Ursula von
der Layen ha dedicato un’ampia parte dei 48 minuti e 20 secondi del discorso in
cui ha presentato la sua “strategic vision” per i prossimi cinque anni
davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria al tema delle sfide
ambientali, del cambiamento climatico, dell’energia pulita, del “suo” Green
deal (che ama come un figlio), del nascituro Clean Industrial
Deal promesso per i primi 100 giorni del suo mandato… Il secondo tema
per importanza è stato la Guerra. La guerra a cui dovremo prepararci
mentalmente e tecnicamente. E le Armi, che dobbiamo apprestarci a produrre su
scala incomparabilmente più ampia che in passato perché, così ha detto
testualmente, viviamo in un “mondo in cui tutto è armato e contestato” (a
world in which everything is weaponised and contested).
Pochi
l’hanno notato – quasi nessuno – ma il combinato disposto di questi due temi
nel medesimo discorso disegna il profilo pressoché perfetto della figura
retorica dell’ossimoro, ovvero di una locuzione che contiene in sé concetti
opposti, come “lucida follia”, “acuta ottusità”, “illustre sconosciuto”… O,
forse meglio, ci presentano la struttura mentale sostanzialmente bi-polare
della Presidente dell’UE (e dell’UE stessa), per metà dottor Jekyll, quando
promette caramellosa ai giovani un roseo futuro di serenità ambientale in un
pianeta pulito in cui condurre una vita finalmente riconciliata con la Natura,
e per metà Mister Hyde che quella vita gliela strappa (e quella Natura la
devasta) a suon di bombe danzando sull’abisso di un conflitto nucleare. Due
universi di senso – e di non-senso – coesistenti nel breve spazio di uno speech.
Basta, d’altra parte, un semplice esercizio di matematica per averne la
conferma.
La
contabilità ambientale della guerra
Sapete qual
è l’”impronta ecologica” di un proiettile di artiglieria da 155mm, i più usati
sui campi di battaglia ucraini? Un gruppo di esperti di
GHG, ovvero di Greenhause Gas o Gas ad effetto serra si è preso la
briga di misurarla e ha risposto che equivale a 136 Kg di CO2: parte per la
produzione dell’esplosivo, parte per le componenti in acciaio, altri Kg
liberati al momento dell’esplosione. Considerato che ognuno di noi, guidando
una vecchia diesel per una ventina di Km al giorno emette circa 2,6Kg di CO2,
ne consegue che un solo proiettile genera un inquinamento pari
a quello prodotto in un paio di mesi da un automobilista normale. Se si pensa
che nei primi mesi di guerra, dal giorno dell’aggressione fino alla battaglia
di Severodonetsk, nel giugno 2022, le truppe di Mosca avevano sparato circa
60mila colpi al giorno e gli ucraini quasi la metà, prima di
aver dato fondo alle scorte accumulate negli anni precedenti e a quelle
risalenti ai tempi dell’URSS, si ha la misura di quale pestilenza sia, anche
sul piano ambientale, quella guerra. Ora la neo Presidente dell’UE – dopo non
aver mosso un dito, come d’altra parte tutto l’Occidente, per fermare quella
pazzia, anzi avendo lavorato a soffiare sul fuoco -, propone di portare la
produzione di proiettili a più di 2 milioni di pezzi all’anno (una boutade,
naturalmente, dato che la capacità massima delle industrie belliche europee non
supera i 300.000 proiettili, forse raddoppiabili con uno sforzo estremo), ma
necessaria ad alimentare la retorica del sostegno all’Ucraina as long
as it take e perché “We must give Ukraine everything it needs
to resist and prevail”. Un progetto a sostegno del quale aveva comunque
lanciato, già lo scorso anno, il programma Asap (Act in support of
ammunition production) con lo scopo di finanziare con fondi del Bilancio
comune europeo la produzione di proiettili e missili, il quale ha già portato
alla stipula di 31 accordi finalizzati a sfornare 4.300 tonnellate l’anno di
esplosivi, 10 mila tonnellate di polvere da sparo, e centinaia di migliaia di
proiettili con i relativi involucri, facendo esclamare a uno zelante
funzionario del suo entourage che finalmente “siamo passati
dalla modalità pace alla modalità guerra”.
E’ la stessa
persona, si badi, che perfettamente coiffata da serafica damina del Settecento,
annuncia trionfante che “nel primo semestre di quest’anno, il 50% della nostra
produzione di energia elettrica è stata ottenuta da fonti rinnovabili,
autoctone e pulite” (mica gli orribili “dirty Russian fossil fuels”); e
conferma che per il 2040 avremo cancellato il 90% di quei catorci
insopportabili su cui si accaniscono ancora a viaggiare gli straccioni delle
campagne francesi (quelli che indossarono i gilet jaunes) o i
miserabili pensionati italiani. Ed è ancora lei – sempre lei! – indossato
l’elmetto, a invocare l’aumento tendenzialmente senza limiti della spesa
militare (“We need to invest more. We need to invest together”),
annunciando – blasfema – che “faremo come per i vaccini”. E proponendo come
esempio la costruzione di un “comprehensive aerial defence system”: uno
Scudo Aereo Europeo, “non solo per proteggere il nostro spazio aereo ma come
forte (strong) simbolo dell’unità europea in materia militare”, a cui si
dovrebbe affiancare il vasto lavoro di potenziamento delle “capacita di difesa
di fascia alta in settori critici quali il combattimento aereo” da realizzare
prelevando circa un miliardo di euro dallo “Strumento europeo per la pace” (sic!),
che peraltro ha già “mobilitato 6,1 miliardi di euro per sostenere le forze
armate ucraine con attrezzature e forniture militari letali e non letali” (parole
testuali di Ursula).
Non so se la
von der Layen in versione green abbia idea di quanto
costerebbe, in termini d’inquinamento, ciò che lei stessa in versione tuta
mimetica propone. Vale comunque la pena ricordarlo. Un F16 Falcon, di quelli
che Zelensky ha chiesto costantemente e che alla fine gli sono stati dati,
consuma circa 16.000 litri di carburante all’ora. Ovvero emette quasi 50mila kg
di CO2 per missione. Inquina dunque in un solo volo quanto 55
automobilisti diesel in un anno intero! Se gli 80 fight
jets promessi dall’Europa a Zelensky fossero usati ognuno anche solo
per una missione al giorno, produrrebbero ogni anno circa un miliardo e mezzo
di chili di gas serra, a cui si devono aggiungere quelli, enormemente maggiori,
prodotti dall’aviazione russa, dal movimento dei mezzi corazzati (un Abrams, un
Leopard 2, un T90 consuma circa 450 litri di carburante ogni 100 Km con
un’emissione di CO2 pari a 10 Kg al chilometro), dai tiri d’artiglieria,
dagli sciami di missili… E’ stato
calcolato che un anno di quella guerra tanto feroce
quanto assurda abbia comportato, in termini ambientali, l’emissione di oltre
120 milioni di tonnellate di gas serra. L’equivalente cioè di circa un quarto
del totale delle emissioni dovute a tutto il traffico automobilistico europeo
(500 milioni di tonnellate). Come a dire che, in un ipotetico bilancio
ambientale, se si riuscisse a fermare quella carneficina (anziché tentare di
prolungarla con ogni mezzo), si potrebbe ottenere fin da subito, qui ed ora, un
risultato pari a circa il 25% di quanto il green deal si
propone di realizzare – al prezzo dei tanti sacrifici e con l’ipoteca di un
probabile fallimento – in 16 anni. E simmetricamente per ogni anno in più di
cui si prolunga la guerra, si annulla una gran parte dei possibili risultati
del Green Deal e si vanifica il grosso dei sacrifici imposti
alla popolazione europea per realizzarlo. Tutto questo, bisogna aggiungere,
senza tener conto dell’enorme prezzo in termini di vite umane perdute,
centinaia di migliaia, su entrambe i lati del fronte, generazioni di giovani
sacrificate da classi politiche senza scrupoli. Ma esso non rientra nella
soglia di attenzione di chi siede a Bruxelles, come a Washington o a Mosca.
Greenwashing
– Un vizio sistemico
Vorrei
essere chiaro. Non si tratta, qui, solo dei limiti personali del ristretto
gruppo di notabili che stanno al vertice dell’Unione Europea. Della loro
offensiva doppiezza. Della loro inspiegabile cecità. Dell’incomprensibile
atteggiamento suicida con cui hanno portato il Vecchio continente, da un ruolo
importante di potenza culturale e di istanza mediatrice in ultima istanza,
all’irrilevanza politica e alla pulsione autodistruttiva. Si tratta di una
logica sistemica ben più ampia e diffusa quantomeno nell’intero Occidente,
consistente nell’uso retorico di quella che oggi è la più alta e drammatica
sfida alla nostra esistenza, la questione ambientale, per coprire e
giustificare pratiche sordide di segno ed effetto esattamente opposto. L’ultimo
grido nelle tecniche di marketing. Finito il tempo in cui i grandi
nemici dell’umanità, i saccheggiatori delle risorse del pianeta, praticavano il
negazionismo esplicito, minimizzando o occultando i danni prodotti alla Terra,
ora che l’evidenza non può essere negata si enfatizza la dimensione del rischio,
lo si sbatte in prima pagina, per continuare, come i vecchi Gattopardi, a fare
come prima, peggio di prima, presentando i propri vizi come rinnovate virtù.
La tecnica
ha anche un nome. Si chiama Greenwashing ovvero lavare il
proprio sporco nel verde (chiamato anche green lies, green
sheen o green marketing). Ne sono esempi
classici il caso della Chevron (il primo, risalente agli anni
’80) la quale lanciò una martellante campagna televisiva denominata “People
Do” per comunicare le proprie buone pratiche di sostenibilità nel
momento stesso in cui sversava petrolio in aree protette generando vere e
proprie catastrofi ambientali. O quello della Coca Cola la quale utilizzò per
la propria pubblicità il claim World without waste proprio
quando veniva nominata per la terza volta da Greenpeace “impresa più inquinante
a livello globale per quanto riguarda la produzione di plastica”, e fu per
questo portata in giudizio da Earth Island Institute. Stessa sorte toccata alla
nostra ENI, sanzionata per aver presentato falsamente il proprio Diesel+
come “ecologico, verde, sostenibile”. E naturalmente applicabile ai politici. A
tutti i politici. Compresi i Verdi. Anzi soprattutto i Verdi, a cominciare da
quelli che possono essere considerati la matrice originaria di quel movimento,
i Grünen tedeschi.
La mutazione
cromatica dei Grünen
La crescita
impetuosa delle pulsioni belliciste all’interno del loro vecchio involucro
ambientalista, è forse il fatto più sconvolgente nella politica tedesca (e non
solo) negli ultimi due anni e mezzo. La mutazione genetica dell’intero gruppo
dirigente Grüne dall’ eco-pacifismo delle origini, quando il
neonato movimento coniugava la difesa intransigente dell’ambiente contro lo
sviluppo incontrollato con quella altrettanto netta della vita contro la
minaccia della guerra, era stata iconicamente (e ironicamente) rappresentata,
già nell’aprile del 2022, dal principale Magazine tedesco,
“Der Spiegel”, col titolo di copertina Die Olivgrüne –
grigioverde diremmo noi, il colore delle divise militari – campeggiante
sotto l’immagine dei tre leader ex-pacifisti, Baerbock, Habeck, Hofreiter, in
tenuta da combattimento con elmetto, giubbotto antiproiettile e tuta mimetica.
A loro – indicati come quelli che hanno spinto il Cancelliere Scholz a rompere
un ulteriore tabù tedesco fornendo armi pesanti all’Ucraina – era dedicata
la TITELSTORY,
incentrata sulla “sconcertante”, così la definivano, constatazione secondo cui “invece
di fare la parte del pacifista all’interno del governo, invece di frenare,
ritardare e impedire l’invio di pesanti attrezzature belliche all’Ucraina, i
Verdi sono quelli che ne vogliono di più e quindi fanno pressione sui loro
partner, soprattutto sulla SPD” di Olaf Scholz. E culminante con l’imbarazzante
domanda: Was ist da passiert, bei den Grünen, mit den Grünen? “Cosa
è successo nei Verdi, con i Verdi?”
Per la
verità la prima rottura con l’identità dell’origine, ancora segnata da riflessi
sessantotteschi, risale indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni ’90.
Quando Joshka Fisher, primo ministro degli esteri Verde, diede via libera
all’uso dei Tornado tedeschi per bombardare Belgrado. La cosa gli costò un
sacchetto di vernice rossa in faccia, scagliato da un militante durante la
tumultuosa conferenza di partito di Bielefeld, e l’oltraggiosa equazione Grüne=Kriegstreiber (Verdi=Guerrafondai).
Il New York Times titolò “Mezzo secolo dopo Hitler, i jet tedeschi partecipano
all’attacco”. Ma era accaduto da poco il massacro di Srebreniza, le pressioni
del Presidente americano Clinton su di lui e sul cancelliere Schröder erano
state asfissianti. E la cosa passò come un caso limite, una sorta di “stato
d’eccezione”.
E’ però
soprattutto col 2022 – con la brutale rottura della situazione di precario
stallo sul confine orientale europeo prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina
– che la mutazione cromatica dei Grünen si rivela nella sua
dimensione sistemica e (apparentemente) irreversibile. E’ allora che la
ministra degli esteri verde Annalena Baerbock rompe gli indugi rispetto alla
precedente ritrosia (ancora a metà gennaio aveva detto al Bundestag “c’è solo
una soluzione, ed è la diplomazia”, e a fine mese aveva aggiunto ”Se si parla
non si spara”). E con un salto mortale improvviso, prende la guida del fronte
politico pro-guerra, spiazzando il più prudente Cancelliere Scholz e
schierandosi apertamente per la consegna di armi pesanti alla “resistenza
ucraina”. E da allora giocherà a essere sempre un passo avanti rispetto a tutti
gli altri sulla linea di armamento dell’Ucraina. E’ lei che il 21 aprile di quell’anno,
nei giorni in cui Bild accusava Scholz di tergiversare nell’invio dei Leopard a
Kiev, dichiara bellicosa che “There are no taboos for us with regard to
armoured vehicles and other weaponry that Ukraine needs“. E’ ancora lei a
proclamare, sulle pagine del “Guardian”, che per troppo tempo la Germania si è
affidata alla “diplomazia del libretto degli assegni” (“for too long
Germany had resorted to ‘chequebook diplomacy’”) e che è ora di passare
alla politica delle armi. Aggiungendo compiaciuta che “solo due anni fa, l’idea
che la Germania consegnasse carri armati, sistemi di difesa aerea e obici in
una zona di guerra sarebbe sembrata quantomeno inverosimile. Oggi la Germania è
uno dei principali fornitori di armi per l’autodifesa dell’Ucraina”.
Naturalmente
il suo non è un caso isolato. Buona parte dell’attuale gruppo dirigente del suo
partito è, con diverse sfumature, sulla stessa linea. A cominciare dal potente
Ministro delle Finanze e vice-cancelliere Robert Habeck, che quasi un anno
prima della conversione della sua collega Baerbock, dal Donbass allora ancora
segnato da una guerra civile a (relativamente) “bassa intensità”, aveva
dichiarato che “non si possono negare armi all’Ucraina”. Fino ad arrivare ad Anton
Hofreiter, “botanico, capelli lunghissimi e aria fricchettona” (così lo
definiscono su Repubblica), che da presidente della Commissione Europa del
Bundestag continua a “infastidire” il Cancelliere per incrementare l’invio di
panzer tedeschi in Ucraina. Passando per una figura eccentrica e brillante come
la trentasettenne Agnieszka Brugger, un piercing sul viso, capelli tinti rosso
fuoco, appartenente all’ala sinistra del partito, vice capogruppo,
un’appassionata adesione all’idea di una “politica estera femminista”, che
tuttavia non nasconde la sua recente passione per le armi, la tecnologia
militare e gli elicotteri navali, in forza della quale guida il processo di
rappacificazione tra Verdi ed esercito.
Chi sceglie
Baerbock, sceglie la guerra
Tra realismo
rassegnato e politica delle emozioni
Probabilmente
un passaggio interessante per capire questa trasformazione politica, culturale,
e in fondo antropologica, è costituito dal Congresso tenuto a Berlino nello
scorso novembre quando – come scrisse
sul Manifesto Marco Bascetta – i Grünen decisero
di riunirsi con “il motto più stupido che si potesse immaginare: ‘La nostra
ideologia si chiama realtà’”. Un’accettazione – malamente mascherata da uno
slogan criptico e tendenzialmente ossimorico – dello stato di cose esistente,
che tendeva a giustificare, senza approfondirli, i tanti compromessi imposti
negli anni più recenti dalla permanenza nel governo “semaforo”: le ripetute
deroghe a favore dei combustibili fossili e del nucleare indotte dalla crisi
energetica; l’indegna (per le solidarietà lacerate e le aspettative
tradite) contrapposizione – cito ancora Bascetta – all’ “imponente movimento
ecologista che si batteva per impedire l’allargamento (ritenuto peraltro da
diversi esperti inutile per il fabbisogno energetico del paese) della già
immensa miniera di lignite di Lützerath”; “l’allineamento alle ipotesi di
inasprimento del diritto di asilo e di trasferimento in paesi terzi dei
migranti in attesa di esame”… Verrebbe da dire che quanto più si esaurivano le
possibilità di rimanete fedeli al proprio programma fondamentale
“eco-rivoluzionario” e alla prima ragione del proprio esistere – per i sempre
più stretti vincoli di governo -, tanto più cresceva l’enfasi bellicista
trasformata in programma ideale capace di riscattare una crisi esistenziale
tendenzialmente terminale. Il che ci introduce, credo, a un nuovo, più profondo
livello di riflessione sulle ragioni della metamorfosi verde (e non solo), meno
legato alla contingenza istituzionale, e più affondato nelle radici stesse di
quel movimento (e nelle radici di tanti movimenti affini della seconda metà del
secolo scorso).
Il furor
sacro che agita le menti di buona parte degli esponenti di un movimento fattosi
Partito e poi Partito di governo, ha a che fare – secondo alcuni interpreti non
sprovveduti, soprattutto tedeschi – con l’imprinting moralistico,
o moraleggiante che ne ha caratterizzato l’approccio con la politica e l’azione
collettiva fin dalla nascita. Una “politica dei valori” – così la chiamano -, o
forse meglio una “politica delle emozioni”, contrapposta alla “politica degli
interessi”. Una visione degli eventi, e dei propri compiti, in cui il valore
assoluto dei principii cancella ogni altra argomentazione di opportunità e di
rischio. In cui la potenza morale dell’atto istantaneo assorbe le valutazioni
di contesto e di processo. Soprattutto in cui l’ostentazione dei valori rischia
di essere “solo una facciata per una politica di potere aggressiva e
conflittuale, guidata da un senso di superiorità morale”. Di qui nascerebbe
quell’”etica delle armi” che rimuove dal campo dell’argomentazione ogni valutazione
sulle conseguenze di quell’impiego distruttivo, ogni considerazione di ordine
geopolitico, ogni rilevanza degli interessi propri e altrui. Fiat
justitia, pereat mundus. Così come finiscono per scomparire le ragioni
storiche, le cause disseminate lungo processi non lineari, in cui la verità non
è così lampante come viene raccontata. Il tutto nella convinzione di essere,
senza se e senza ma, senza un dubbio o un ripensamento, dalla parte del Bene,
perché così è, nell’Origine. Qual è il prezzo che l’Europa paga per questa
guerra così infinitamente prolungata, in termini di accesso alle materie prime,
di collaborazione economica lacerata, di costo dell’energia, di caduta di
domanda, di qualità della vita? Qual è il prezzo della Germania, la più colpita
da questa lacerazione di un processo d’integrazione ventennale? Perché mai
dovrebbe abbozzare alla distruzione di una delle sue arterie vitali, quel North
Stream distrutto da un attentato ucraino e forse anglo-americano senza che quel
governo possa levare nemmeno un gemito di protesta? Fino a quando, ci
chiedevamo, l’opinione pubblica tedesca avrebbe potuto subire in silenzio tutto
questo?
La risposta
è venuta dalla recenti elezioni. L’occasione in cui la “politica delle
emozioni” si schianta sulla “politica degli interessi” del popolo sovrano. E
dalle urne è uscito il mostro che a lungo era stato tenuto in gestazione. In
Turingia, dove AfD ha preso il 32,8% (10 punti in più della CDU) e BSW di Sarah
Wagenknecht il 15,8%, i Grünen sono andati sotto la soglia di
esclusione con il 3,2%. In Sassonia sono entrati per un pelo, col 5,2%, contro
il 30,6% di Afd e l’ 11,8 di BSW. E’ un segnale potente. Se durerà ancora molto
questa guerra, con la crisi che si trascina con sé e il crepuscolo dell’Europa
che l’accompagna, la prossima volta sarà peggio. Molto peggio. Sotto le ali da
Angelus Novus di Ursula resterebbe non l’Europa risanata e “pulita” che promette
ma un panorama di rovine.
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