giovedì 3 settembre 2020

Fiaba d'amore - Antonio Moresco

una ragazza si innamora di un barbone, ma non dura per sempre.

poi i due si cercano ancora, fra la vita e la morte, con un confine non impossibile da attraversare.

tutte le cose, prima che succedano, si possono solo immaginare, e si chiamano fiabe.

un altro mondo è possibile, nelle fiabe di sicuro, nella vita vera è più complicato, ma non impossibile, forse.

un libro che si legge bene.




 

 

 

 

 

Spiazzante per la capacità di seguire una linea priva del respiro dei capitoli e delle partizioni tradizionali ma non per questo eccentrica (nell'etimologia astronomica) o spezzata: tutt'altro, perché la trama, scarna, e gli accadimenti "collaterali", molti, costituiscono una realtà in sé, coerente, circolare, perfetta. Il decadimento fisico e psichico di Antonio, poi seguito da quello della "meravigliosa ragazza" Rosa non sono gratuiti, come mostrano di credere vari lettori, ma inestricabilmente e specularmente legati al fulgore di alcune immagini ed odori (scene d'amore, luminosità dell'ambiente, voli del colombo che osserva le vicissitudini della coppia dall'alto): insomma, una connessione per opposizione. I passaggi dalla vita alla morte alla vita, inoltre, non sono mai banali, anzi, sono anch'essi spiazzanti, con il raggiungimento di una diversa "quota" della narrazione, impensabile qualche pagina prima

da qui

 

… Ogni scrittore, se è davvero uno scrittore, non scrive mai “opere minori”. In attesa della pubblicazione del monumentale Gli increati, conclusione di un’opera-mondo iniziata decenni addietro, Moresco, con questa sua fiaba che parla di vita, di morte, di tradimento e redenzione, si comporta come un pittore che, in attesa di portare a termine l’affresco della cattedrale, continua a vergare bozzetti, disegni, acquarelli. Non per puro intrattenimento personale, ma come desiderio di fissare immagini, sperimentare forme. E non è un caso che spesso in queste opere, quasi più svincolate dal programma monumentale, si svela una libertà immaginifica che commuove.

È una fiaba crudele e dolce assieme, rivolta ad un pubblico che non ha età, scritta con una lingua che non nasconde nulla, esplicita fino all’ossessione nelle descrizioni tattili, eppure spesso pudica nei sentimenti; scrittura pura come quella di un bambino che non ha problemi ad immaginare una luminosa città dei vivi attraversata da morti inconsapevoli, e una buia città dei morti, così tanto simile alla sua gemella, dove però, quando tutto è perduto, si può tornare a vivere per davvero.

da qui

 

Si potrebbe pensare, sbagliando, che le fiabe non siano una lettura per adulti. Dipende da cosa chiediamo e da cosa ci aspettiamo dalla letteratura.

Antonio Moresco alla letteratura chiede meraviglia, capacità di aprire un varco, di accendere una lucina (titolo di un altro suo romanzo poeticissimo), di compiere un miracolo. Se la letteratura rinuncia all’impossibile tradisce il suo mandato. Perché la realtà sa essere molto meno verosimile di un racconto verosimile, perché la realtà conosce anche l’impossibile, il varco, la lucina, il miracolo: una letteratura che non contempli tutto questo fallisce.

Di Moresco amiamo spesso ricordare la polemica contro la letteratura post-moderna ripiegata su se stessa, fredda e cervellotica, quella che gioca con le infinite possibilità dell’arte combinatoria e si auto-compiace, una letteratura - a suo dire – che tradisce Omero e Dante. A me piace anche ricordare che dietro questa polemica si nasconde una fiducia generosa nei confronti della parola poetica, nella sua forza incantatrice, capace non solo di leggere il mondo, ma di farlo più bello e più buono.

Perciò sono felice di aver ritrovato oggi questo romanzo e di poterlo consigliare a tutti. 

da qui

 

Questo popolo, che vediamo così da vicino ma che ci sembra tanto remoto, siamo noi. Il popolo perduto è il nostro popolo. Siamo noi, se non cambieremo la nostra rotta suicida che sta rendendo invivibile la vita e inabitabile il mondo. Gli appartenenti a questo popolo non sono solo quelli che non hanno saputo tenere il passo, sono anche quelli che ci stanno dicendo che il nostro passo è sbagliato. Non sono la nostra retroguardia, sono la nostra avanguardia.

Così ha scritto Antonio Moresco su Vanity Fair (sì, Vanity Fair) in un articolo che accompagna l'uscita del suo nuovo romanzo, Fiaba d'amore. Il «popolo perduto» dell'articolo sono i barboni, categoria cui appartiene il protagonista del romanzo, uno «straccione», per l'appunto. Moresco non è interessato a teorie economiche, quando parla di «avanguardia», né alla povertà assoluta o relativa, ai dibattiti sulla crisi reale o percepita. Moresco rovescia la gerarchia apparente con cui l'uomo comune guarda ai «disadattati» perché coglie una verità che può germogliare in tutta la sua forza solo nel terreno della letteratura: lì la protesta contro la ferocia della civiltà tecnica e capitalista si tramuta in persuasione estetica, volontà verticale dello spirito…

da qui

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