lunedì 30 settembre 2024

La finanziarizzazione della natura - Paolo Cacciari

 

L’obbligo di sottoscrivere una polizza contro rischi naturali è da tempo una richiesta delle classi dirigenti globali. La natura, già ridotta a capitale nella contabilità di imprese e stati, diventa sempre di più merce di scambio intermediata dalla finanza. Intanto cresce il mercato “al dettaglio” per assicurarsi i clienti finali e quello “all’ingrosso”, tra le grandi compagnie di assicurazione, gran parte delle quali si divertono da tempo a giocare in borsa tra loro. Abbiamo bisogno di rilanciare una nuova stagione di finanza critica che reinventi i principi e le pratiche del mutualismo, per costruire relazioni solidali e pratiche cooperative fuori mercato in grado di affrontare le fragilità delle nostre vite. La cura e la manutenzione del territorio, scrive Paolo Cacciari, fanno parte di queste attività non lucrative.


 

Con la assicurazione obbligatoria dei rischi ambientali il cerchio della finanziarizzazione della natura si chiude. La natura, già ridotta a “capitale naturale” nella contabilità nazionale, ovvero stock di servizi ecosistemici da includere negli asset patrimoniali delle imprese, diventa a tutti gli effetti merce di scambio intermediata dalla finanza. La shock economy (già ben descritta da Naomi Klein al tempo dell’uragano Katrina a New Orleans) è un potente mezzo per drenare denaro dai “risparmiatori”, ricavare profitti e far crescere il Pil.

Perché preoccuparsi di prevenire i danni alle cose e alle case se poi, con gli indennizzi, le si possono riavere più belle di prima? È questa la logica che muove l’economia della crescita. Se manca l’acqua desalinizziamo quella del mare. Se è inquinata beviamo quella minerale. Se c’è troppa CO2 in atmosfera catturiamola e rimettiamola nel sottosuolo. Se manca il gas russo costruiamo centrali nucleari. Se non ci basta il sole che abbiamo sulla nostra testa andiamo a costruire centrali a concentrazione nel Sahara. Se il mare inonda le coste facciamo come Giacarta (Indonesia) costruiamo una nuova capitale più in alto (per la cronaca, si chiama Nusantara). Se ad andare sotto acqua è Venezia, val la pena costruire un Mose da sei miliardi di euro e centodieci milioni l’anno di manutenzione. E così via, nel nome dell’innovazione scientifica e del progresso.

Ma per “ricostruire” bisogna che il sistema accumuli prima le risorse finanziarie necessarie. È questo il compito assegnato alle compagnie di assicurazione. La cinica privatizzazione dei rischi è un fenomeno crescente che l’economista Luigino Bruni tempo fa definì «ipertrofia assicurativa, “assicurarizzazione” del mondo, e cioè il progressivo e veloce allargamento dell’area della vita sociale (sanità, scuola, welfare…) coperta da contratti assicurativi». Con il risultato di spaccare ancora di più la popolazione tra chi si può permettere assicurazioni “integrative” e chi no, e di mandare in frantumi quel poco che rimane della mutualità disinteressata comunitaria e pubblica (garantita dallo stato e da un sistema fiscale equo e proporzionale).

La assicurazione contro le “calamità naturali” è stata incoraggiata anche dall’Onu (vedi i Principles for Sustainable Insurance) e dall’Unione Europea nell’ambito delle strategie di “resilienza” e “adattamento” delle aziende e dei territori ai cambiamenti climatici. I nostri ministri sovranisti Musumeci e Giorgetti non si inventano nulla che non sia già stato richiesto dalle classi dirigenti globali.

Ma, fino ad ora, le raccomandazioni lanciate dai decisori politici in fuga dalle loro responsabilità non hanno avuto grande ascolto. Infatti, le compagnie di assicurazione sono state molto “prudenti” di fronte al crescere degli eventi estremi metereologici (alluvioni, frane, incendi, ecc.), nonché dei contenziosi che inevitabilmente si aprono sulle responsabilità umane nella gestione delle infrastrutture e nell’uso scellerato del territorio, che non hanno nulla a che fare con la “violenza” della natura. Da qui polizze alte e premi che non indennizzano determinati rischi. Ora la obbligatorietà per legge (come avviene per gli incidenti automobilistici) porterà sicuramente maggiore serenità e “coraggio” nei consigli di amministrazione delle compagnie di assicurazione. Esse, comunque, sono da tempo corse ai ripari ri-assicurandosi a loro volta. Si è così formato un doppio mercato: uno “al dettaglio” per i clienti finali, l’altro “all’ingrosso”, per le stesse compagnie di assicurazione (pensiamo a Axa, Allianz, Aviva, Legal & General, Generali). Inoltre, le grandi compagnie sono quotate in borsa e hanno imparato a “giocare” su sé stesse. Da tempo circolano titoli di risparmio detti “Catastrophe bond” (Cat bond, “obbligazioni catastrofe”, indice del settore lo Swiss Re Global Cat Bond). La Banca Mondiale ha insegnato come si fa ad usarli durante il Coronavirus finanziando in questo modo il progetto Pandemic Emergency Financing Facilithy. Nel casinò delle borse, con i titoli “derivati” (che sono forme sofisticate di assicurazioni) si guadagna anche sulle sciagure altrui. Si può scommettere (tanto al ribasso quanto al rialzo) sull’eventualità che si verifichino determinati eventi catastrofici (epidemie, uragani, terremoti, maremoti, crisi idriche, ecc.) in determinati luoghi. Se non accade nulla, chi ha comprato i bond partecipa all’extraprofitto realizzato dalle compagnie di assicurazione e riceve una cedola monetaria oltre al premio assicurativo – spiega il Sole 24Ore – se invece l’evento si verifica proverà la prossima volta (sempre che io abbia capito bene). Rosso o nero; rien ne va plus.

«Che fare allora? – si chiedeva Luigino Bruni, su Avvenire qualche anno fa – Vedo due strade, una interna e una esterna al mondo assicurativo. Le assicurazioni, non dobbiamo dimenticarlo, sono nate come strumenti a garanzia soprattutto dei più fragili e dei più vulnerabili: all’origine è stato così. Oggi c’è bisogno di rilanciare una nuova stagione di assicurazione etica, sulla scia del Nobel M. Yunus, che sta inventando assicurazioni per i poveri, con premi di pochi dollari. Le società assicurative sarebbero per natura imprese civili, cioè non a scopo di lucro, proprio perché i contratti che vendono hanno a che fare con un bene primario, proteggersi contro la vulnerabilità cattiva devastante, e renderla più sostenibile; un bene che è un diritto fondamentale di ogni persona, e non si dovrebbe speculare sui diritti fondamentali dell’uomo. Ciò non è fantascienza (come verrebbe da dire oggi pensando a chi ha in mano le grandi imprese assicurative), ma democrazia e libertà». La seconda strada – complementare – consiste nel non illudersi che possa esistere una vita a “rischio zero”. Le nostre fragilità e vulnerabilità vanno affrontate costruendo relazioni sociali solidali, pratiche mutuali, azioni cooperative “fuori mercato”. La cura e la manutenzione del territorio fanno parte di queste attività non lucrative.

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