Goffredo Fofi ci ha mandato queste riflessioni inquiete. Le pubblichiamo perché ci esortano provocatoriamente ad aprire un dibattito su di noi, senza nessuna pretesa di interpretare un evento terribile né di dire una verità su una giovane vita o la tragicità del crescere. (Gli asini)
“L’estate sta finendo
/ e un anno se ne va/ Sto diventando grande / lo sai che non mi va” diceva una
canzone balneare di molti anni fa, parlando per voce di un ragazzino.
Ma “l’estate” è già passata, e siamo da tempo all’inverno – l’inverno del
pianeta o, con maggiore certezza – del genere umano, e di questo sembrerebbe
che si rendano conto, con palese o segreta immediatezza, piuttosto i giovani,
gli adolescenti, che non gli adulti. I quali non cessano di pontificare, per
bocca di filosofi e psicologi e teologi e quant’altro, sul disagio dei più
giovani, pronti a sparare le loro miserabili cartucce a ogni, ricorrente e
spaventante, fatto di cronaca che questo disagio dimostra in modi sanguinosi e
quasi sempre dall’interno dell’istituzione fondante e centrale della società in
cui viviamo, la famiglia.
La “sacra famiglia”, dissacrata vertiginosamente dalla società dei consumi
e da altre “virtù” repubblicane che, tutte, hanno al loro centro – anche quando
dicono il contrario – il Dio Denaro. L’orrore suscitato da certi fatti di
cronaca come quello che ha sconvolto poco tempo fa (ma davvero in profondità?)
una cittadina lombarda che chi scrive ha conosciuto durante gli anni delle
ultime lotte operaie viene facilmente rimosso dalle spiegazioni e dai consigli
degli esperti, primi fra tutti giornalisti-teologi e soprattutto i
giornalisti-psicologi.
Sì, chi mai studierà quanto male hanno fatto e continuano a fare gli
psicologi con le loro spiegazioni facili-facili e i loro ipocriti consigli alle
famiglie e agli insegnanti? Con la loro super-presenza di guru che, beati loro,
sanno tutto di come funziona la psiche umana e di conseguenza la società?
Ricordo con disagio la grande voga, e le grandi speranze suscitate nel
declino del movimento del ‘68 dalla corsa di tanti giovani ex-militanti alla
facoltà di psicologia di Padova – speculare a quella di altre corse, certo meno
dannose, alla facoltà di sociologia di Trento.
Se i secondi volevano inizialmente capire il contesto in cui maturavano le
lotte, o avrebbero dovuto maturare, i primi volevano, più che prevenire,
guarire, ed è stata la scuola l’ambito in cui hanno prosperato e dove, credo,
hanno fatto dei danni. E continuano a farne.
I trionfi della sociologia e della psicologia, diventate ben presto
linguaggio comune e giornalistico, furono fragili e transitori.
Della psicologia vi furono bensì risultati positivi evidenti sul fronte
della psicologia clinica grazie a personaggi come Basaglia o Jervis e ai gruppi
“militanti” di cui essi furono riferimento e portavoce, mentre la sociologia,
dopo Ferrarotti e il grande Gallino, si fece fottere dalla superficialità
dell’antropologia applicata al presente, non come scienza ma come costruzione e
diffusione di nuovi luoghi comuni, favoriti dalle astuzie dell’università. Che
si fece, nonostante il ‘68 e forse con il suo aiuto, sempre più strumento della
politica perché chiamata a sostituire ossessivamente il pensiero politico: il
rimando alla politica avrebbe potuto stimolare pratiche turbative del “normale”
funzionamento del Potere.
Dunque: deriva giornalistica (ah, “gli esperti” chiamati da radio e
televisione a spiegare i “misteri” della società e dell’animo umano!), deriva
pedagogica poiché la diffusione degli psicologi nella scuola ha prodotto
un’estrema superficialità degli interventi, e deriva anche scientifica, ché le
facoltà di sociologia e di psicologia sono servite da allora a formare dei
maestrini del consenso e non del cambiamento positivo della umana convivenza,
con la scusa che era la deriva della politica ad aver lasciato il campo alle
pratiche più scialbe o più abbiette.
Nella derisione di quegli ideali che quanti si occupano di cosa pubblica
dovrebbero avere per base, discussi e ridiscussi nelle loro istanze ma
sostituendo agli ideali di cambiamento quelli di funzionamento, nella logica
ossessiva della spartizione dei poteri.
Oliare l’ingranaggio è diventato da allora il compito che viene di fatto
attribuito alla pedagogia, alla psicologia, alla sociologia da un potere che è
democratico nei limiti del “generone” formato da un ceto medio sempre più
numeroso e sempre più prepotente.
E come al tempo di Molière è opportuno inventare o ingrandire o
specializzare i mali per dare spazio agli “esperti”, ai consiglieri che sanno
tutto e lo spiegano ai maestri e professori che nonostante faccia parte anche
quello del loro mestiere (capire gli allievi, aiutarli a conoscersi, assisterli
nelle loro difficoltà a capire e a capirsi e di conseguenza a costruirsi e
scegliersi) preferiscono o sono spinti ad affidarsi all’”esperto”, alla
psicologa o allo psicologo pagato per capire e per consigliare.
Sì, ci sono spiegazioni sociologiche per questo sistema – prima di ogni
altra cosa la “cetomedizzazione” delle classi di una volta, nel controllo dei
consumi e nella non-varietà delle scelte possibili. Non ci sono più operai e
contadini o sono cambiati enormemente così come non ci sono più le botteghe dei
“mastri” e dei commercianti di un tempo.
Tutti uguali di fronte a un capitalismo livellatore, ma con l’illusione
residuale di contare qualcosa perché si sceglie un prodotto al posto di un
altro, perché si vota come si vuole scegliendo tuttavia tra proposte simili di
gruppi e candidati simili nella sostanza ma conflittuali tra loro per il
dominio.
Lasciamo i potenti di Roma e Milano, per così dire, e soprattutto degli Usa
del super-Capitale della grande finanza – i padroni del mondo, con la loro
tremenda capacità di imporre al mondo i loro messaggi, i loro modelli –
fermandoci però un attimo a considerare la cultura divenuta schiava
dell’economia, con l’ossessiva convinzione (e conseguente predicazione) dei
suoi turiferari che esiste un unico modello possibile di società, “un’unica
proposta di vendita”, con le varianti dei ritardi consustanziali alla
“arretratezza” dei più di cui ci si ostina a considerare arretrate le ideologie
fondanti (e magari per certi aspetti lo sono), che si muovono bensì in un
perdente confronto sul piano dei consumi e anche per questo cercano una trincea
su quello delle culture.
Tutto sembra dunque giocarsi sul piano dei consumi e non su quello delle
idee, dei modelli politici – che non hanno insistito sui modi possibili di
inventare il nuovo o semplicemente di dare il peso necessario ai valori che
dovrebbero, da secoli, continuare a essere basilari – diciamo la “libertà,
uguaglianza e fraternità” proposte dalla Grande Rivoluzione e da molte delle
rivoluzioni che le hanno poi fatte proprie, anche se troppo spesso li hanno
applicati parzialmente e superficialmente.
Non si può dire basta alla Politica se non in nome di una Politica nuova e
diversa, ma si può dire basta alla Politika, alla mala arte di governare da
parte di classi che nelle spietate lotte per il potere si sono proposte e
imposte come “dirigenti”.
Quanto si è detto è suggerito fondamentalmente dallo sconcerto, dal
ribrezzo, dalla paura che fatti come quello di Paderno Dugnano suscitano in
noi.
La pedagogia oggi non riguarda il campo dell’insegnamento, della formazione
di individui coscienti e responsabili, bensì l’addestramento alla accettazione
del mondo così come è da parte delle nuove generazioni, dei “nuovi nati”.
Abbiamo alle spalle letture insegnamenti esperienze (abbiamo avuto alle
spalle maestri veri e radicali) che ci hanno resi assai diffidenti di fronte
alle chiacchiere dei sociologi e psicologi “di regime”, che si scatenano in
consigli fritti e rifritti dopo ogni luttuoso e spaventoso fatto di cronaca,
per darci delle spiegazioni affrettate e superficiali, a qualcosa che ci
sconcerta e spaventa e che ci si ostina a definire “inspiegabile”. Un amico
francese di tanti anni fa – il cui esempio è stato seguito ma non ricordato da
tanti professoroni e professorini, a Parigi come in Italia – scrisse un
pamphlet intitolato L’extricable. Ed è una sociologia onesta (da
Francoforte a Berkeley) quella che ci ha aiutato – più della morale dei
filosofi e dei teologi – a capire qualcosa del mondo in cui abitavamo e
abitiamo.
Prima di tutto una sociologia, non una psicologia e neanche una pedagogia,
anche se di entrambe avremmo estremo bisogno – una sociologia che studi
l’economia e i suoi effetti sulla società, e però una sociologia attiva,
che solleciti una militanza – sociale, pedagogica e infine politica.
Siamo tutti più o meno (nonostante le giuste convinzioni degli “operatori
sociali” di essere utili, una categoria alla quale non ci vergogniamo affatto
di appartenere, anche se dimostra troppo spesso una ipocrisia di fondo,
un’abusiva auto-valorizzazione di fondo) schiavi di una società capitalistica
che sta portando il pianeta alla sua fine. Siamo tutti prigionieri dello
spettro – mai così concreto, anche se più presente negli incubi della notte che
nella trasandatezza del giorno – della “fine del mondo” per ragioni ecologiche
o militari. Denaro e potere, in mani criminali anche quando inconsapevolmente
suicide.
I terreni su cui possiamo intervenire sono pochi e ristretti, e sono
terreni di resistenza più che di proposta, sono più che altro pedagogici e,
ancora più genericamente, culturali.
Eppure è di politica che dobbiamo tornare a parlare, se vogliamo dare agli
adolescenti come il pluriomicida di Paderno Dugnano una ragione per vivere e
qualcosa di grande per cui vale ancora la pena di lottare, per non sentirsi
superfluo e “incompreso” (e mi sembra impossibile non pensare – in una visione
più ampia o più “borghese” e da cinema horror – al titolo del grande romanzo
famigliare di Florence Montgomery Incompreso, anche se davvero
non si direbbe che fosse questo il caso del ragazzo assassino di Paderno
Dugnano: un “incompreso” tremendamente di oggi. Incompreso non solo dalla
famiglia anche dalla scuola, anche da tutto il resto – dal “consumo” che lo ha
prodotto…).
È alla “politica” come definizione di ideali collettivi convincenti, di una
visione della società concreta e non solo ideale, che dobbiamo pensare e
tornare, costruendo gruppi e promuovendo gruppi e
lotte su obiettivi condivisi e sentiti come essenziali.
Senza una nuova idealità e un conseguente sforzo organizzativo, senza la
concretezza dei gruppi e delle lotte, e diciamo pure senza una politica, senza
lotte e organizzazioni da far nascere e crescere nel concreto delle rivolte,
dei “no”, non servono sociologi e psicologi, nonostante ve ne siano tra loro,
anche se rari, di coscienti e di moralmente avvertiti e responsabili. E però
servirebbero se non si facessero manipolare e corrompere come oggi
massicciamente accade, per un piatto di lenticchie o peggio, per un articolo (o
una citazione) su “la Repubblica”.
Torno al passato, per estrarne una morale che è stata di ieri e che mi
sembra oggi pur sempre attuale così come sarà ancora attuale domani e sempre:
citando il Brecht del lontano 1935 il quale, esagerando perché la “cultura”
contava anche allora e ancora più conta oggi nel confronto con l’economia, osò
comunque gridare a un congresso di intellettuali di sinistra: “Compagni,
parliamo dei rapporti di proprietà!”.
In altri termini, agiamo politicamente nei modi che ci sono possibili,
lottiamo, non accettando lo stato delle cose in nome del nostro futuro e più
ancora di quello dei nostri figli, che possano ancora imparare qualcosa dalle
nostre lotte così come noi avremo da imparare dalle loro.
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