domenica 6 settembre 2020

Se procedere è tutto. Ipotesi su Mannuzzu saggista - Gabriele Fichera

 

Fino all’ultima sillaba

(Macbeth, William Shakespeare)

Undici prove di resistenza è il sottotitolo di Cenere e ghiaccio, la raccolta di saggi messa insieme da Salvatore Mannuzzu nel 2009. Entrambi, titolo e sottotitolo, esibiscono alcune parole-chiave, che ci aiutano a entrare nel sistema di pensiero dell’autore. Partiamo dal concetto di “prove”. Esso sembra possedere due tipi di referenza distinti. La prima, di tipo rematico, fornisce indicazioni ben più che allusive a proposito del genere letterario d’appartenenza, traducendo in italiano i ben noti Essais di un antesignano assoluto, e patriarca indiscusso del saggio come Montaigne. La seconda, di natura tematica, si scinde e si arricchisce della compresenza di almeno due significati. La prova è infatti il cimento e la lotta, sempre perigliosi, in cui chi scrive impegna tutto se stesso, la propria moralità e intelligenza; in breve l’anima. Ma può essere anche intesa nel senso di (dimostrazione), segno che tangibilmente certifichi qualcosa di oggettivo. E magari l’esistenza di qualcuno con la (D) maiuscola. In questi saggi il rovello metafisico e religioso che agita tante pagine romanzesche di Mannuzzu non si placa di certo; al contrario, producendosi talora in picchi e fibrillazioni, percorre e innerva, intus et in cute, tutti gli snodi essenziali della raccolta.

La voluta ambiguità semantica delle “prove” di Mannuzzu è di per se stessa prezioso grimaldello simbolico, e di metodo, per iniziare a farsi luce in questo libro assai esigente. Una delle contrapposizioni principali qui in gioco è infatti quella fra le scelte nette e sicure operate dalla “giustizia”, e l’ambigua saggezza dell’umana pietà. Proprio nel cuore del libro alcuni passaggi dedicati alla figura di Monsieur Verdoux proiettano un’ombra paradossale e kafkiana sullo straniante nesso fra crudeltà e pietà, che spinge l’assassino ad avvelenare la ragazza che voleva morire. Mannuzzu cita un passo dal Processo di Kafka, a proposito della colpevolezza ontologica degli uomini, e collega i paradossi kafkiani a questa cruciale affermazione di Verdoux: “È con gli uomini che sono in guerra” (Mannuzzu 2009: 75). Si affaccia già qui l’ipotesi, la definisce “grano di veleno”, dell’irredimibilità umana cui però, si aggiunge, “spetta la sua grazia, al di là della storia degli uomini” (Ibid). Il sorriso di Verdoux nell’episodio del vino avvelenato è sintomo di “una perplessità – quasi metafisica; e insieme una saggezza, una sapienza che sono il massimo consentito. Cioè un’ambiguità estrema; forse una specie di pietà” (Ibid). L’ambiguità della vita, quella vita che è “oltre la ragione”, come dice Verdoux, va a cozzare con la tensione a razionalizzarla in una forma. Ma la sutura fra forma e vita è un anelito impossibile da appagare. Mannuzzu osserva questa discrasia innanzitutto nella sfera della giustizia, e con le parole della Ginzburg, ma anche memore di un certo Satta, scorge nella legge una “forma inidonea a comprendere la vita” (Id: 95). All’astrattezza della legge dovrebbe fare da contrappunto la prova di resistenza del saggio. Ma anche quest’ultimo, come vedremo, deve accontentarsi di stringere fra le mani solo frammenti di senso. Questa frustrante esperienza assume in Mannuzzu forme diverse, ma tutte generate dalla stessa polla sorgiva. Prendiamo ad esempio il concetto di “amore non corrisposto”, con cui a ben vedere la raccolta si apre e si chiude. Mannuzzu nel primo saggio, dedicato a Giobbe, parla dell’impossibilità di essere corrisposti dalla letteratura nell’amore infinito che le portiamo. Impossibilità costitutiva e ineludibile, che iscrive questo rapporto asimmetrico sotto l’insegna del desiderio. Nell’ultimo capitolo del libro questa non corrispondenza tinge di sé la questione dei rapporti fra gli anziani e il mondo che li circonda: “La domanda d’amore dei vecchi dunque non riceve risposte umane adeguate” (Id: 146). Persino in Dio agisce una contraddizione insanabile fra amore e giustizia. Questa “sfasatura irrimediabile” (Id: 62), per dirla con le parole dedicate al pittore Francis Bacon, questa discrasia fra vita e forma, seppur declinata in diverse modalità, è uno dei perni attorno a cui si muove la ricerca saggistica di Mannuzzu, e forse l’intera sua ricerca artistica. È a questa frattura, in fin dei conti, che lo scrittore cerca di resistere. Ma non è facile, bisogna attraversare un varco molto stretto, situato al punto di confluenza fra la cenere e il ghiaccio. Ecco dunque le parole-stemma del titolo della raccolta pronte a designare due sfere di valori distinte, e in parte contrapposte, ma che in ogni caso per Mannuzzu devono essere tenute insieme. Allora vediamo sfilare dinanzi ai nostri occhi una galleria di personaggi e uomini, di cui possiamo di volta in volta misurare la tenuta in rapporto al gioco di queste due istanze vitali. Da una parte il desiderio, l’eccesso, l’amore per l’infinito, la vita che, come una candela accesa da due lati, brucia di passioni assolute; e ancora le contraddizioni che rimangono insolute, e l’ostinato procedere dell’esistenza senza fine e senza un fine: la cenere di ciò che, per fortuna, si consuma. “Il peccato imperdonabile è quello che non si consuma, che non diventa mai cenere” (Id: 83) scrive Mannuzzu. Dall’altra parte il ghiaccio come simbolo dell’equilibrio, della pazienza, della capacità di resistere, come ci insegna Giobbe, alla “prova logorante del quotidiano” (Id: 20). E saremo messi di fronte all’esploratore Nansen, imprigionato nei ghiacciai artici, alla lotta contro il tempo, solitaria e molecolare, di Gramsci nella cella-trincea, oppure al caso di Anna Frank, bambina adulta, secondo l’intuizione che Mannuzzu recepisce dalla Ginzburg, cresciuta senza invecchiare, e soprattutto sola davanti al suo diario; forma quest’ultima, che per Mannuzzu rappresenta, da sempre, “un lungo atto di resistenza” (Id: 80). E la vediamo infatti Anna Frank, come intrappolata in un cubetto di ghiaccio, fatto di memoria e scrittura, navigare nel tempo, e quindi “procedere, con equilibrio innato” (Id: 82), dice il saggista.

Con molto meno equilibrio procedono invece i personaggi del desiderio e dell’eccesso. Diciamo che, specularmente alla Frank, essi invecchiano senza crescere. Abbiamo dunque Don Giovanni, perso nei suoi cataloghi infiniti; la sua efferata parodia, incarnata dal chapliniano Monsieur Verdoux; il Valerio Garau di Procedura, per spostarsi un attimo al romanzo più noto di Mannuzzu; e infine il Don Chisciotte proclamato in un saggio “santo”, perché fedelissimo martire della religione del desiderio e della libertà. Nella lettura di Don Chisciotte ritorna il concetto chiave di “ambiguità”; la grandezza del personaggio consiste infatti nell’“essere fra”, nel vivere tra reale e irreale, “fra comico e tragico: fra queste due insufficienze” (Id: 40). Don Chisciotte può vivere solo morendo. Egli ci è “maestro di desiderio, di eccesso, di assoluto. Desiderio che solo la perdita di tutto e la morte possono soddisfare” (Id: 43). Ed ecco, a fargli subito da eco, la cenere incandescente di Don Giovanni, che si congeda dalla vita con queste parole: “Bisogna ringraziare quando si perde tutto: è il più bel regalo che possono farci” (Ibid). Qui davvero “ripeness is all”, ma in un senso altro, tremendamente tautologico, per cui la maturità è tutto, in quanto è fine di ogni cosa. Si crede spesso di poter procedere all’infinito, e per di più senza mai progredire, fino a quando ci si para davanti all’improvviso, liberatoria, e segretamente invocata, la fredda mano del Convitato di pietra.

Abbiamo osservato la dialettica fra cenere e ghiaccio, fra eccesso ed equilibrio in figure in cui la prevalenza dell’una o dell’altro era abbastanza netta e percepibile. Ma in Mannuzzu è vivo e sentito il bisogno di tentare una sintesi, ancorché impossibile. Ed è per questo motivo che, procedendo tra le stratificazioni plurime di senso che si riverberano dal nostro libro, possiamo rintracciarne infine il nocciolo più nutriente nei tre saggi che si occupano di Giobbe, di Francis Bacon, e della Ginzburg. In queste figure di desiderio e pazienza, l’amore per la vita che brucia e la tensione alla forma trovano una sintesi più equilibrata e profonda.

Il capitolo su Giobbe è, a parte le due pagine di preambolo, il primo del libro. E non solo per ragioni cronologiche, mi sembra, ma per un ordine di motivi non distante, immagino, da quello che ha spinto un grande scrittore italiano del nostro tempo ad aprire la propria antologia personale con il Libro di Giobbe – mi riferisco alla Ricerca delle radici di Primo Levi. Levi ha riconosciuto infatti alla storia di Giobbe un’ideale “primogenitura” nei confronti di tutti gli altri testi che intendeva raccogliere, e compiendo una piccola forzatura rispetto all’ordine dato alla materia, ha inaugurato la sua “ricerca” con la figura del giusto sofferente. Per Mannuzzu la centralità di Giobbe scaturisce dal fatto che in esso si intersecano le ragioni della cenere e quelle del ghiaccio, il fuoco del desiderio e la questione della resistenza al dolore1. La domanda centrale che secondo Mannuzzu il libro biblico ci pone è infatti questa: “Può Giobbe continuare ad amare Dio, malgrado tutte le sue disgrazie? Esiste negli uomini l’amore gratuito, fuori dalle aspettative d’una contropartita?” (Id: 20). Giobbe è definito “campione del desiderio” (Id: 15), e si imbatte anche lui nel problema, che ormai sappiamo essere cruciale, dell’amore non corrisposto. Eppure, al contrario di Don Giovanni, non si arresta di fronte all’aporia, ma la supera. Giobbe, nota Mannuzzu, finisce infatti per accettare il limite che Dio ha posto all’umana sete di sapere. Capisce di essere chiamato a ingaggiare la prova più dura, quella del tempo, o meglio la “prova logorante del quotidiano” (Id: 20). Passa sì, attraverso la rabbiosa invettiva, e il processo a Dio – Mannuzzu scrive anche “procedura” – ma alla fine si ritrova creatura umana, consapevole dei propri limiti. Polvere e cenere gli si trasformano in mirabili strumenti di consolazione. Giobbe si innamora della finitezza umana. E, con il Kafka qui citato dal saggista, si affeziona persino a quella corda tesa non in alto, ma “appena al di sopra del suolo” che pare destinata “a fare inciampare” (Id: 31). Quella corda che forse solo Kafka poteva scorgere con occhio sicuro, e con la quale sembra davvero che Mannuzzu abbia stretto assieme, in un amalgama riottoso e indocile, i saggi di questa raccolta.

In particolare mi sembra decisivo il legame con le pagine dedicate alla Ginzburg, vero polo magnetico, o vertiginoso maelström, dell’intero libro. Qui, a partire dal “pretesto”, ma nel senso per nulla diminutivo in cui lo intende Lukács nel suo Essenza e forma del saggio (Lukács 1911: 33), del libro della scrittrice sul caso di Serena Cruz, Mannuzzu rimette al centro dello sguardo due questioni fondamentali: quella dei rapporti fra forma e vita, e quella dei rapporti fra uomo e Dio (Ginzburg 1990). Il saggio si articola in tre movimenti distinti, ma connessi. All’inizio c’è il ritratto della Ginzburg; nella parte centrale il commento al libro; alla fine si azzardano delle considerazioni religiose.

Parto dal ritratto della scrittrice. Mannuzzu cerca di coglierne il profilo sfuggente, situandosi sul discrimine incerto fra figura pubblica e dimensione intima, domestica. Ma è a quest’ultima che si volge con decisione dopo aver confessato l’estrema difficoltà di conoscere una persona. Ancora una volta è solo grazie alla polvere dei dettagli insignificanti che si può tentare di risalire “da pochi frammenti reali e il meno possibile contaminati, al disegno di una vita” (Mannuzzu 2009: 88). Ecco dunque la Ginzburg nella stanza da pranzo della sua casa romana. La descrizione che se ne dà non è per nulla illustrativa, ma straniante. Anzi, per essere più precisi, sono i rapporti che si instaurano fra gli oggetti e la persona a stagliarsi sul fondo di una “sfasatura” sorda, a bassissima definizione, ma ben percepibile. Vediamo. Del dipinto raffigurante Re Lear prima si dice solo che veniva sottoposto a periodiche puliture con l’ausilio di cipolle e patate, e poi si aggiunge che l’opera non ha più molto rilievo. Dei quadri di De Pisis e Morandi si sottolinea il fatto che furono spostati di parete per due volte. “Solo un tale futile incidente. O ancora meno” (Id: 89). E allora tocca al guizzo del gatto ereditato dalla Morante; e all’oliera posta sul tavolo apparecchiato per una sola persona. Qui Mannuzzu lavora sì, per sottrazione, come lui stesso ha annotato a proposito di Bacon. Ma c’è qualcos’altro. Nelle pagine dedicate all’anziano pittore di Sangue sul pavimento (1986) Mannuzzu legge nel fare pittorico dell’artista un’indicazione di metodo che mi pare preziosa. Nell’opera in questione Bacon rappresenta “una frattura, uno strazio: una sfasatura irrimediabile” perché dipinge “a due livelli: vuole dipingere la pittura e vuole dipingere la realtà” (Id: 62). Mi sembra che il saggista nel costruire la scena precedentemente descritta faccia qualcosa di simile, e scriva per così dire, su due livelli. Scriva la forma e scriva la vita, e tenti di fare combaciare le due cose, producendo però una salutare “sfasatura”. Pensiamo ai riferimenti artistico-letterari che vengono di scorcio evocati, e di proposito subito lasciati cadere. La figura di Re Lear, così significativa per la letteratura familiare della Ginzburg, sarebbe potenzialmente ricchissima di rifrazioni simboliche in rapporto alla storia dolorosa di Serena Cruz e della paternità a lei negata. Ma nulla di tutto questo viene detto. E poi i quadri di Morandi e De Pisis; il nome della Morante. Poniamo adesso mente all’umile trafila di cose e gesti, fatta di cipolle e patate, del balzo del gatto, dell’oliera, dell’incidente dei quadri spostati. La cenere ancora calda della vita quotidiana, e di fronte il ghiaccio delle forme. L’oliera reale, e quella di Morandi sulla parete. La vita vera a tre dimensioni, e quella a due della forma. Un altro saggista, stupidamente intelligente – lo dico mutuando la superba ironia di Proust –, avrebbe forse enucleato a pieno i contatti fra la Ginzburg e il personaggio di Re Lear, o avrebbe disquisito sul rapporto fra la scrittrice e i due pittori menzionati, o magari avrebbe giocato sull’eredità simbolica che le proviene dalla Morante. Mannuzzu non ha bisogno di soffermarsi esplicitamente su queste cose; preferisce sfumare in modo ambiguo. Piuttosto gli interessa metterle insieme, paratatticamente. E sottoporle a un miracoloso processo di intensificazione espressiva, grazie al quale si illuminino a vicenda. È tanto vero che le cipolle e le patate illuminano il Re Lear, quanto lo è l’inverso. L’oliera reale conferisce un diverso senso a quella immaginata in absentia di Morandi, e viceversa. Si ha la sensazione netta che le due serie di oggetti se separate, diventerebbero di colpo banali, sterili. Qui non si tratta di semplice understatement, o di snobismo, ma di tatto e sensibilità; è una questione di equilibrio e pazienza, entrambi posti al servizio di una possibile sintesi fra la vita che fa risplendere la forma, e la forma che rende un po’ meno insensata la vita. Questa sensibilità appartiene solo ai veri artisti. Ancora a proposito di Bacon: il pittore, scrive Mannuzzu, “sa che la realtà si coglie, (si intrappola) con (l’arbitrario, l’artificiale), dandole una (forma precisa e insieme ambigua)” (Id: 62). D’altronde è proprio questo il “registro vero” della Ginzburg: il “doppio pedale, in miracoloso equilibrio – tra la vita informe e la necessità di darle forma” (Id: 91).

Anche nel trattare il caso di Serena Cruz la Ginzburg sfodera una passione e una forza felicemente eccessivi. Più che cenere sono lapilli di fuoco quelli che sprizzano da queste pagine. La molla viene azionata ancora una volta da una frattura, o da una non corrispondenza fra la legge positiva e la “vera giustizia”, menzionata già nel titolo. L’amore per quest’ultima, il desiderio che alla fine trionfi, porta la Ginzburg, ormai palesemente sulle orme di Giobbe, a processare proprio la giustizia in quanto tale, e non solamente i giudici, come avrebbe fatto, probabilmente, Manzoni. Dice bene Mannuzzu: “Ciò che viene impugnato non è un incidente nel percorso della giustizia; è l’ingiustizia necessaria a ogni organizzazione sociale” (Id: 95). E aggiunge: “La contestazione è ancora più radicale: investe la legge come forma inidonea a comprendere la vita” (Ibid). La critica è portata a un tipo di linguaggio, con i mezzi di un linguaggio altro. E la Ginzburg lotta contro il delirio astratto e tiepido della legge, che toglie senso alle parole, con le armi fredde dello straniamento sintattico. Come in un quadro di Morandi, essa comincia ad allineare uno dopo l’altro, sulla tavola della pagina, periodi “brevissimi”. Lo stile viene sottoposto alla tensione glaciale di una paratassi martellante e invasiva. A questo punto Mannuzzu ha facile gioco nello spostare lo sguardo, di sfasatura in sfasatura, sul piano religioso. Con mossa a sorpresa associa l’interesse della Ginzburg per Serena Cruz a una frase importante della scrittrice: “Chi non crede in Dio non ha diritto di dire al suo bambino: (Dio non esiste)” (Id: 99). Mannuzzu fa delle notazioni formali molto fini a proposito di queste parole, e ad esempio osserva l’uso del discorso diretto per lasciare a chi la pronuncia tutta la responsabilità della negazione. Un’osservazione questa che tra l’altro fa trasparire in filigrana i contorni di una poetica, e insieme di un’etica, della citazione da addebitare al saggismo dello stesso Mannuzzu. Ma perché nessuno dovrebbe dire ai bambini che Dio non esiste, anche se lo pensa? Eccoci di nuovo di fronte all’ambiguità ricca di pietas, alla saggezza di una menzogna che in questo caso tutela il diritto alla paternità, sia anche quest’ultima fittizia, o addirittura fraudolenta. Dio è ingiusto, ma Giobbe impara ad amarlo, e si consola con la cenere. Per la Ginzburg le prove, ed eccoci tornati al punto di partenza, dell’esistenza di Dio sono “scarse e inconcludenti”. Ma a volte chi crede in Dio, aggiunge, “ha la sensazione di amare tale assenza di prove” (Id: 100). Il vegliardo protagonista del romanzo Snuff o l’arte di morire (2013) dirà che forse non è importante sentire la presenza di Dio, perché lui è altro: “magari questa che noi chiamiamo assenza” (Mannuzzu 2013: 68). Il dialogo con l’ultima produzione della Ginzburg diventa davvero decisivo. Ritornano qui l’ambiguità estrema della vita, l’oscuro procedere del desiderio, e la condanna all’incompletezza di ogni motivo, in nome della quale, godelianamente, si chiudeva il romanzo Procedura (Mannuzzu 2015: 209).

In questi aspetti di Mannuzzu saggista si potrebbero infine riscontrare, ma sarebbe un’altra ipotesi tutta da esplorare, i sintomi precisi di una radicale tardività, nel senso dello “stile tardo” scandagliato da Adorno e Said (Said 2006). Alla fine su tutto prevale la disarmonia degli ultimi quartetti di Beethoven. La frattura fra vita e forma, come fra cenere e ghiaccio, non si ricompone. E “la casa resta in disordine” (Mannuzzu 2015: 105). La soluzione paradossale che Mannuzzu sembra suggerirci è proprio quella di Giobbe e della Ginzburg. Essa consiste nell’amare tale disordine, ma rimanendo sempre all’altezza glaciale di quella combustione, che tenta disperatamente di redimerlo.

Note

1. Questo Giobbe di Mannuzzu, leopardiano “renitente al fato”, viene letto da Alessandro Cadoni come piccolo ma decisivo emblema di una più ampia lotta per la “riconquista del senso” perduto (Cadoni 2015).

2. A proposito del Mannuzzu saggista Massimo Onofri ha parlato di “eloquente reticenza” (Onofri 2009). Ma si potrebbe andare ancora oltre e giungere, in compagnia della Ginzburg di Giacomo Magrini, a una più pervicace “oltranza del riserbo” (Magrini 1996: 784-785).

Bibliografia

Cadoni, Alessandro, Riconquista del senso. L’elegia e la perdita in Salvatore Mannuzzu, in “La Nuova Sardegna”, 18 settembre 2015.

Ginzburg, Natalia, Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi 1990.

Lukács, György, Essenza e forma del saggio, in Id, L’anima e le forme, SE 2002.

Magrini, Giacomo, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, in Alberto Asor Rosa (cura), Letteratura italiana. Le opere, IV Il Novecento, II La ricerca letteraria, Einaudi 1996.

Mannuzzu, Salvatore, Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza, Edizioni dell’asino 2009.

Mannuzzu, Salvatore, Snuff o l’arte di morire, Einaudi 2013.

Mannuzzu, Salvatore, Procedura, Einaudi, 2015 (1ª edizione 1988).

Onofri, Massimo, Mannuzzu, prove di resistenza contro il presente, in “La Nuova Sardegna”, 22 aprile 2009.

Said, Edward W., Sullo stile tardo, Il Saggiatore 2009.

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