Quella nella Striscia di Gaza è la guerra più documentata della storia. Mai come oggi c’è stata una copertura mediatica così massiva e condivisa. Qualsiasi persona ha la possibilità concreta di vedere gli infiniti video che ben descrivono la realtà di Gaza, e questa è la grande novità che accompagna uno dei momenti più bui del nostro tempo. Una storia che sta accadendo e che si sta scrivendo qui e in questo momento, sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.
Eppure,
Israele continua a negare o a giustificare la narrazione dei fatti, nonostante
migliaia di video e foto che di per sé già basterebbero a scrivere la cronaca
di quanto sta accadendo. I massacri ripresi dalle telecamere talvolta vengono
sminuiti, altre volte vengono semplicemente derubricati a “danni collaterali” di
operazioni militari. Molto più spesso invece, tutto ciò che viene documentato e
registrato, compreso il numero delle vittime, viene messo in discussione da
Netanyahu e dal suo governo, in quanto “affermazioni divulgate e controllate da
Hamas” e per questo non attendibili.
Ebbene, se
così fosse, c’è da chiedersi come mai Israele continui a bloccare l’ingresso
dei giornalisti nella Striscia di Gaza. “A causa del controllo dell’IDF sui
valichi di frontiera, reso ancora più rigido dopo la presa di Rafah – si legge in un editoriale di
Haaretz – nessun reporter straniero può mettere piede nella
Striscia senza l’approvazione dello Stato”. Non vi è giornalista, dunque, che
possa entrare nell’enclave palestinese “senza la scorta dell’Unità portavoce
dell’esercito”. Questo divieto assoluto, commenta Haaretz, non solo “danneggia
gravemente la capacità di fare reportage indipendenti”, ma anche “il diritto
del popolo israeliano e del mondo di sapere cosa sta succedendo a Gaza”.
Israele ha imposto un blackout informativo
I soli
reporter che ottengono il via libera ad entrare, devono attenersi
pedissequamente a quanto imposto dalle forze israeliane e ciò non può in nessun
modo costituire “un’alternativa valida all’accesso indipendente”. A tal
proposito, due mesi fa, oltre 70 organi di informazione – tra cui New
York Times, BBC, CNN, Associated Press, Agence France-Presse, Guardian e
Washington Post – hanno firmato una lettera
indirizzata a Tel Aviv “ribadendo la richiesta di un
accesso illimitato dei media internazionali nella Striscia” e sottolineando
come le attuali restrizioni “possano alimentare la disinformazione” – fatto,
peraltro, denunciato paradossalmente dal Governo israeliano stesso. Tuttavia,
Israele si è dimostrato sordo a qualsivoglia appello da parte dei media,
scegliendo di perseguire l’imposizione di un totale blackout informativo.
Sebbene le
restrizioni alla stampa siano comuni in guerra, il CPJ, ovvero il Comitato per
la protezione dei giornalisti, ha dichiarato che “il divieto totale ai
giornalisti di entrare a Gaza è senza precedenti nei tempi moderni”. Nessuno
entra e nessuno documenta liberamente e i giornalisti israeliani non fanno
eccezione. Si legge, sempre nella lettera del CPJ,
come “dare un accesso limitato ai reporter durante tour approvati e guidati
dall’IDF non è sufficiente per fare informazione”. Alla luce di quanto
riportato, appare quantomeno stridente che in tutto il mondo, tranne che in
Israele, “i giornalisti abbiano potuto riferire dalle prime linee in
quasi tutti i principali conflitti degli ultimi tre decenni, dall’Ucraina al
Ruanda”.
Per questo,
l’editoriale di Haaretz termina con un interrogativo assordante, rivolto ai
cittadini israeliani stessi: “Cosa ha da nascondere lo Stato? Come trae
vantaggio dall’impedire ai giornalisti di entrare?”.
Nonostante
questo divieto, che suona come una censura, e nonostante il fatto che dal 7
ottobre siano stati uccisi 165
giornalisti, le notizie dalla Striscia di Gaza arrivano e
corrono veloci grazie al coraggioso lavoro dei reporter palestinesi presenti
nell’enclave, gli unici che riescono a far vedere al mondo quanto accade
(secondo l’IDF tre sarebbero stati affiliati ad Hamas; se anche fosse vero,
resta che gli altri 162 sono stati uccisi per il loro lavoro, a meno di credere
davvero alle morti accidentali…).
Ma un conto
è che quelle immagini circolino sul web o sui mezzi di informazione arabi o non
mainstream, altro che vengano riportate dai media di sistema, che creano
la narrazione per il grande pubblico occidentale. Ed è a questo che serve la
censura israeliana. Le immagini che ci arrivano via internet sono crude e spietate,
certo. Del resto, non potrebbe essere altrimenti perché non c’è nulla di umano
in una mattanza, spacciata per guerra al terrorismo, che non ha risparmiato,
tra gli altri, 16.456 bambini e 11mila donne.
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