Nei pochi mesi che ci separano dalle elezioni americane nuovo sangue deve essere versato in Ucraina. Kamala Harris ha bisogno di rincuorare il suo elettorato bellicista con qualche vittoria tattica ucraina che tutti, strateghi militari e non, sappiamo bene non avranno influenza sulle sorti della guerra. Banali ragioni elettoralistiche da un lato, dall’altro la sofferenza, la perdita di vite, giovani che tornano senza arti dai campi di battaglia. Mi domando se la società civile è consapevole della cinica immoralità che governa la politica occidentale. Dopo due e mezzo di guerra e di perdite militari e civili, Mosca se anche lo volesse non potrebbe porre fine al conflitto se non avrà ricevuto garanzie almeno sui punti fondamentali: Ucraina demilitarizzata e neutrale, regioni russofone alla Russia o con garanzie concrete di autonomia regionale e linguistica. Non potrà accettare un cessate il fuoco temporaneo che permetta all’Ucraina di riorganizzarsi militarmente e economicamente per una nuova offensiva.
Trump si è esposto in numerose occasioni affermando di voler porre fine a
una guerra che spreca miliardi e influisce negativamente sulla qualità di vita
degli statunitensi. I guadagni ci sono eccome. Essi sono geo-politici e di
potenza grazie al vassallaggio dell’Europa, economici per le oligarchie
energetiche e delle armi, e in quanto con la destabilizzazione alla frontiera
orientale dell’Europa e del Medio Oriente Washington mette barriere allo
sviluppo economico delle potenze del surplus, Cina in primis, augurandosi, con
una visione da struzzo, di ritardare l’erosione del predominio del dollaro.
Trump non ha tuttavia gli interessi di Biden e del suo famigerato figlio in Ucraina,
ha finanziatori che non coincidono con quelli del Partito democratico,
difende il capitalismo del fossile e i perdenti della globalizzazione. Potrebbe
quindi essere interessato a far rientrare i capitali per investimenti nel
Paese. Il problema è comprendere se le agenzie di sicurezza e l’apparato
militare industriale gli permetteranno come in Afghanistan un cambio di
politica: la concessione della neutralità all’Ucraina, l’abbandono militare di
Kiev negoziando in cambio una presenza economica e foriera di ritorni per
Washington. Mosca potrebbe rinunciare alle conquiste territoriali per
un’Ucraina neutrale, demilitarizzata e federale. Naturalmente questo
implicherebbe una rinuncia occidentale a minacciare il “regime change” a Mosca
e un impegno a far cadere le sanzioni.
Ancora oggi ho letto l’editoriale di un collega sulla “Stampa” che torna a
sostenere l’esigenza di un impegno maggiore militare statunitense e europeo a
vantaggio dell’Ucraina in quanto a suo avviso in questo modo Kiev perverrebbe
alle negoziazioni da una posizione di forza. Purtroppo questa dichiarazione a
me pare senza fondamento. La forza della Russia è oggettiva se paragonata a
quella di un Paese fallito economicamente e tenuto in vita artificialmente
dall’Occidente. Gli aiuti militari occidentali non possono capovolgere le sorti
di sul campo militare a meno che la NATO non invii le sue truppe, non entri in
campo con la sua aeronautica e non dia inizio a un’escalation che concretamente
porterebbe, in caso di possibile sconfitta, la Russia a utilizzare l’arma
nucleare tattica in Ucraina.
Le incursioni ucraine a Kursk, gli atti di terrorismo contro i civili russi
non possono che scatenare reazioni a svantaggio di Kiev, bombardamenti su
infrastrutture civili che comportano sofferenze per la popolazione. Mi dispiace
che il mio collega non abbia l’onestà intellettuale per sottolineare che le
reazioni di Mosca sono molto al di sotto delle sue capacità e che se Putin
“considerato criminale di guerra dalla CPI” non avesse scrupoli potrebbe radere
al suolo Kiev come è stato fatto in passato a Dresda. La retorica che
l’aggredito può con l’aiuto dell’occidente colpire il territorio
dell’aggressore e che non ci sia quindi differenza tra difesa e aggressione si
basa purtroppo su un’impostazione molto parziale. L’espansionismo della NATO,
che include quello che un tempo era il cuore della Russia, l’Ucraina, non
costituisce un’aggressione come l’imminente spedizione ucraina nei territori
russofoni secondo alcuni stimati colleghi. La difesa dell’aggredito militarmente
sarebbe sempre giustificata, quindi Cina e Russia avrebbero dovuto inviare armi
e pilotare con l’intelligence le operazioni di guerra in difesa di Afghanista,
Irak, Libia. Se seguiamo questa logica gli scenari internazionali si
trasformerebbero in una polveriera. Mi sorprende che diplomatici di esperienza
possano utilizzare espressioni così superficiali, quasi slogan propagandistici
che poco hanno a che vedere con l’analisi delle relazioni internazionali.
Come Zelenski anche Netanyahu, oltre a compiere una carneficina ed essere,
lui sì, un criminale di guerra (Lancet 40.000 morti registrati negli ospedali,
200.000 stimati sotto le macerie e in decomposizione per strada), sta
palesemente cercando di allargare il conflitto con una guerra all’Iran. Le
ragioni di potere di Netanyahu sono alla base di conflitti che non hanno una
ratio strategica. Anche in questo caso abbiamo da un lato l’opportunismo
politico di personaggi immorali, dall’altro il sangue degli innocenti. Nella
società civile europea nessuno sembra farci troppo caso, il nostro governo
esprime sostegno e solidarietà a Israele mentre è in corso la campagna di Gaza.
In modo farsesco Blinken, seguito dai vassalli e anche da Tajani, chiede
tuttavia a Israele moderazione, e una risata amara non può non apparire sui
volti dei cittadini che ancora conoscono l’empatia per le vittime.
Finora le continue provocazioni di Israele non hanno sortito gli effetti
auspicati. L’escalation grazie alla saggezza de cosiddetti “stati canaglia”
come l’Iran non si è verificata. Le diplomazie e i contatti tra servizi segreti
sono riusciti a mantenere lo statu quo. Non credo Biden abbia bisogno
prima delle elezioni di una altro fronte molto più grave in Medio Oriente. A
novembre l’eventuale elezione di Trump potrà rimettere tutto in gioco
nuovamente e un atto di forza brutale contro Teheran diverrà forse più
probabile.
E’ anche vero che le oligarchie finanziarie cercano guerre locali a bassa
intensità e cercano per quanto possibile di limitare il rischio nucleare. Eppure
a Kursk e a Zaporigna la possibilità dell’incidente cresce, si scherza con il
fuoco delle centrali nucleari. La netta responsabilità occidentale e ucraina
non è tuttavia sottolineata.
L’Europa, prima vittima economica e geopolitica dei conflitti in corso,
agnello sacrificale in caso di lancio di bombe nucleari tattiche, sembra
inesistente. Le classi dominanti non conservano alcuna autonomia in nome degli
interessi di popoli europei che divergono chiaramente da quelli americani. La
Presidente della Commissione europea che un tempo incarnava lo spirito
comunitario e sovrano dell’Unione, nelle dichiarazioni bellicistiche pro Kiev e
pro Israele, sembra un agente dei DEM statunitensi.
La Germania, un tempo motore economico dell’UE, è in recessione. La sua industria
è sotto attacco. L’attentato terroristico ai gasdotti perpetrato da fuoco amico
è stato inghiottito a testa bassa dal cancelliere socialdemocratico.
In tutta Europa la libertà di stampa e di espressione è sotto attacco. I
media stranieri sono aboliti, le manifestazioni pro Palestina sono considerate
antisemite, l’analisi oggettiva dell’operato di organizzazioni militari e in
grado di utilizzare metodi terroristi come Hamas o gli Hezbollah porta a
querele e sanzioni. Il fondatore di Telegram, piattaforma informatica i cui
contenuti non sono censurati e rimangono protetti dall’intervento statale,
viene arrestato a Parigi. Il Presidente Macron afferma non trattarsi di
un’operazione politica senza tuttavia poterlo dimostrare.
L’Europa quindi, sconfitta politicamente e economicamente, strozzata dai
prezzi dell’energia statunitense e dagli obblighi di assistenza militare
all’Ucraina, dopo aver accettato in un incremento al 2% del PIL delle spese
militari, è ritornata alle politiche di austerità che il nuovo patto (a cui ha
collaborato Gentiloni sotto la benevola sorveglianza di Dombrowski) impone.
Austerità che colpisce lo Stato sociale, scuola, sanità, pensioni, i beni
comuni come infrastrutture, trasporti, università, ricerca innovazione, non
certo le grandi imprese delle armi e dell’energia. Economisti improvvisati, sui
giornali più letti, tentano di convincerci che non ‘è differenza tra spesa
produttiva e improduttiva. Meglio nel dubbio tagliare la spesa tout
court.
Eppure un decennio di austerità ha dimostrato che il debito avanza in
mancanza di crescita, i tassi di interesse alti favoriscono rendite e
creditori. La nostra esperienza ha anche dimostrato che si può fare debito
utile in Europa, gli eurobond sono possibili se c’è la volontà politica. I fondi
si trovano quando è necessario come gli aiuti a Kiev dimostrano. Non sono
tuttavia considerati necessari lo stato sociale, l’occupazione, l’investimento
per il futuro dei giovani. La qualità di vita delle classi lavoratici è una
pura opzione di scarso interesse non soltanto per chi ci governa ma purtroppo
anche per le impassibili società civili europee che, come agnelli al macello,
accettano politiche europee suicide e senza alcuna razionalità strategica.
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