giovedì 19 settembre 2024

La scuola e la “congiura dell’ignoranza” - Francesco Coniglione

 

Diversamente da quanto si possa pensare – e cioè che la cultura e la produzione letteraria in genere siano un affare di secondaria importanza che poco incide sui processi di fondo di una società, specie quelli economici, ché “di cultura non si mangia” – è forse nel suo specchio che è possibile scorgere i movimenti (o sommovimenti) di più lunga durata, che caratterizzano una civiltà o un sistema di vita. Se ne ha una chiara dimostrazione nell’ultimo libro di Davide Miccione (La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, Valore Italiano Editore, 2024) di cui qui parliamo non tanto per la sua fenomenologica descrizione dell’avanzata dell’incultura nella scuola e nell’università, quanto per la tesi di fondo che in esso è presentata e che riguarda il più generale governo del Paese.

Se infatti ci fermiamo al primo aspetto – già in parte esaminato dall’autore in un suo precedente volume (Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, IPOC, 2015 e poi in nuova edizione, lettere da Qalat, 2022) – troveremo le note denunzie che hanno portato all’impoverimento culturale della scuola italiana, già variamente evidenziato da molti altri autori. Ma qui esse sono presentate come una sorta di ascesa graduale verso l’ignoranza che segue il giovane a partire delle prime frequentazioni delle aule scolastiche, con la burocratizzazione di ogni aspetto dell’attività educativa, l’invasione di format e test standardizzati propinate dall’INVALSI, l’irruzione di inafferrabili competenze che hanno finito per sostituire i contenuti disciplinari, la trasformazione del preside in grigio manager interessato solo alla “produttività” (ovvero non perdere alunni, altrimenti verrebbero abolite le classi) e all’organizzazione di attività e progetti che tra l’altro lo gratificano economicamente. Insomma una scuola (in particolare il liceo, nel quale l’autore insegna e del quale parla con cognizione di causa, anche nel descrivere succosi e paradigmatici episodi) da cui è progressivamente scomparsa la cultura, sostituita da performance basate su test, addestramenti, capacità digitali e forme varie di socializzazione e nella quale la preparazione e la cultura del docente a nulla valgono a fronte della “raccolta punti” a cui esso è ormai costretto col seguire distrattamente e senza profitto master e corsi di aggiornamento on-line abborracciati da enti di formazione privati, che di tale attività hanno fatto un business assai lucroso. Il tutto viene condito con parole accattivati come democratizzazione, partecipazione, merito, alla cui base v’è però lo scoraggiamento di ogni forma di selezione su di esso appunto basata. Ma così – nota l’autore – «la falsa democratizzazione della scuola italiana […], diventando più facile e meno formativa, è di fatto una scuola classista perché sposta la selezione dalla scuola alla società, una selezione che finisce per radicarsi nel differente ceto di provenienza».

Questo percorso involutivo non si ferma alla scuola superiore, ma si è trasmesso e affermato anche nel mondo universitario, a partire – per riconoscimento quasi unanime – dalla famosa riforma di Luigi Berlinguer (anche se formalmente presentata da Ortensio Zecchino) del 3+2 e dall’introduzione dei cosiddetti “crediti”, intervenute durante il primo Governo Prodi. Era l’introduzione nel mondo della cultura di concetti e temi cari al dilagante pensiero neoliberale, di cui la sinistra si era fatta pienamente carico pensando che solo così poteva avvenire la modernizzazione della società italiana: aziendalizzazione del sapere (con i crediti formativi, l’abbinamento di scuola/lavoro, poi fatto da Renzi, la valutazione competitiva dei docenti), la dipendenza delle scelte curricolari dai bisogni dell’industria, l’equiparazione fra scuola statale e paritaria, entrambe qualificate come scuola pubblica e poste sullo stesso piano, l’impulso dato alle università telematiche (che distribuiscono lauree e crediti in modo assai più “liberale” delle università statali). Chi non ricorda le famose “tre i” di Berlusconi (inglese, informatica, impresa)?

La conseguenza è stata una caduta verticale della capacità di lettura e comprensione del testo e della conoscenza della lingua italiana da parte dei giovani liceali, che alla faticosa e incomprensibile prosa dei manuali, per quanto possano essere semplificati, preferisce ormai schemi concettuali liofilizzati o spiegazioni orali tratti dalla rete: «Tutto congiura affinché il giovane studente universitario si limiti a seguire il valzer degli esami e ad uscirne il più presto possibile. Essere colto diventa a questo punto un’opzione personale e lievemente eccentrica, una bella e minoritaria mania». Ma, si badi, non si è trattato di un disegno della destra, giacché a questa direzione di progressiva desertificazione culturale hanno contribuito tutti i ministri e i governi da più di vent’anni; anzi, si potrebbe dire, le cose peggiori le ha fatte proprio la cosiddetta sinistra (si pensi alla “buona scuola” di Renzi con l’alternanza scuola/lavoro), nella pervicace subalternità al pensiero liberale e nello scodinzolamento funzionale ad accreditarsi nei confronti dei poteri confindustriali che, attraverso i loro think-tank, di fatto hanno diretto e ancora influenzano, a livello nazionale e internazionale, la direzione delle “riforme educative”. Sicché è naturale concludere che tale “congiura dell’ignoranza” non sia un accidentale incidente di percorso, una conseguenza preterintenzionale di intenzioni fondamentalmente positive, ma piuttosto «il target che la politica si è prefissata», il cui risultato atteso è «l’eradicazione […] dell’intellettuale come colui che ritiene suo dovere assicurare una lettura critica della contemporaneità», sostituito da un tecnocrate e da un “raccoglitore di punti” e – nel mondo universitario – dall’inseguimento degli indici bibliometrici.

Ma perché tutto ciò? Il motivo è strutturale e – come ha sostenuto il sociologo Jean Lojkine – risiede nel fatto che il capitalismo moderno ha ormai escluso anche i dirigenti da ogni forma di decisione strategica: «il potere si è trasferito molto in alto e tutti i dipendenti, compresi di dirigenti […] sono solo degli esecutivi. […] Un parlamentare, un sottosegretario, un ministro non decidono nulla. Accordi, trattati commissioni europee e organismi internazionali hanno già deciso la direzione politica da seguire, i funzionari del ministero si occupano delle questioni tecniche, il ministro deve solo dare corpo a queste decisioni e presentarle in modo che servano la propria reputazione, quella del proprio partito, quella del proprio Governo e, infine, che nei meandri delle applicazioni, si possano favorire quegli attori economici a cui la propria area fa grato riferimento». Non serve quindi avere degli intellettuali, che con la propria cultura possano costituire una forza frenante al meccanismo e alle procedure decise altrove, da quegli autentici “competenti” che si sono formati in scuole di alto prestigio e che fanno parte della classe dirigente internazionale. A livello locale servono solo buoni esecutori, politici senza cultura e iniziativa, il cui range di autonomia sarà limitato a quelle battaglie identitarie e di bandiera (LGBT+, immigrazione, aborto, diritti civili in genere ecc.) che nulla incidono sui rapporti di potere fondamentali e ai quali il potere finanziario internazionale è in sostanza indifferente. Infatti «un uomo di cultura verrebbe costantemente intralciato dalle proprie idee [e dalla] propria attitudine a ragionare invece che a eseguire. […] In una società a trazione tecnocratica essere moderatamente ignoranti e restare sempre dentro il perimetro della ragione strumentale è la presentazione ideale».

Ecco dunque il cuore pulsante che ha guidato il processo di progressiva desertificazione culturale (non solo italiana), il motore occulto che ha macinato provvedimenti che – presentandosi come riforme verso la qualità, il merito e il miglioramento della scuola e dell’università italiane – ne hanno segnato il progressivo declino culturale. I ceti dirigenti hanno le loro scuole e i loro percorsi universitari privilegiati a cui indirizzare i propri rampolli o dove cooptare i giovani più intelligenti, vogliosi di far parte della élite che decide. Al resto, a coloro che per possibilità economiche o per insipienza culturale e familiare non hanno capito come va il mondo, resta il ruolo di volenterosi servi, che magari riescono a ritagliare qualche nicchia di privilegio economico, ma che contribuiscono a perpetuare, ne siano consapevoli o meno, il meccanismo di dominio che ormai sembra governare il mondo, sino a spingerlo sull’orlo dell’apocalisse nucleare.

da qui

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