Tra una manciata di settimane, né ridendo, né scherzando, sapremo chi è il
nuovo padrone del mondo, o almeno di una parte considerevole del mondo, cioè il
nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Come avviene ogni quattro anni,
assistiamo un po’ stupiti e un po’ atterriti allo spettacolo d’arte varia delle
elezioni americane, il che è bello è istruttivo, perché non c’è italiano – dai
banchi del mercato ai commentatori più accreditati – che non diventi per
qualche giorno esperto di Ohio, occhiuto osservatore delle dinamiche sociali
del Michigan, esegeta della Florida. Una specie di “presidenziali for dummies”,
insomma, che è un po’ quel che accade nelle grandi aziende, quando il
magazziniere, l’autista o l’uomo delle pulizie assistono alla nomina del nuovo
amministratore delegato, che guadagna quarantamila volte di più. Le loro vite
dipenderanno da lui, ma il loro potere sulla scelta di chi comanderà è meno di
zero.
Ad attrarre l’attenzione verso questa grande festa della presa del potere
nello Stato più potente del mondo contribuiscono certo anche elementi
prepolitici – o post-politici, se preferite. E cioè la trasformazione delle
elezioni americane in un baccanale pop in cui la democrazia si misura su questo
o quel vip che si schiera, sull’entità delle donazioni di centinaia di
milionari che puntano sul loro cavallo, su cosa dirà Taylor Swift, sulle
geometrie variabili degli oligarchi e delle mega aziende, su promesse
bislacchissime. Insomma, un miscuglio fascinoso e inestricabile tra l’Isola dei
famosi, la notte degli Oscar e lo scenario geopolitico mondiale, aggravato dal
fatto che uno dei concorrenti, mister Trump, ha già fatto il diavolo a quattro
l’ultima volta, con tanto di assalto al Congresso e tifosi con l’elmetto di
corna armati fino ai denti.
Viste da qui, poi, dalla periferia dell’Impero, dalla colonia pittoresca ma
fedelissima, le elezioni americane consentono un simpatico tifo da stadio. Pare
ovvio essere contro Trump, sostenuto apertamente quasi solo dall’estremismo
salviniano, e sottotraccia da gran parte della destra, mentre per Kamala si
spellano le mani gli onesti democratici del Paese, tra parentesi gli stessi che
fino a un paio di mesi fa dicevano che Biden era in forma smagliante,
praticamente un giovanotto. Bello, edificante, ma tutto teorico, perché
alla fine, chiunque vincerà, chiunque entrerà alla Casa Bianca, noi andremo a
baciare la pantofola al nuovo imperatore, lo faranno i patrioti post(?)fascisti
oggi al governo, e lo faranno i democratici oggi all’opposizione se dovessero un
giorno andare al governo, proprio come le tribù mesoamericane portavano doni e
sacrifici umani a Montezuma. Del resto, l’Impero ha qui le sue basi e le sue
bombe, e soltanto tre dei suoi fondi d’investimento gestiscono un quinto di
tutti gli investimenti del mondo. Vengono qui a far la spesa quando vogliono (è
notizia di ieri che Blackrock si è comprata il tre per cento di Leonardo, e già
possiede pezzettini non piccoli del sistema bancario italiano), e la “patriota”
Meloni ha venduto a un’azienda Usa la rete Tim, che sarebbe un’infrastruttura
strategica. Assisteremo dunque a una partita il cui risultato è
rilevantissimo eppure irrilevante, perché la nostra fedeltà all’Impero non è in
discussione, cosa che ci viene ripetuta ogni giorno, incessantemente, a volte
come monito, a volte come lusinga e a volta come minaccia. In definitiva, si
elegge il nostro capo, noi non votiamo, possiamo fare il tifo, ma chiunque sarà
gli obbediremo.
Nessun commento:
Posta un commento