. Fino alla presa di potere dei talebani, tutto era controllato da tre persone: il presidente Ashraf Ghani (cittadino statunitense), il responsabile dello staff governativo Fazal Mahmood Fazli (cittadino svedese) e l'adviser sulla sicurezza nazionale Hamdallah Moheb (cittadino britannico). Come loro diversi altri dirigenti erano arrivati in Afghanistan senza avere nessun rapporto diretto con il popolo. Ad esempio Ajmal Ahmady, governatore della Banca di Afghanistan, è un cittadino libanese spacciato per afghano che non parla bene né dari né pashto a cui è stata data quella posizione di potere solo per rapporti personali con la moglie di Ghani, a sua volta libanese. Queste persone, tra l’altro, sono state accusate di essere scappate con milioni di dollari.

E qual è stato il ruolo della società civile?

Anche l’atteggiamento del popolo afghano è stato discutibile. Se le proteste che vedo in questi giorni ci fossero state tempo fa non saremmo arrivati a questa situazione. La gente si aspetta che qualcuno venga da fuori a fare qualcosa per loro, e questo è sbagliato. Ma ora non hanno scelta: se non vogliono questa egemonia religiosa ed etnica non possono fare altro che scendere in piazza e lottare per il proprio destino, con la sola forza del credere nella libertà.

Come siamo arrivati a questa situazione?

Questa caduta era stata di fatto preparata nel 2014. Mentre gli altri leader etnici, hazara, uzbeki, tajiki, avevano creduto nelle parole di unità nazionale, il presidente ha smantellato il Paese. Lo ha fatto in due modi: in primis disarmando le altre forze di resistenza ai talebani non pashtun e mettendosi al centro di ogni decisione militare, creando così immobilismo. Inoltre è stato a capo del comitato che ha trasferito nel 2014 il potere militare dalle forze NATO a quelle afghane. Si parla della debolezza dell’esercito, in realtà era Ghani che non voleva che venissero colpiti i talebani: avrebbe significato spargere sangue pashtun, la sua etnia. Ultimamente la Reuters ha pubblicato in esclusiva la famosa conversazione tra lui e Biden precedente al collasso. Il presidente americano chiedeva un piano difensivo, ma Ghani non gliel’ha consegnato. Perché aveva da tempo in mente un piano di evacuazione.

Qual è il ruolo del Pakistan, in quest’ottica?

Anche qui, ci sono due aspetti diversi da analizzare. Pochi giorni prima della fuga di Ghani, alcuni leader afghani non pashtun sono andati in Pakistan per spiegare alla leadership locale che le minoranze etniche afghane non andavano trattate come nemiche del Pakistan; anzi, chiedevano supporto per la costruzione di un nuovo governo che tenesse conto di tutte le comunità etniche presenti nel territorio. Quello che questi delegati non sapevano, è che Ghani aveva già incontrato il comando dell’esercito del Pakistan, per tre volte. Aveva deciso di consegnare il potere al Pakistan in cambio del mantenimento di una leadership pashtun. C’è stata una svendita del Paese, una competizione a chi lo vendeva prima e a buon mercato. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, un ex giocatore di cricket, è anche lui un pashtun e non gli dispiace che il potere afghano rimanga nelle stesse mani.

Inoltre, se il Paese è nelle mani dei talebani, tutti i movimenti fondamentalisti che creano problemi in Waziristan potranno essere mandati in Afghanistan. Ma, soprattutto, il Pakistan potrà partecipare alla gestione delle risorse afghane e a quella degli aiuti che arriveranno da Occidente. In pratica sta giocando lo stesso ruolo che svolgeva durante la Guerra fredda. Ad esempio, sta aiutando nell’evacuazione degli stranieri ancora rimasti a Kabul. Tutto questo viene fatto in cambio di un cospicuo sostegno economico. E per gli Stati Uniti è meno costoso finanziare i pakistani rispetto al rimanere in Afghanistan.

Il tema dell’etnocentrismo è ricorrente nella descrizione che gli afghani fanno dei talebani. Eppure in Occidente ci si sofferma solo sul fondamentalismo religioso. Secondo te perché?

Da una parte tutti i media tendono a seguire quanto dice un grande giornale senza approfondire. Negli Stati Uniti si segue spesso l’opinione di Zalmay Khalilzad, afghano-americano già ambasciatore in Afghanistan e in Iraq e ultimamente, sotto Trump e Biden, rappresentante statunitense per la riconciliazione con talebani. Ora, Khalilzad e Ghani si conoscono da una vita, hanno studiato insieme in Libano e perseguono la stessa strategia. Non parlano mai di pashtun. Sempre sfruttano la parola “afghani”, anche se per loro è sinonimo di pashtun. Tornando ai media, c’è ignoranza e si affidano a lobby di intellettuali pashtun per spiegare la politica afghana. Ad esempio, troppo poco si è parlato delle resistenze nel Panjshir e a Behsud. Mi sono fatto un’idea: per essere rilevante per i media internazionali o devi avere il potere di minacciare l’Occidente o il potere per garantirne gli interessi. I pashtun hanno entrambi questi poteri.

Hai accennato alla resistenta in Behsud, di cui non si parla mai. Com’è la situazione?

Si tratta di una resistenza popolare nata per caso. Dai tempi dei massacri storici, quando sotto l'emiro Abdur Rahman Khan tutti i pashtun erano stati riuniti per uccidere gli hazara, le tribù nomadi erano state invitate a prendere le terre degli hazara. Da allora fino a oggi le tribù kochi, che sono pashtun, hanno invaso i villaggi hazara uccidendo i locali, senza alcuna resistenza dal governo. Così alcuni giovani hazara hanno iniziato a difendere i propri territori. Oggi questa resistenza combatte i talebani da sola, dopo che tra gennaio e marzo di quest'anno il presidente Ghani aveva provato a distruggerla. In quell'occasione l’esercito ha ucciso 11 civili e bruciato le case. Va detto che anche il presidente Ghani ha origine kochi e suo fratello Hashmat Ghani Ahmadzai è leader del Gran consiglio dei kochi e ha recentemente giurato fedeltà ai talebani. La resistenza hazara oggi è formata da partigiani che si nascondono e provano ad attaccare i terroristi, guidati da Abdul Ghani Alipur.

Che differenza c'è rispetto alla resistenza, più nota, del Panjshir?

La resistenza hazara è una resistenza povera, fatta di contadini che condividono il pane tra loro. Quella del Panjshir è sostenuta dal Tajikistan, che considera i combattenti dei fratelli, dall’India e forse ora da Uzbekistan e Francia, vista la grande popolarità che ha Aḥmad Shāh Masood in Francia. Inoltre hanno le armi del vecchio esercito afghano. Gli hazara, non avendo sostegni, vanno avanti solo con coraggio e determinazione, conoscendo le loro zone. Ma non hanno armi.

Che idea di sei fatto della gestione dell'evacuazione del Paese da parte del governo di Biden?

Questa ritirata prima o poi sarebbe dovuta avvenire. Ghani ha giocato di furbizia, fingendo che l’esercito avrebbe potuto resistere altri sei mesi. Però, guardando questa nuova resistenza, penso che Biden abbia fatto la scelta giusta. Noi riteniamo che un bambino, arrivati i 18 anni, debba organizzarsi la vita da solo. Eppure in Afghanistan, grazie a 20 anni di aiuti internazionali, molte persone si erano adagiate a una vita fatta di sostegno esterno, in una eterna attesa che qualche straniero facesse qualcosa. Al contrario, credo che se si vuole salvare il Paese si debba prendere delle responsabilità, fare sacrifici, rischiare la vita per ottenere la libertà. Non ci sono angeli che ci salvano: o cambiamo la situazione noi oppure non lo fa nessuno. Tutte le rivoluzioni sono nate così. Oggi, quando vedo sui social i video che raccontano il coraggio delle donne di Kabul divento ottimista. Non me l’aspettavo, sono sincero.

Può essere la risposta alla repressione?

Sono davvero ottimista. Queste donne sono istruite, aperte, vivono in città. Ghani è scappato e ha venduto il Paese, ma le cose possono cambiare. Prevedo che possa esserci nel lungo termine una scissione tra nord e sud, o una soluzione federalista. Non è improbabile. Biden diceva che gli Stati Uniti non sono andati in Afghanistan per costruire una nazione, questa scelta spetta agli afghani, da secoli divisi e in guerra. E secondo me ha ragione, dipende da quello che vogliono fare i gruppi etnici: o vogliono vivere civilmente, con una democrazia e una relativa libertà. O vogliono stare sotto il giogo dei terroristi. Quello che vedo con le donne e con i giornalisti coraggiosi mi fa pensare che la resistenza può proseguire.

A tal proposito, quali figure stanno emergendo oggi in Afghanistan per coraggio e dissenso?

Tra le donne sicuramente Leila Haidari, che è rimasta lì e nel “sottosuolo” fa cose incredibili. Ma anche i leader Masood e Alipur possono ispirare coraggio e speranza agli altri. Al contrario, i vecchi leader della resistenza sono scappati all’estero. E poi ci sono i giornalisti come Fahim Dashti, che hanno ucciso, e Zaki Daryabi, direttore del quotidiano investigativo Etilaatroz, che coraggiosamente rimane in Afghanistan e ci informa.

da qui

 

 

Gli Stati Uniti non hanno mai capito l’Afghanistan - Shadi Hamid

Gli Stati Uniti non hanno mai capito l’Afghanistan. I pianificatori di Washington pensavano di sapere di cosa avesse bisogno il paese, ma non era la stessa cosa che voleva la sua gente. La politica degli Stati Uniti era animata da diverse pie illusioni. La principale era l’idea che i taliban potessero essere eliminati e che, nel farlo, potesse essere trasformata un’intera cultura.

In un mondo ideale i taliban non esisterebbero. Ma esistono, ed esisteranno in futuro. Gli osservatori occidentali fanno sempre fatica a capire come gruppi così spietati ottengano legittimità e sostegno popolare. Sicuramente gli afgani ricordano il terrore del dominio taliban negli anni novanta, quando le donne venivano frustate se si avventuravano fuori di casa senza burqa e le persone adultere erano lapidate a morte negli stadi di calcio. Come si possono dimenticare quei giorni cupi?

Gli Stati Uniti consideravano malvagi i taliban. Ritenere un gruppo malvagio significa gettarlo fuori dal tempo e dalla storia. Ma si tratta di una visione da privilegiati. Vivere in una democrazia con una sicurezza di base permette ai cittadini di puntare più in alto. Saranno delusi anche da un governo relativamente buono proprio perché si aspettano di più. Negli stati falliti e nel mezzo di una guerra civile, tuttavia, le questioni fondamentali sono quelle dell’ordine e del disordine, e come avere più del primo e meno del secondo.

 

Cecità e pregiudizi di Washington
I taliban lo sapevano. Dopo aver perso il potere nel 2001, il gruppo era debole, e doveva riprendersi dai devastanti attacchi aerei contro i suoi dirigenti. Ma negli ultimi anni ha ripreso terreno e messo radici più profonde nelle comunità locali. I taliban sono stati brutali. Allo stesso tempo hanno spesso garantito un’amministrazione migliore del lontano e corrotto governo centrale afgano. Fare poco è servito a molto.

Il governo dell’Afghanistan, sostenuto dagli Stati Uniti, non è fallito solo a causa dei taliban. È stato ostacolato fin dall’inizio dalle cecità e dai pregiudizi di Washington. Gli Stati Uniti hanno visto in un’autorità forte e centralizzata la risposta ai problemi del paese, e hanno sostenuto una costituzione che ha dato al capo dello stato ampi poteri. Questo, insieme a un sistema elettorale bizzarro e confuso, ha minato lo sviluppo dei partiti politici e del parlamento. Uno stato forte richiedeva istituzioni legali formali e gli Stati Uniti hanno debitamente sostenuto tribunali, giudici e altri orpelli del genere. Nel frattempo alimentavano il risentimento promuovendo programmi che dovevano ridisegnare la cultura afgana e le relazioni di genere.

Tutte queste scelte erano un riflesso dell’arroganza delle potenze occidentali, che consideravano le tradizioni afgane come un ostacolo da superare quando, a quanto pare, erano la linfa vitale della cultura politica del paese. Alla fine pochi afgani hanno creduto in un governo centrale che non hanno mai sentito vicino, o si sono presi la briga di navigare tra le sue lungaggini burocratiche. Hanno continuato a risolvere le loro controversie tramite autorità informali e comunitarie, rivolgendosi a figure locali di cui si fidavano. E questo ha aperto la strada al progressivo ritorno dei taliban.

L’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) ha supervisionato il modo in cui gli Stati Uniti hanno erogato i fondi per la ricostruzione e valutato la loro efficacia. Lo scorso anno sono uscite due deprimenti valutazioni del Sigar.

Una, pomposamente intitolata What we need to learn: lessons from twenty years of Afghanistan reconstruction (Cosa dobbiamo imparare: lezioni da vent’anni di ricostruzione dell’Afghanistan), fa notare che gli Stati Uniti hanno speso circa novecento milioni di dollari per aiutare gli afgani a sviluppare un sistema legale. Sfortunatamente la cosa non sembra avere impressionato gli stessi afgani.

Una delle prime cose che fanno gruppi armati come i taliban quando entrano in un nuovo territorio è fornire una soluzione delle controversie “sbrigativa e rapida”. Spesso sono più rapidi del sistema giudiziario locale. Come abbiamo notato io, Vanda Felbab-Brown e Harold Trinkunas nel nostro libro del 2017 sulle capacità di governo dei gruppi ribelli, “gli afgani mostrano un alto grado di soddisfazione per i verdetti dei taliban, a differenza di quelli del sistema giudiziario ufficiale, dove chi chiede giustizia deve spesso pagare considerevoli tangenti”.

Questa è una delle ragioni principali per cui la religione, in particolare l’islam, è importante. Fornisce un quadro organizzativo per una giustizia sbrigativa e una giustificazione per la sua attuazione, e ha più probabilità di essere percepita come legittima dalle comunità locali. I gruppi e i governi laici fanno, semplicemente, più fatica a fornire questo tipo di giustizia. Il governo afgano non era necessariamente laico, ma aveva ricevuto decine di miliardi di dollari da governi che certamente lo erano. Un sistema informale di risoluzione delle controversie, basato sulla sharia, sarebbe quasi certamente disapprovato da quei finanziatori occidentali. Quanto era probabile che un governo afgano guidato da un tecnocrate con un diploma di un’università della Ivy League potesse battere i taliban al loro stesso gioco?

Come ha notato il rapporto Sigar, “gli Stati Uniti hanno giudicato male quel che avrebbe costituito un sistema giudiziario accettabile dal punto di vista di molti afgani, il che in ultima istanza ha permesso ai taliban di esercitare la loro influenza”. O, per dirla con un ex funzionario dell’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid): “Abbiamo scartato il sistema di giustizia tradizionale perché pensavamo che non avesse alcuna rilevanza rispetto a ciò che volevamo vedere nell’Afghanistan di oggi”.

 

Un sistema sbilanciato
Ma cosa volevano, per l’appunto, vedere gli Stati Uniti nell’Afghanistan di oggi?

Quando l’amministrazione Bush ha contribuito a formare il governo afgano post-taliban, sosteneva ancora di essere poco interessata alla costruzione dello stato. Prendere a prestito dalle costituzioni passate dell’Afghanistan era più facile che proporre qualcosa di più appropriato a quello che era diventato un paese molto diverso. La nuova costituzione ha creato un sistema sbilanciato che ha dato al presidente “quasi gli stessi poteri di quelli esercitati dai re afgani”, come ha scritto Jennifer Brick Murtazashvili, un’importante studiosa dell’Afghanistan.

I sistemi presidenziali forti sono allettanti perché offrono la prospettiva di un’azione decisa. Ma la concentrazione di potere allontana inevitabilmente altre parti interessate, in particolare al livello locale e regionale.

Fin dall’inizio il parlamento afgano ha sofferto di un deficit di legittimità. L’Afghanistan ha usato un sistema elettorale cosiddetto a voto unico non trasferibile (sntv), uno dei più rari al mondo. Ci sono varie ragioni per cui l’sntv è talvolta usato nelle elezioni locali ma quasi mai al livello nazionale: tra le altre, perché assegna i voti in un modo che ostacola lo sviluppo dei partiti politici. Se c’è un qualcosa di cui l’Afghanistan ha bisogno, sono partiti politici – e un parlamento – che possano controbilanciare i poteri del presidente.

I rischi di un sistema presidenziale crescono nelle società divise, e l’Afghanistan è diviso lungo linee etniche, religiose, tribali, linguistiche e ideologiche, quasi in ogni modo possibile. Questo aumenta la posta in gioco della competizione politica, perché ciò che conta di più è chi finisce al vertice.

Il sistema, infine, funziona solo se il presidente è competente. Il presidente ormai in esilio, Ashraf Ghani, era riuscito a essere onnipotente in teoria, ma decisamente inetto in pratica. Nonostante sia stato il presidente dell’Istituto per l’efficenza dello stato, la sua inefficienza – che si riflette nel suo stile volubile e nella sua propensione alla microgestione – ha infettato l’intero sistema politico, e poco si è potuto fare per invertire la tendenza finché è rimasto in carica.

 

Valori non condivisi
Oltre a creare nuove istituzioni politiche, gli Stati Uniti credevano di poter trasformare la cultura del paese. Naturalmente la maggior parte dei politici, delle organizzazioni non governative e dei donatori statunitensi pensavano che le cose funzionanti nelle democrazie avanzate avrebbero fatto lo stesso in quelle incompiute e fragili. I valori liberali erano universali. E dal momento che erano universali sarebbero stati, se non adottati, almeno apprezzati.

È stato speso quasi un miliardo di dollari per promuovere l’uguaglianza di genere. Ma una simile attenzione è stata troppo spesso simile a una forma d’ingegneria sociale e culturale in un paese conservatore, che stava ancora lottando per stabilire una sicurezza di base. La politica di Usaid sull’uguaglianza di genere e la promozione e il rafforzamento della presenza femminile indicava tra i suoi obiettivi, piuttosto ambiziosi, quello di “lavorare con uomini e ragazzi, donne e ragazze per apportare cambiamenti di atteggiamento, comportamento, ruoli e responsabilità”. Si tratta di un obiettivo degno, ma l’approccio statunitense ha avuto mano pesante ed è stato a volte controproducente.

Come ha concluso il secondo rapporto Sigar, intitolato Support for gender equality: lessons from the U.S. experience in Afghanistan (Sostegno all’uguaglianza di genere: lezioni dall’esperienza degli Stati Uniti in Afghanistan), ai funzionari statunitensi serve “una comprensione più sfumata dei ruoli e delle relazioni di genere nel contesto culturale afgano” e di “come sostenere donne e ragazze senza provocare contraccolpi che potrebbero metterle in pericolo o bloccare il progresso”.

Questi sforzi erano ben intenzionati, ma si basavano su ipotesi sull’arco del progresso e sulla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero reso possibile tale progresso nonostante gli afgani stessi fossero meno ottimisti.

 

Avere voce in capitolo
Se gli Stati Uniti avessero fatto altre scelte, il risultato sarebbe stato diverso? Non lo so. Gli statunitensi credono in certe cose. Sospendere queste convinzioni in nome della comprensione di un’altra società può facilmente degenerare in un relativismo morale e culturale che molti, se non la maggior parte, degli statunitensi rigetterebbero. Un repubblicano – ma, in realtà, anche un progressista che diffidi del ruolo della religione nella vita pubblica – si sarebbe sentito a suo agio nel sostenere in Afghanistan programmi che prevedevano l’attuazione di una certa versione della sharia, anche se diversa da quella dei taliban?

In una transizione, tuttavia, l’ordine e la sequenza contano. Oggi è chiaro che abbiamo sbagliato la sequenza in Afghanistan, specialmente considerando che i diritti delle donne sono stati a lungo una delle questioni più divisive del paese. Come hanno avvertito le esperte Rina Amiri, Swanee Hunt e Jennifer Sova nel 2004, quando i taliban sembravano una reliquia del passato, “nonostante la situazione sia notevolmente migliorata dai tempi del regime taliban, è ancora propizia a una lotta fra tradizionalisti e modernisti; e ancora una volta il ruolo delle donne e la religione sono centrali in questo conflitto”.

 

Era compito dell’America cambiare una cultura? Qualcuno si aspettava davvero che il governo degli Stati Uniti sarebbe stato capace di farlo? Se esiste un cambiamento che dovrebbe venire dall’interno, si tratta probabilmente di un cambiamento culturale. Ma se esiste qualcosa di universale – e che trascende la cultura e la religione – è il desiderio di avere voce in capitolo nel proprio governo. Invece di dire agli afgani come vivere, avremmo potuto dargli lo spazio necessario a decidere chi volevano essere.

Con un parlamento debole, in parte a causa di questo bizzarro sistema elettorale, tutta l’attenzione è stata dirottata sulle competizioni presidenziali, invariabilmente piene di risentimento. Il risultato è stato un sistema del “chi vince prende tutto” in un paese dove i vincitori hanno a lungo sottomesso, o peggio, gli sconfitti. Non è una sorpresa, quindi, che “ogni elezione presidenziale afgana sia stata mediata da diplomatici statunitensi”, come ha detto Jarrett Blanc, uno di questi diplomatici. È questa la democrazia che gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno cercato, per anni, di costruire.

Molte delle istituzioni politiche che gli Stati Uniti hanno contribuito a creare sono state spazzate via. È quasi come se non fossero mai esistite. Insistendo sul primato della cultura sulla politica, gli Stati Uniti pensavano di poter migliorare entrambi. L’Afghanistan sarebbe stato comunque condannato? Può darsi. Ormai è troppo tardi per saperlo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Atlantic.

da qui


UNIAMOCI ALLA RESISTENZA DELLE DONNE AFGHANE!

 

“Noi alzeremo la nostra voce ancora più forte e continueremo la nostra resistenza e la nostra lotta per la democrazia e i diritti delle donne!”

RAWA

L’invasione dell’Afghanistan da parte degli USA e dei paesi NATO, fatta con il pretesto di sconfiggere il terrorismo e liberare le donne, è stata un gigantesco fallimento.

La guerra ha prodotto 241.000 vittime (https://watson.brown.edu/costsofwar/costs/human/civilians/afghan) e oltre 3,5 milioni di sfollati (https://news.un.org/en/story/2021/07/1095782).Oggi l’Afghanistan produce il 90% dell’eroina mondiale, la corruzione all'interno delle cosiddette istituzioni afghane ha raggiunto livelli spaventosi (l'Afghanistan è al 165o posto su 180 paesi nelle statistiche di Transparency International) e il paese ha pochissime e gravemente carenti infrastrutture, scuole, ospedali.

In questi 20 anni di occupazione militare gli USA hanno speso 2.300 miliardi di dollari, la Germania 19 miliardi di euro e l’Italia 8,7 miliardi di euro.

La "liberazione delle donne" non è stata garantita: l’87% delle donne afghane è ancora analfabeta; le donne che hanno avuto la possibilità di studiare e lavorare costituiscono un’esigua minoranza, usata dall’Occidente per dimostrare il successo dell’occupazione.

Quanto al terrorismo, oggi in Afghanistan è più che mai rampante; il paese è stato regalato ai talebani, dal 2015 è attiva la violentissima cellula ISIS Khorasan e i signori della guerra a cui nel 2001 la coalizione di potenze occidentali ha dato il potere sono pronti a rialzare la testa nel caso in cui i talebani non assicurino loro una fetta della torta.

Chiediamo che i governi e le istituzioni dei paesi dell’Unione Europea:

  • non forniscano nessun riconoscimento al regime dei talebani;
  • avviino azioni di supporto alle forze laiche e democratiche afghane come RAWA (RevolutionaryAssociation of the Women of Afghanistan, http://www.rawa.org/index.php) e Hambastagi (Solidarity Party of Afghanistan, http://hambastagi.org/new/en/);
  • dicano "basta" a imperialismo, militarismo, fascismo e fondamentalismo religioso e smettano di usare i diritti delle donne per altri interessi;
  • cessino la politica di contenimento delle migrazioni fondata sull’esternalizzazione e la militarizzazione delle frontiere e cancellino qualsiasi pratica di respingimento e detenzione;
  • organizzino corridoi umanitari e ponti aerei per l’evacuazione immediata di coloro che sono in pericolo;
  • blocchino, anche attraverso il disinvestimento nell’industria degli armamenti, il ciclo perverso delle “guerre infinite” che imprigiona l’Afghanistan e buona parte delle popolazioni del Medioriente;
  • istituiscano un osservatorio speciale per il monitoraggio delle violazioni dei diritti delle donne e dei diritti umani in Afghanistan;
  • cessino di ubbidire in silenzio ai diktat degli Stati Uniti e di partecipare alle loro guerre, che portano solo più fondamentalismo, più emigrazione, più povertà; rendano conto del loro operato in questi lunghi 20 anni di guerra in Afghanistan.

COSTRUIAMO INSIEME UNA RETE MONDIALE DI DONNE RESISTENTI

da qui

 

 

Per i profughi afgani i problemi non sono ancora finiti - Annalisa Camilli

Aveva deciso di tornare in Afghanistan nel 2016, dopo sette anni in Italia e la laurea in economia e gestione aziendale all’università di Trento: M. A. era sicura che avrebbe potuto mettere a frutto gli studi nel suo paese di origine e mai avrebbe pensato di essere costretta a fuggire di notte con i due figli, il marito e il fratello, dopo aver distrutto tutti i documenti che riguardavano il suo lavoro come dirigente al ministero delle finanze afgano. “Il mio sogno di avere una vita in Afghanistan rimarrà tale, ero tornata perché volevo essere utile al mio paese, ma non è stato possibile”, afferma.

Ha 32 anni ed è originaria della provincia di Ghazni, la incontro i primi giorni di settembre, nella tendopoli di Avezzano, in Abruzzo, gestita dalla Croce rossa e dalla Protezione civile, prima che sia trasferita in un centro di accoglienza in Campania. È arrivata in Italia cinque giorni prima del nostro incontro grazie al ponte aereo che da Kabul ha portato in Italia più di cinquemila persone quando i taliban hanno preso il potere nel paese. Ora si sente finalmente al sicuro dopo settimane passate a nascondersi in casa, senza viveri, con il terrore di essere uccisa per la sua collaborazione con i governi occidentali e con l’esecutivo di Ashraf Ghani.

 

Non ha portato niente con sé, né ricordi né documenti: ha preso giusto qualche vestito per cambiare i bambini, ma non sono serviti, perché per raggiungere l’aeroporto di Kabul ha dovuto attraversare un fiume ed è arrivata dall’altra parte completamente inzuppata. Solo parecchie ore dopo essere arrivata nella tendopoli di Avezzano ha potuto mettere dei vestiti puliti ai suoi figli, che hanno rispettivamente quattro anni e un anno.

  1. A. ha dovuto affrontare molti ostacoli nella sua vita e ora spera che il suo perfetto italiano la aiuti a trovare un lavoro da interprete o da mediatrice e che i suoi figli possano studiare nel paese che l’ha già accolta quando aveva diciannove anni e le ha permesso di andare all’università con una borsa di studio. Il primo ostacolo che A. si è trovata di fronte è stato quello di affrontare un percorso scolastico in un paese in cui il tasso di analfabetismo femminile si aggira ancora tra l’84 e l’87 per cento.

In seguito, convincere i suoi a farla partire per l’Italia non è stato facile: “Nei sette anni in cui sono stata in Italia da sola, la mia famiglia ha subìto migliaia di domande da amici e conoscenti, chiedevano cosa facessi da sola in Italia. La mia famiglia si è fidata di me, mi ha lasciato partire a 19 anni, visto che io fin da piccola avevo il desiderio di studiare”, racconta. Il giorno che i taliban sono entrati a Kabul ha ricevuto una telefonata: dal suo ufficio le hanno detto di distruggere tutti i documenti in suo possesso, di cancellare tutte le informazioni, perché era in pericolo di vita per il semplice fatto di lavorare per il governo afgano.

“Non avrei mai pensato che sarebbero arrivati al potere così velocemente: avevamo una bella vita, un bel lavoro, una casa, non pensavamo di dover ricominciare tutto da zero all’improvviso. E invece…”. Invece sono stati rinchiusi per giorni nella loro casa di Kabul finché, grazie a due amiche italiane, hanno avuto il lasciapassare per raggiungere l’aeroporto.

“I militari italiani ci hanno detto di raggiungere un certo posto, dovevamo distruggere tutti i messaggi WhatsApp subito dopo averli letti, ma quando siamo arrivati in quel posto, c’erano centinaia di persone ad aspettare”, racconta A. “Abbiamo sventolato una cartellina blu come eravamo rimasti d’accordo e questo ci ha salvato”, ricorda.

La felicità di salire sull’aereo che li ha portati prima in Qatar e poi in Italia è stata grande, pari alla preoccupazione per quelli che sono rimasti indietro. “Siamo in contatto con loro, ci scriviamo, la situazione è terribile”. A. ha fiducia nel futuro: il suo sogno è di potere iscriversi al dottorato o a un master. “Ho sempre sognato di proseguire gli studi”. Ma quando ci sentiamo qualche giorno dopo il nostro incontro mi dice che è stata trasferita a Napoli in una struttura per i malati di covid, l’ospedale del Mare, insieme ad altri 112 profughi. Si trova in quella struttura per essere sottoposta a quarantena, ma teme di prendere il covid e di non essere trasferita a Trento, dove ha degli amici che la potrebbero aiutare.

Un’altra che è preoccupata del suo futuro è S. H., un’attivista per i diritti delle donne, che dalla tendopoli di Avezzano è stata trasferita in un centro di accoglienza a Irsina, un comune di 4.500 abitanti in Basilicata. “Siamo arrivati venerdì e per tre giorni non ci hanno detto niente, il centro di accoglienza è sporco, le lenzuola rovinate e non ci stanno dicendo nulla sul futuro, neppure spiegando come possiamo fare per studiare l’italiano”, mi scrive qualche giorno dopo il nostro incontro in Abruzzo.

  1. è dovuta scappare da sola, lasciando nel suo paese il padre e i fratelli. La situazione per lei che si era occupata in particolare della condizione femminile era molto pericolosa. “Non sarei voluta partire, ma tutti mi hanno spinto a farlo, perché mi hanno convinto che posso essere più utile al mio paese se sono viva e se sono in Europa”. Anche H. ha dovuto distruggere tutti i documenti legati al suo lavoro di attivista e di insegnante, è riuscita a portare con sé solo il suo computer e dei piccoli orecchini d’argento con una pietra azzurra che sono un ricordo di sua madre, morta per una malattia due mesi prima della presa di potere da parte dei taliban. Anche per lei studiare è stata un’impresa: “Dovevo camminare quattro ore per raggiungere la scuola, ma volevo andarci a tutti i costi”.

Lavorare come attivista per i diritti delle donne nel suo paese negli ultimi sette anni è stato in ogni caso pericoloso: “Ricevevamo minacce e non potevamo andare in certe aree del paese, perché era rischioso”. H. è ancora scioccata dalla presa di Kabul da parte dei taliban, anche lei non se l’aspettava. Racconta di essere entrata subito in clandestinità e di essersi rifugiata per tre giorni a casa di un’amica, senza uscire. “I taliban ci hanno cercato casa per casa, hanno fatto irruzione nell’appartamento di una collega e dopo questo episodio abbiamo capito che non c’era altro da fare che lasciare il paese”.

Dopo nove giorni è riuscita a mettersi in contatto con i soldati italiani attraverso l’aiuto di un’amica. “Sono andata all’aeroporto di Kabul di notte, mi avevano dato una parola d’ordine da comunicare ai soldati per farmi passare, ma l’aeroporto era pieno di gente, ho aspettato dieci ore”, racconta. Ora la sua preoccupazione è imparare l’italiano, ottenere i documenti e provare a portare in salvo anche la sua famiglia, che ha dovuto lasciare in Afghanistan.

L’Italia è stato il paese europeo che ha accolto più afgani dall’inizio della crisi ad agosto, ma le associazioni del Tavolo asilo sono preoccupate che non sia riservato loro un trattamento adeguato. Il centro della Croce rossa di Avezzano ha ospitato fino al 3 settembre una parte dei profughi arrivati con il ponte aereo: in tutto 1.320 persone di cui il 50 per cento donne, 220 nuclei familiari, 324 minori sotto i dodici anni. “Il campo di Avezzano è stato allestito per una prima accoglienza dignitosa a chi è arrivato con il ponte aereo ed è stato organizzato in modo da fare cominciare la quarantena a seconda dell’ordine di arrivo, le tende sono state suddivise per unità familiare”, dice Francesca Basile, responsabile immigrazione della Croce rossa che ha lanciato una raccolta fondi. Ai profughi è stata fornita assistenza sanitaria, vestiti e pasti caldi, infine sono stati vaccinati e sottoposti a tampone.

Mentre alcuni sono in fila per salire sugli autobus militari che li porteranno a destinazione e altri aspettano di sottoporsi al test per il coronavirus, incontro A. B., una ragazza hazara. È la figlia di uno dei leader del gruppo e in Afghanistan era una ciclista e una lottatrice di taekwondo. Ora vorrebbe continuare a fare sport, perché “è tutta la sua vita”. Mi mostra dei video sul telefono con le gare a cui aveva partecipato nel suo paese. “Potrò ancora allenarmi?”, chiede.

Chi invece è preoccupata per la sua famiglia che è rimasta in Afghanistan è F. S., che incontro all’interno di una tenda azzurra, seduta su una branda. Faceva la giornalista radiofonica nel suo paese e aveva lavorato anche con il contingente italiano a Herat. Sono stati proprio i militari italiani a contattarla dopo l’arrivo dei taliban per aiutarla a scappare dal paese: è riuscita a portare con sé suo marito, i suoi due figli e sua suocera, ma ha lasciato suo fratello che ora non ha speranza di uscire.

Le uniche cose che ha portato con sé sono delle foto: ci sono matrimoni, ragazzini in posa di fronte a palazzi storici, tutta la vita della famiglia in quegli scatti. “Mio fratello ha lavorato per gli americani, si aspettava di essere portato in salvo da loro, ma non ha ricevuto in tempo il visto e le indicazioni per uscire”, mi guarda con occhi stanchi. “Non mi darò pace finché saprò che è ancora lì”.

Alla fine di agosto sono arrivati in Italia circa cinquemila profughi dall’Afghanistan con un ponte aereo da Kabul: alcuni sono stati ospitati dall’hub di Avezzano nei primi giorni, altri in strutture del ministero della difesa e delle regioni, prima di essere trasferiti in diverse regioni italiane, ma secondo gli esperti non ci sono abbastanza posti nel sistema di accoglienza ordinario (Sai, ex Sprar), che dovrebbe accoglierli a causa dei tagli subiti dal settore a partire dal 2018. I posti nel Sai nell’ultimo anno sono diminuiti del 5 per cento. “Se bastano poche migliaia di persone per fare andare in tilt il sistema, è un problema”, afferma Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Il sistema dovrebbe essere subito allargato, sperando che i comuni offrano la loro disponibilità a collaborare, perché sappiamo che il Sai è un sistema a cui si aderisce su base volontaria”, conclude Schiavone. Intanto il Tavolo asilo, il coordinamento che riunisce tutte le organizzazioni italiane che si occupano di rifugiati, ha convocato una conferenza stampa l’8 settembre per chiedere al governo italiano di farsi promotore in Europa di un programma di reinsediamenti di profughi afgani, offrendo loro la protezione temporanea e pari trattamenti all’interno dell’Unione europea.

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Per sostenere il RAWA (Revolutionary Association of Women from Afghanistan) offriamo un’azione artistica condivisa:

Alberto Masala, col libro Taliban (a questo link la sua storia), introduzione di Jack Hirschman e copertina di Fabiola Ledda, in quattro versioni (Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo).

Marco Colonna,che ha composto l’opera L’ombra dei suoi passi, da lui eseguita al clarinetto con Giulia Cianca (voce), Mario Cianca (contrabbasso), Ivo Cavallo (percussioni).

Come per l’edizione di vent’anni fa, niente andrà a noi. Voi scaricate l’opera, libro e disco insieme, noi versiamo il ricavato al RAWA

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In Afghanistan è riapparso il terrore. Si torna indietro. Una volta aboliti i modesti progressi compiuti negli ultimi vent’anni, ancora una volta le donne vivranno nella paura, recluse, prede di stupri, lapidate, uccise. I talebani hanno già le liste di quelle da eliminare o vendere come schiave del sesso. Le bambine non torneranno più a scuola per paura di essere intimorite o perfino uccise, e, quelle che cresceranno, lo faranno senza libri, cinema, televisione, musica, destinate ad essere rinchiuse dentro il buio di un burqa, la loro definitiva tomba dove si potrà solo immaginarle vive. Brutalmente sottomesse al mehram (padre, fratello, marito)che ne scandirà il passo di tutta la loro esistenza.

Quel dominio maschile sarà totalitario. Avrà una marca omosessuale. E non mi si fraintenda: sto parlando dell’atroce deformazione patriarcale di un’omosessualità assolutista e omofoba, propria dei sistemi politico-religiosi che anche in Islam ha comunque tratto radici dalla nostra cultura cristiano-giudaica: feroce, maniacale, furiosamente oppressiva e violentemente escludente per le donne. La stessa delirante patologia che origina i femminicidi anche in Occidente. Talmente dolorosa per l’umanità da non meritare spazio per la comprensione né per alcuna giustificazione, e che si situa nello stesso orribile luogo del genocidio.

Non ha un centro la tenebra: difficile trovare parole capaci di raccontarla.

Già vent’anni fa l’ho fatto con voce e parola di donna. Ancora una volta affermo che, quando scrivo, trasvivo oltre me stesso per trasformarmi in ciò che sto scrivendo. Importa il risultato.
Impressionato dalla follia del sistema talebano, scrissi questi testi nell’aprile del 2001 con l’obiettivo di ricavare fondi per il RAWA,l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan attiva fin dal 1978, che clandestinamente ha assistito e sostenuto le donne con libri, medicine e aiuti di ogni genere. Eroicamente, a rischio delle loro vite.

Negli anni niente è cambiato.

Le parole di allora sono drammaticamente attuali, cambia solo lo scenario. Mentre scrivo, termina una guerra. Come ogni guerra mi ha visto distante dalle sue assurde motivazioni. Si preparano anni di dolore. Continueranno a cadere vittime innocenti. E follie religiose o idee di supremazia etnica ancora percorrono il mondo. Con gli stessi criminali che hanno consumato la terra, estirpato le foreste, contaminato i mari. Dietro queste idee si occulta il denaro del mercato dell’oppio, un oleodotto, i traffici delle mafie multinazionali, lo sfruttamento di un capitalismo assassino senza scrupoli. Questo è il potere del patriarcato.

Ma attenzione: non sono folli. Stanno soltanto freddamente difendendo il loro profitto.

Io non combatterò per loro.

 

Alberto Masala – 2021.

da qui

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