sabato 26 settembre 2020

INVECCHIO, DUNQUE NON SONO - Sergio Benvenuto


 

Quando si entra nell’ottavo decennio della propria vita – come vi è entrato chi scrive – si è finalmente liberi di ricamare sulle miserie della vecchiaia. Inammissibile se le ricamasse un giovane.

 

Da vecchi si è liberi di dire ciò che si vuole. Soprattutto liberi di dire sciocchezze, dato che i più giovani non oseranno reagire indignati. Non per rispetto della senectus come si crede, ma per commiserazione. “Poveretto, non ci sta più tanto con la testa…” si dice con aria tra il beffardo e il contrito. È vero che molti, da vecchi – quando non hanno più nulla da perdere, nemmeno la pensione – sentendosi finalmente affrancati, dicono le scempiaggini che hanno in fondo sempre pensato, anche da giovani, solo che prima non osavano dirle coram populo. Da giovani, si è attenti a non provocare il comune senso del pudore, si sa che certe cose si possono dire solo con lunghe circonlocuzioni affinché pochi capiscano. La vecchiaia invece dà licenza di spudoratezza. È accaduto così che un celeberrimo premio Nobel in medicina, un genio, invecchiando abbia lasciato sgocciolare le sue convinzioni scientificamente razziste, creando un imbarazzato raccapriccio tra colleghi e ammiratori. Ma sono convinto che il nobélier – come si dice in francese – quelle idee razziste le avesse sempre coltivate nel cortiletto privato della propria mente.

 

Mi si consenta quindi di dire qualcosa di sgradevole non sulla vecchiaia – che è una semplice categoria anagrafica – ma sui vecchi, pardon, sugli anziani, come si deve eufemizzare. Se non lo dico ora, non potrò dirlo più.

 

(Quando dico “un vecchio come me…”, di solito l’imbecille di turno mi dice “Vecchio? Ma no…” Poi però penso: se lo dice, è perché ci sono tanti vecchi imbecilli che hanno bisogno di sentirsi dire “non sei vecchio, sei solo anziano!” La gente ha un disperato bisogno di lusinghe, soprattutto se sono insincere, se non gliele concedi non sei un filantropo… Si è stupidi perché gli altri sono stupidi. La bêtise, c’est les autres.)

 

Chi sta scrivendo è – o meglio si ritiene – un intellettuale. Questo non implica necessariamente – come illusoriamente pensano molti intellettuali – che sia anche intelligente. Comunque per lui il cervello è come le mani per un pianista o le gambe per una danzatrice: senza quello, non è più nulla. Invecchiando, deve correggere una famosa battuta di Woody Allen (“il cervello è il mio secondo organo preferito”) e ammettere amaramente che è il primo. Per chi ha passato la vita a pensare, non poter pensare più – o peggio, pensare banalità, che è non pensare più credendo di pensare – è più grave che per un uomo perdere la virilità e per una donna non essere più desiderata. L’Alzheimer, la demenza senile, sono gli spettri da cui l’intellettuale è infestato; facile capirlo. Ma non sono il peggio. Il peggior spettro, credo, sfugge a molti “anziani”.

 

Il peggio, per l’intellettuale che invecchia, è rimbambirsi senza accorgersene. Credere di essere ancora intellettualmente vispo, di poter dire sfacciatamente la sua di fronte a menti fresche, e non rendersi conto – questo è l’orrore: non rendersi conto – che ormai quello che dice non ha più alcun interesse. O, se lo ha ancora presso gli ingenui o presso i familiari e amici che lo ascoltano perché gli vogliono bene, non lo ha affatto presso le persone che lui o lei ammira e stima. Questo crea in lui reazioni rabbiose, spesso l’intellettuale vecchio diventa permaloso, iracondo, perché capisce di non essere più approvato; e non tollera più di non essere approvato, pensa che le sue tante primavere gli garantiscano una sorta di papale infallibilità. Da vecchi, si tende a diventare dogmatici, nel senso che se stessi è il proprio dogma. È ancora sopportabile, per questo intellettuale, rendersi conto di non ricordare quasi più nulla degli eventi recenti, che si rammenta bene un film visto 40 anni prima e non si rammenta nulla di un film visto due giorni prima, che fa sempre la stessa domanda alla stessa persona (“come ti chiami?”, “che lavoro fai?”, “in quale quartiere abiti?”…), che certi ragionamenti logico-matematici che prima gli era facile capire ora invece ha difficoltà a seguirli… Tutto questo è ancora nulla, perché lui o lei se ne rende ancora conto.

 

Il vero punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della vecchiaia mentale, è quando credi di pensare ancora in modo interessante, ma non è più così. Perché questa è un’illusione da cui è impossibile ravvedersi, non c’è psicanalisi o cura neurologica che inverta il corso del fiume verso il mare dell’imbecillità, non c’è rimedio… Ma raccapriccia sapere che se non c’è rimedio, non lo si sa. Peggio della morte, perché si può morire lucidi sapendo di morire. Mentre il demente non sa di essere demente. E questo è il peggior sfregio che l’intellettuale teme sulla guancia sempre rosea della propria auto-coscienza.

 

Ovviamente si teme questa senile auto-infatuazione perché la si vede negli altri. La cosa più triste, quando si invecchia, è aver visto e vedere i propri coetanei invecchiare. Non solo fisicamente. Triste perché in effetti si deve constatare obtorto collo una cosa molto semplice: che quando l’altro invecchia, quasi mai migliora. Di solito peggiora, soprattutto moralmente. Ci sono felici eccezioni, ma poi ci si rende conto che costoro migliorano con l’età perché erano già prima, in fondo, migliori. Da vecchi, per dirla come Pindaro, si diventa ciò che si è. Ovvero emerge la pelle butterata di difetti una volta laceratasi la pellicola edulcorante della gioventù.

 

Ma se la vecchiaia toglie la maschera, in che senso allora dico che invecchiando si peggiora? Perché il volto, contrariamente a quel che predica una certa filosofia dell’autenticità, per lo più è peggiore della maschera. Il volto nudo, se si deve dar retta a Freud, è quello di un lascivo perverso, o di un bullo picchiatore o di un bacchettone, o tutte queste cose assieme.

 

Quando leggo le cose più recenti che ho scritto, penso per lo più che siano migliori di quelle che scrivevo da giovane. “Sono maturato” mi dico, tutto contento. Ma poi alcuni mi dicono che preferiscono quello che scrivevo da giovane… E se anch’io, come la maggior parte dei senescenti, fossi peggiorato? L’illusione dei vecchi è pensare che invecchiando migliorino, che insomma vadano in controtendenza, e in questa illusione consiste il loro vero peggioramento.

 

Molti intellettuali, poi, si raccontano la favola secondo la quale, perdendo in parte il desiderio sessuale, da vecchi hanno più energia e più tempo da dedicare al lavoro intellettuale, insomma si pensa meno ai genitali e di più alla verità. Ma non è vero, perché desiderio sessuale e ardore intellettuale vanno di pari passo: con l’affievolirsi del primo, si smorza anche il secondo. I giovani sono produttivi proprio perché vivono fino in fondo il dramma straziante sulla precedenza da dare ai due organi preferiti da Woody Allen. Se questo conflitto di priorità sfocia nella tregua, si è già nel declino intellettuale.

 

Ci si può consolare dicendo di un amico o di un’amica di gioventù “peccato, sta invecchiando male!”. Ma d’un tratto un dubbio ti folgora: “e se gli altri pensassero la stessa cosa di me, che sto invecchiando male?” Posso vedere, magari allo specchio, i miei ammacchi fisici come tutti gli altri li vedono; ma per gli ammacchi mentali non ci sono specchi in cui vederli. In effetti, conosco alcuni vecchi più o meno rimbambiti che mi dicono: “Da un po’ noto che mia figlia, mio figlio, non mi ascoltano più. È come se parlassi al muro. Come sono diventati strani e scorbutici questi giovani d’oggi!”

 

Certo molti anziani muoiono lucidi nel loro letto. Costoro, se hanno un cancro al pancreas, non credono alla fandonia che è un pancreas “diverso” per cui guariranno…  Possiamo allora sperare di fare la loro stessa fine. Ma la possibilità che ci si illuda di morire lucidi nel proprio letto, mentre per gli altri lucidi non lo si è affatto, introduce un abisso metafisico che l’intellettuale non può guardare dritto in faccia, perché questo abisso lo penetra e lo disfa. Ne sconquassa ogni apparente certezza, nella disperazione senza lacrime di non sapere di non sapere più. Ormai anche lui o lei non sanno di non sapere, come tutti gli altri. Perché l’intellettuale non si fermerà là, e dirà: “Se vedo che persone geniali da vecchi si rimbecilliscono, ovvero sono ancora sicure di quello che pensano mentre quello ormai fa ridere i polli, anche io potrei solo credere di essere geniale” (Forse chi è intelligente ma non intellettuale non lo sa: ogni vero intellettuale è convinto di essere un genio. Questo è il delirio che lo alimenta giorno per giorno. Se non pensasse di essere un genio, non sarebbe un intellettuale, solo un seguace di intellettuali, un credente. Pochi intellettuali scoprono di non delirare, solo perché il mondo li riconosce geniali. Lo scoprono, per dir così, perché hanno avuto fortuna).

 

Tutti noi troviamo evidente quello che sosteniamo, e il fatto che altri non lo trovino affatto evidente non ci inquieta molto, perché tanto ci diciamo “sono degli stupidi, o degli illusi, o degli ignoranti… o dei pazzi”. Una volta incontrai un intellettuale che credeva negli UFO, e quando gli dissi che io invece non ci credevo, e provai a dargli qualche ragione della mia miscredenza, lo vidi guardarmi con un’aria che mescolava disprezzo e compassione, e leggevo quel che pensava “Poveraccio! È talmente stupido da non credere negli UFO!”  Tutti noi siamo come quell’”intellettuale”: abbiamo la percezione indubbia che il nostro modo di pensare sia quello giusto. Certo, se inoltre abbiamo avuto riconoscimenti sociali – se insegniamo in un’università, se i nostri libri si vendono bene, se abbiamo molti seguaci – la cosa ci conferma, abbiamo la prova che non siamo i soli al mondo a stimarci. Ma poi vediamo che molti professori universitari, i cui libri si vendono bene, che hanno molti seguaci… sono dei palloni gonfiati incapaci di pensare. E allora il dubbio risorge, araba fenice…

 

Non credo sia un caso che Descartes non abbia annoverato la perdita di vivacità mentale della terza età tra i vari esempi di esperienze che rendono il nostro sapere incerto. Egli diceva che, se i sensi ci possono ingannare qualche volta, allora possono ingannarci sempre. Il sogno è l’esempio più toccante: sogno, ma non so di sognare, credo di vivere esperienze reali. Che cosa ci dice allora che tutta la nostra vita non sia il sogno su un’ombra, come diceva il solito Pindaro? Sappiamo la soluzione trionfante che Descartes trova alla fine: cogito ergo sum. Basta che io pensi di pensare, e quindi ho tra le mani qualcosa di certo, il mio essere pensante. Su questa pietra – non molto grande in verità, direi anzi striminzita – Descartes crede si possa costruire l’impero del sapere.

 

Ma come se la sarebbe cavata Descartes se avesse preso in considerazione la possibilità dell’imbecillità, la quale, per definizione, ignora di essere tale? Anche un mentecatto può dire convinto “Penso dunque sono”, ciò non lo renderà meno mentecatto. La sua demenza, anzi, contagerà senza rimedio il suo “penso dunque sono”. (Si ha persino il sospetto che giungere a questa conclusione possa essere segno di demenza.) La vecchiaia, come la stupidità in generale (perché tutto questo non toglie, ovviamente, che tanti giovani siano assolutamente idioti), scardina tutta la costruzione cartesiana. La vecchiaia fa trionfare il nichilismo. Forse questo è il suo vero trionfo. Quindi: “invecchio, dunque non sono”. Nulla ci assicura che non deliriamo.

 

E ovviamente tutte le cose che ho scritto finora non mi garantiscono che non siano delle imbecillità. Temere di diventare stupidi non impedisce che questo timore possa essere, esso stesso, stupido. Si profila qui una mise en abyme. Quell’abisso che ci separa, sempre, dagli altri – e, in vecchiaia, anche da noi stessi.

Sergio Benvenuto, nato nel 1948

da qui

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