Il silenzio dei deboli –
Paola Caridi
Solo qualche parola a
caldo, dopo la condanna di @alaa. PEN international chiede la liberazione di
Alaa Abdel Fattah, condannato a cinque anni di reclusione per aver protestato
contro una legge liberticida sulle manifestazioni di piazza. Lo chiede PEN
international, non lo chiedono le cancellerie. Non lo chiedono i governi
europei. Non lo chiede l’Europa, che a Alaa Abdel Fattah negò il premio
Sakharov, rendendolo in questo modo più debole. Il silenzio dell’Occidente è impressionante,
e la dice lunga non solo sull’ignavia, ma sulla pochezza della strategia
mediterranea europea. Non è solo il destino di un uomo, in gioco, che pure
sarebbe motivo sufficiente per esprimere al governo egiziano il disagio
dell’Italia e dell’Europa. In gioco sono le stesse libertà e gli stessi valori
per cui milioni di persone sono scese in piazza, esprimendo la ferma condanna
del razzismo e della violenza, contro la strage di Charlie Hebdo. Per @alaa,
icona di piazza Tahrir e dei giovani della rivoluzione, egiziano, arabo,
musulmano, laico, democratico, lucidissimo lettore della controrivoluzione di
Al Sisi, non si spendono parole e atti politici, da parte di un Occidente
vecchio, rinchiuso, miope, vigliacco. In galera, assieme ad Alaa Abdel Fattah,
sono molti tra i protagonisti della rivoluzione del 2011. Sono molti ragazzi,
tantissimi ragazzi, laici e islamisti, sono migliaia: in prigione perché la
controrivoluzione ha bisogno di renderli ancor più silenziosi. Si chiamano
prigionieri politici, nella catalogazione delle associazioni per la difesa dei
diritti umani e civili. Mi aspetterei, da parte di opinionisti italiani più o
meno brillanti, diverse “lettere a” amici arabi e musulmani. Magari, in questo
caso, per chiedere scusa.
Cinque anni di carcere all’attivista Alaa Abdel Fattah –
Sonia Grieco
Un’altra sentenza si è abbattuta sugli egiziani che
nel 2011 occuparono per giorni piazza Tahrir, al Cairo, riuscendo a mettere
fine al regime dell’ex presidente Hosni Mubarak. Un tribunale oggi ha
condannato a cinque anni di carcere Alaa Abdel Fattah, blogger e attivista
diventato uno dei leader di quella sollevazione popolare che seguì l’inizio, in
Tunisia, della cosiddetta primavera araba.
Nel 2011 Abdel Fattah si era fatto conoscere per aver
dato vita a una campagna contro i processi militari ai civili. Una prassi
ancora in auge in Egitto, dove sono centinaia i cittadini giudicati da
tribunali militari, organi non indipendenti (rispondono al ministero della
Difesa) che hanno comminato pese pesantissime contro gli attivisti laici e gli
esponenti dei Fratelli Musulmani.
La Fratellanza è stata messa fuorilegge dall’attuale
capo di Stato Abdul Fattah al-Sisi, salito al potere nel 2013 con un golpe che
ha messo fine alla presidenza di Mohamed Morsi, primo presidente eletto dopo il
2011 ed esponente della Fratellanza. Ne è seguita una dura repressione che ha
portato in cella centinaia di persone e decine di loro sono state condannate a
morte.
Da quando è alla guida del Paese, al-Sisi ha emanato,
in assenza di un Parlamento, una serie di leggi liberticide volte a limitare
l’espressione di ogni forma di dissenso. Norme che hanno colpito i movimenti
laici che quattro anni fa avevano fatto di piazza Tahrir il luogo simbolo della
rivolta egiziana, e i Fratelli Musulmani. In Egitto lo spazio per il confronto
e la contestazione è stato ridotto ai minimi termini. Le manifestazioni sono
represse nel sangue, come accaduto nei giorni del quarto anniversario delle
proteste di piazza Tahrir, a fine gennaio, quando la polizia ha aperto il fuoco
sui manifestanti uccidendo circa trenta persone.
Abdel Fattah è stato condannato proprio per avere
violato una di queste controverse leggi, quella che impone l’autorizzazione
governativa alle manifestazioni. Nel 2013 era sceso in piazza assieme ad altri
attivisti, nonostante i divieti, e questo gli è costato l’accusa di
organizzazione di una protesta illegale e di aggressione a un poliziotto. È
finito alla sbarra assieme ai suoi compagni, ai quali sono state inflitte pena
dai tre ai cinque anni. In questa riedizione del processo la pena è stata
alleggerita, in precedenza, infatti, era stato condannato a 15 anni. Adesso
ricorrerà in appello, ha fatto sapere il suo avvocato.
In tribunale gli attivisti presenti hanno scandito
slogan contro il “regime militare”. È una sentenza politica, hanno detto i
gruppi per i diritti umani, che rientra nel sistema di repressione messo in
piedi da al Sisi.
Non conoscevo questa storia in particolare, ma è abbastanza evidente (c'era anche un bel articolo su uno degli ultimi numeri de Der Spiegel) che con al-Sisi in Egitto è in atto una restaurazione in perfetto stile.
RispondiEliminaMilitari al potere erano, militari al potere erano.
Mi spiace per tutti i nostri che hanno preso una sonora cantonata a sostere il generale contro il governo Morsi.
Confesso di non vedere prospettive rosee per l'Egitto, non in termini di democrazia per lo meno. Forse si placheranno un pò le tensioni sociali, ma di certo i cittadini non otterranno maggiore potere e controllo sull'operato del governo.
Peccato.
Un'altra tappa del "fallimento" della Primavera Araba, proprio nel paese più importante.
Dovremmo ammettere che, anche in questo caso, noi occidentali ci abbiamo capito veramente poco.
"chi non si aspetta niente non sarà mai deluso", anche qui è andata così :(
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