lunedì 4 giugno 2018

ricordo di Soumaila, assassinato a 29 anni




Sono Soumaila ho 29 anni, sono rifugiato dal Mali.
Lavoravo come responsabile della comunicazione in un partito di opposizione al Governo.
Un lavoro, il mio, che segna il destino in un paese come il Mali.
Dopo una conferenza pubblica in cui abbiamo denunciato i crimini del governo venni a sapere
che il mio nome compariva sulla lista delle persone accusate, da arrestare. Dovevo trovare
una soluzione, avevo paura: ho saputo solo dopo che tanti miei amici e colleghi sono stati
imprigionati o uccisi.
Sono scappato in Algeria. Pensavo che la mia vita fosse al sicuro.
Ma durò solo un anno. L’ebola, scoppiata a centinaia di chilometri da lì fu la mia nuova
condanna. Se sei nero e africano, allora hai l’ebola. Non mi era permesso uscire di casa per
fare la spesa o per andare a lavorare. Un amico maliano, anche lui rifugiato, capì la situazione
prima di me, scappò in Libia e poi negli Stati Uniti. Decisi di fare lo stesso, lo stigma sociale mi
stava uccidendo. Come tanti migranti africani sono stato costretto a passare dalla Libia per
tentare di arrivare in Europa.
Poco dopo essere entrato nel paese, mi hanno fermato delle persone armate e mi hanno tolto
soldi e documenti. Mi hanno messo in prigione, una cella di meno di due metri per due, con
altre trenta persone, da dove esci solo se paghi. Sono uscito grazie all’aiuto di un amico che
pagò per me. Mi dissero che potevo andare via dalla Libia, facilmente,. Non era vero, l’ho
scoperto quando era troppo tardi: pagai il trafficante, ma mi ritrovai su una spiaggia isolata con
altre centinaia di persone e davanti a me c’era solo un gommone.
Era la notte del 24 dicembre 2014. Faceva freddo, era buio. Volevo tornare indietro ma
minacciarono di uccidermi. Siamo saliti su quel gommone. Eravamo in 120. Non passò
nemmeno un’ora che affondò. Ho visto annegare tante persone. Ci siamo salvati in 30. Io
sapevo nuotare, rimasi in acqua 45 minuti prima di riuscire a tornare indietro. Il giorno dopo, il
25 dicembre, ci hanno fatto imbarcare di nuovo, con altre 100 persone, su un altro gommone.
Un altro viaggio. Siamo rimasti in mare per un giorno finché il 26 dicembre siamo stati salvati
dalla Marina Militare Italiana. Ci hanno fatto sbarcare a Palermo, in Sicilia.
L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri, nonostante avrebbe
preferito non farlo. L’Europa accoglie ogni giorno me e tanti rifugiati che non si lasciano
fermare. Perché a scappare dalla morte si impara in fretta e un muro, un filo spinato, il mare,
anche se d’inverno, come è successo a me, non fanno paura a chi non ha più nulla da
perdere.
Ora, però, penso solo a costruire il mio futuro. Spero che la mia laurea in giurisprudenza
venga riconosciuta: sogno di fare l’avvocato qui e di sentirmi un giorno finalmente accolto.
Un giorno, però, se avrò la possibilità, vorrei tornare in Mali ma non so quando questo potrà
accadere.
da qui

Due euro l’ora per lavorare come schiavi. La pacchia di Gioia Tauro
di Daniela Amenta
Fonte: Globalist
Quanto costa un kiwi, un mandarino, un’arancia? Quanto costa davvero in termini di fatica e dignità per chi quella terra, la terra della Piana di Gioia Tauro la lavora? La frutta in questo pezzo di Calabria militarizzato dalle mafie, resterebbe sugli alberi. I 3500-400 migranti che arrivano da stagionali non portano via alcun lavoro ai calabresi, agli italiani. Non c’è alcuna pacchia da festeggiare. E’ manodopera flessibile e a basso costo. uomini sfruttati, “sottoposti a pratiche illecite e situazioni abitative indecenti e degradanti per la dignità di ogni essere umano e in uno stato di irreversibile marginalizzazione”. Soumaila Sacko, ucciso a fucilate, era nato in Mali, era venuto in Italia per cercare un po’ di futuro, sopravvive a stento nella tendopoli di San Ferdinando, sul golfo bello e disperato di Gioia Tauro, Calabria, Italia. Il dossier della vergogna. I medici per i diritti umani, Medu, da anni controllano la zona, la monitorano, prestano soccorso a moltitudini di invisibili. Hanno presentato un dossier, si intitola ‘I dannati della terra’, fotografa senza sconti la situazione. Ve ne diamo conto perché la realtà prevalga su ogni demagogia. Scrivono i medici sul campo: “Otto anni dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno”, i grandi ghetti di lavoratori migranti nella Piana di Gioia Tauro rappresentano ancora uno scandalo italiano, rimosso, di fatto, dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, le quali sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro. Oggi più che mai, la Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti della questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti”. Chi sono i ladri. La paga? Per 10, 12 ore al giorno sotto il sole che brucia prendono al massimo 27 euro, nessuno ha un contratto. Meno di 2 euro all’ora, un massimo di 3, quando va bene. Srivono nel dossier del Medu. “La gran parte dei braccianti continua a concentrarsi nella zona industriale di San Ferdinando, a pochi passi da Rosarno, in particolare nella vecchia tendopoli (che accoglie almeno il 60% dei lavoratori migranti stagionali della zona), in un capannone adiacente e nella vecchia fabbrica a poche centinaia di metri di distanza. Sono circa 3000 le persone che trovano alloggio qui, tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati. Le preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, aggravate dalla mancanza di acqua potabile, ed i frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche ed i pochi averi e documenti degli abitanti (l’ultimo, il 27 gennaio scorso, ha registrato una vittima, Becky Moses, ed ha lasciato senza casa circa 600 persone nella vecchia tendopoli) rendono la vita in questi luoghi quanto mai precaria e a rischio”. Chi sono. Continua il dossier di Medu: “Si tratta per lo più di giovani lavoratori, con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa sub-sahariana occidentale (soprattutto Mali, Senegal, Gambia, Guinea Conakry e Costa d’Avorio). Non mancano le donne, circa 100 provenienti dalla Nigeria, quasi certamente vittime di tratta a scopo di prostituzione. Il 67% delle persone assistite è in Italia da meno di 3 anni, ma c’è anche chi vive nel paese da più di 10 anni (4,4%) ed è finito nel ghetto di San Ferdinando-Rosarno dopo aver perso il lavoro nelle fabbriche del nord Italia o dopo aver perso il titolo di soggiorno (soprattutto di lavoro, per mancanza di risorse economiche ritenute sufficienti al rinnovo). Non sanno l’italiano, non possono difendersi. Più della metà dei pazienti – spiegano i medici – ha una conoscenza scarsa della lingua italiana, a testimonianza delle gravi carenze del sistema di accoglienza, di cui la maggior parte delle persone ha usufruito. Meno di 3 su 10 hanno un contratto. Nella quasi totalità dei casi, tuttavia, il possesso della lettera di assunzione o di un contratto formale non si accompagna al rilascio della busta paga, alla denuncia corretta delle giornate lavorate ed al rispetto delle condizioni di lavoro così come stabilite dalla normativa nazionale o provinciale di settore e l’accesso alla disoccupazione agricola risulta precluso alla gran parte dei lavoratori. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, che denotano condizioni lavorative di sfruttamento o caratterizzate dal mancato rispetto dei diritti e delle tutele fondamentali dei lavoratori agricoli, che pure rappresentano tuttora il carburante per l’economia locale”. Situazioni al limite. E infine, spiegano dal Medu, “dal punto di vista sanitario, le precarie condizioni di vita e di lavoro pregiudicano in maniera importante la salute fisica e mentale dei lavoratori stagionali. Tra le patologie più frequentemente riscontrate, le principali interessano infatti l’apparato respiratorio (22,06% dei pazienti) e digerente (19,12%), riconducibili allo stato d’indigenza e di precarietà sociale e abitativa, ed il sistema osteoarticolare (21,43%), da ricollegare particolarmente ad un’intensa attività lavorativa. Alcune persone inoltre presentano segni riconducibili a torture e trattamenti inumani e degradanti, per lo più connessi alla permanenza in Libia, e disturbi di natura psicologica” Quanto costa la vita di un uomo, quanto vale? Quanto costa un kiwi, un pomodoro, un mandarino? Quanto costa la vita di un uomo che andava a prendere delle lamiere per cercare di riparare se stesso e i suoi compagni dal sole? Scriveva Frantz Fannon: “Per il popolo colonizzato il valore primordiale, perché il più concreto, è innanzitutto la terra: la terra che deve assicurare il pane e, sopra ogni cosa, la dignità”, E invece non c’è dignità tra i ‘dannati della terra’. Soumaila Sacko è morto ammazzato in un Paese che lo ha sfruttato. Non era un ladro. Semmai in questa circostanza i ladri siamo noi.
da qui


Lo sciopero che non c’è, la vergogna del sindacato - baruda
Quando ammazzano un ragazzo a colpi di fucile i suoi assassini dovrebbero essere chiamati tali.
Quando ammazzano un ragazzo a colpi di fucile dicendo “stava rubando”, chi è abituato alla ricerca della verità dovrebbe metterci poco a capire.

ma c’è una cosa più grave di tutte però, più del sangue a terra di Soumaila (29 anni, maliano), una cosa che lascia basiti, che farà pensare ai giovani ai bambinetti che tutto ciò è normale.
Non c’è niente di normale invece: perché quando ammazzano un sindacalista a colpi di fucile il lavoro si ferma. Quando ammazzano un sindacalista i lavoratori incrociano le braccia e bloccano la produzione e questo nemmeno dovrebbe esser dichiarato, tanto è naturale.
Soumaila era un sindacalista dell’USB, lottava per i diritti dei braccianti nella piana di Gioia Tauro, i servi della gleba della nostra Europa ed è stato ucciso a fucilate.
Oggi il suo sindacato avrebbe dovuto dichiarare uno sciopero generale: oggi TUTTI gli iscritti USB si sarebbero dovuti fermare, incrociare le braccia, urlare la rabbia, bloccare la produzione. Il tranviere, il postino, l’insegnante: oggi tutti avrebbero dovuto urlare il nome di Soumaila.

E invece no.
L’USB ha dichiarato lo sciopero DEI BRACCIANTI.
I servi della gleba oggi si fermeranno. Quando dovrebbero, invece, marciare sulla testa del sindacato, acciaccandola e acciaccandola ancora

da qui

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