lunedì 14 settembre 2020

Riders di tutto il mondo, unitevi!


I riders latinoamericani lanciano lo sciopero globale - Paolo Marinaro

 

Con la pandemia sono stati classificati lavoratori essenziali. Aumentano i profitti del settore, non i salari e la sicurezza. Dopo scioperi in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Cile, Argentina e Brasile, arriva una data globale: 8 ottobre

 

Lo sciopero internazionale è un grido di soccorso di noi riders. Il rischio che corriamo quotidianamente lavorando in bicicletta o in moto nel traffico di grandi metropoli, ora si è aggravato a causa della pandemia. È molto importante che ci uniamo, con tutta la classe lavoratrice, anche in altri paesi, includendo i clienti che usano le applicazioni. Questa è una lotta di tutti. (Rider di San Paolo, Brasile)

Il 25 di agosto, una delegazione di riders dal Messico, Argentina, Brasile, Colombia, Cile ed Ecuador ha organizzato un’assemblea online per annunciare una giornata di sciopero e mobilizzazione globale programmata per l’8 Ottobre. Alla riunione hanno partecipato anche il collettivo spagnolo Riders Por Derechos, delegati dell’organizzazione sindacale inglese dei Lavoratori Indipendenti della Gran Bretagna (Iwgb) e la sezione californiana del sindacato nord americano dei lavoratori del settore dei servizi (Seiu Local 721).  

Maximiliano Martinez, o Massi, come lo chiamano i compagni, è uno dei leader del movimento in Argentina. «Il nostro obiettivo oggi è quello di rinforzare l’unità internazionale dei riders. Da quando è stata dichiarata la pandemia ci siamo accorti che la precarizzazione non è un problema nazionale, è un processo che si sta riproducendo come un calco in tutto il mondo. I bassi salari, le giornate di lavoro lunghissime, la quantità di incidenti e la totale mancanza di risposta da parte della controparte padronale ci hanno incoraggiato a iniziare una conversazione con le compagne e i compagni che fanno questo lavoro nella regione latinoamericana, ma anche negli Stati uniti, in Giappone, in India, in Inghilterra, in Spagna e in diversi altri paesi. Vogliamo definire un programma comune di rivendicazioni e costruire consenso internazionale intorno a una posizione politica chiara rispetto alle imprese e ai governi che stanno facilitando lo sfruttamento dei riders in una situazione d’emergenza come quella della crisi sanitaria del Covid-19».

Dall’inizio della pandemia, i governi dei paesi colpiti hanno classificato i riders come lavoratori essenziali. Le imprese che operano attraverso piattaforme digitali hanno incrementato esponenzialmente i profitti, esponendo i riders a una grave minaccia per la salute. D’altra parte, il riconoscimento dell’essenzialità del servizio di delivery per il funzionamento della società non si è accompagnato a una ricompensa economica, né a un incremento delle protezioni sociali e delle misure di sicurezza per tutelare la salute dei riders e delle loro famiglie. Al contrario, la pandemia ha esacerbato la vulnerabilitá di queste lavoratrici e lavoratori in tutto il mondo, e le imprese in molti paesi hanno ridotto in modo univoco e arbitrario i pagamenti di chi fa le consegne.

Come suggerisce Massi, la lotta di classe all’epoca del capitalismo pandemico deve trascendere i confini nazionali e articolare le richieste delle lavoratrici e dei lavoratori su scala transnazionale. Infatti, i riders latino-americani, che hanno promosso la riunione globale, hanno già organizzato tre scioperi internazionali dall’inizio della pandemia. Il 29 maggio, l’1 e il 25 luglio, decine di migliaia di riders hanno sfilato in moto e in bicicletta verso i ministeri del lavoro in Messico, Guatemala, Costa Rica, Ecuador, Perú, Brasile, Cile e Argentina. Da Brasilia a Buenos Aires, da Santiago a Città del Messico, i riders latinoamericani si sono organizzati per reclamare maggiori protezioni sociali e l’accesso ai diritti del lavoro garantiti dalle leggi nazionali, oltre a una serie di misure più puntuali che rispondono all’emergenza Coronavirus. Alcune delle richieste riguardano i dispositivi di protezione personale, il congedo per malattia, l’assicurazione sulla vita, il risarcimento per le famiglie dei compagni e le compagne cadute sul lavoro, la sospensione del sistema di ranking che obbliga a lavorare sette giorni a settimana per dodici ore al giorno, oltre a un aumento del pagamento per consegna e per km durante la contingenza sanitaria.

 

Una nuova forma di internazionalismo

Gli scioperi internazionali e le giornate di azione globale sono state promosse da diversi collettivi di base latinoamericani: Agrupación Trabajadores de Reparto (Aggruppamento Ciclo-fattorini) in Argentina, #NiUnRepartidorMenos Internacional (Non Un Rider Di Meno Internazionale) che ha membri in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Cile e Argentina, gli Entregadores Antifascistas (Riders Anti-fascisti) e Treta No Trampo in Brasile, Glovers Ecuador, Darle Vuelta A Todo (Capovolgere Tutto) in Argentina, Riders Unidos e Ya (Riders Uniti Ora) in Cile. Un vero e proprio laboratorio di classe, come ha suggerito Rafael Groham, che promuove importanti innovazioni strategiche per il futuro del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. 

La centralità di organizzazioni e collettivi di base nella creazione di reti di attivismo internazionale e nella promozione di strategie di comunicazione che permettono di superare le frontiere nazionali e le barriere linguistiche, è una novità significativa per la militanza globale delle lavoratrici e dei lavoratori. A partire dagli anni Novanta, con l’obiettivo di affrontare le imprese multinazionali su scala globale, i sindacati, le Ong e altre organizzazioni internazionali hanno giocato un ruolo centrale nella politica delle alleanze transnazionali dei lavoratori. Nel caso dei riders, invece, sono proprio le lavoratrici e i lavoratori, in modo autonomo e autogestito che stanno costruendo una risposta globale alle imprese multinazionali della gig-economy. 

Il regime del falso autonomo

D’altra parte, la marginalità dei sindacati nel movimento dei riders latinoamericani non è solamente una scelta strategica, una forma di rifiuto della burocrazia sindacale e delle diplomazie internazionali. Si tratta di una questione di necessità, imposta dalle politiche industriali delle piattaforme digitali che assumono i riders come lavoratori e lavoratrici indipendenti. 

A Febbraio, a Città del Messico, ho conosciuto Daniel, che ha 56 anni e lavora con Rappi, l’impresa di food delivery colombiana leader nel mercato latinoamericano. Daniel vive con sua moglie e due figlie a Tlahuac, che si trova a tre ore di distanza da Città del Messico. Ogni mattina parte alle cinque da Tlahuac con la sua bicicletta, la carica sul bus e poi sulla metro affollata della capitale messicana, per raggiungere i quartieri coperti dalle applicazioni in tempo per consegnare le prime colazioni. Daniel dice che questo lavoro gli piace perché alla sua età è importante tenersi in forma e pedalare gli fa bene, ma allo stesso tempo non ha dubbi rispetto alla sua condizione che definisce di falso-autonomo. 

Un lavoratore indipendente può decidere dove, quando e per quanto lavorare, ma con le piattaforme questo non è possibile, altrimenti non farei sei ore di viaggio al giorno per venire in centro. Fin dal momento della formazione che offre l’impresa, ti dicono in modo molto chiaro: tu non lavori per noi, tu usi l’applicazione per guadagnare, ma non sei un dipendente. In realtà lavori proprio per loro e sei un dipendente a tutti gli effetti. Infatti, con il sistema di punti che hanno implementato, devi collegarti in certe fasce orarie e per una quantità minima di ore, altrimenti ti disconnettono e perdi il lavoro. 

Secondo i collettivi che hanno promosso la giornata d’azione globale, il regime del falso-autonomo è una manipolazione legale delle imprese per evitare i costi del lavoro ed evadere le responsabilità stabilite dalle leggi nazionali. La classificazione come lavoratore autonomo o dipendente ha importanti conseguenze legali, in quanto coincide con diversi doveri per le imprese e diritti per chi lavora. I lavoratori dipendenti hanno diritto alla previdenza sociale e all’assicurazione sanitaria, mentre i lavoratori autonomi, o falsamente-autonomi, perdono l’accesso a una serie di diritti garantiti dalle leggi nazionali, includendo il diritto a organizzarsi in un sindacato che rappresenti i propri interessi con le imprese e alla negoziazione collettiva. 

La classificazione della relazione di lavoro è una delle richieste centrali della giornata d’azione globale. Infatti, proprio a Ottobre, in California, si voterà per una proposta di legge, che minaccia di annullare le recenti conquiste dei lavoratori e le lavoratrici californiane della gig-economy. In California, a partire dal primo gennaio del 2020 è entrata in vigore la legge AB5, che facilita il riconoscimento come lavoratrici e lavoratori dipendenti di coloro che prestano servizi per imprese che operano attraverso piattaforme digitali. Il nuovo disegno di legge, invece, pretende ritornare alla formula del lavoratore autonomo stabilendo un precedente legale che potrebbe avere ripercussioni in tutto il mondo. 

«In Messico, se muoio sul lavoro, se perdo la vita mentre esco per guadagnare due pesos, nessuno aiuta la mia famiglia, nessuno obbliga l’impresa a farsi carico del rapporto di lavoro o a garantire un indennizzo. L’8 Ottobre dobbiamo unirci per colpire le imprese dell’economia digitale a casa loro, in un territorio simbolico, dove questo modello economico è nato solamente pochi anni fa», ha concluso durante l’assemblea Saul Gómez, uno dei fondatori del collettivo Ni Un Repartidor Menos.

 

Non Un Rider di Meno 

Saul ha 33 anni e lavora per diverse imprese di food-delivery a Città del Messico. L’ho incontrato con la sua bici, per la prima volta, a ottobre del 2019. Ci siamo visti di fronte a una caffetteria di Coyoacán, il quartiere dove hanno vissuto Frida Khalo e Diego Rivera, nel sud di Città del Messico, a pochi isolati dalla casa in cui León Trotsky trovò rifugio durante il suo esilio. Ci siamo seduti su una panchina, mentre Saul mi ha raccontato di Ni Un Repartidor Menos. «Il collettivo nasce il 27 di Novembre del 2018, quando alle due del pomeriggio, un camion dell’immondizia ha investito e ucciso un compagno repartidor, Jose Manuel Matías. Era il suo primo giorno di lavoro per UberEats e l’impresa ha negato qualsiasi responsabilità».

Da allora, solamente in Messico, oltre sessanta giovani uomini e donne hanno perso la vita mentre stavano lavorando per le imprese del food-delivery, e in nessun caso le multinazionali hanno offerto una forma di risarcimento economico alle famiglie. In una città densa di contraddizioni, dove ogni giorno oltre 22 milioni di persone si muovono a ritmi frenetici, gli incidenti stradali, gli assalti, le rapine e le sparatorie sono all’ordine del giorno, e chi lavora per strada è particolarmente vulnerabile. 

Una compagna del collettivo Ni Un Repartidor Menos mi ha raccontato l’esperienza delle donne che fanno questo lavoro in una città come la capitale messicana: «Sfortunatamente viviamo in una società violenta e maschilista. Qui la violenza sessuale è qualcosa che viviamo tutte, bambine, bambini, e persone adulte. Non c’è distinzione. E con questo lavoro siamo particolarmente esposte. Poco tempo fa, nel centro finanziario della città, un cliente ha ricevuto una compagna sull’uscio di casa, completamente nudo e con un’erezione. Noi lo abbiamo segnalato all’impresa, ma loro non hanno fatto niente, non c’è stato nessun tipo di conseguenza per i clienti. Altre compagne sono state violentate, ma le imprese non rispondono alle segnalazioni».

Neanche di fronte a ripetute denunce per molestie sessuali, le imprese hanno preso provvedimenti per denunciare i clienti alle autorità o per lo meno per evitare di mandare altre vittime a consegnare al loro domicilio. UberEats, Rappi, Glovo e le altre piattaforme nascondono la responsabilità legale per le centinaia di morti sul lavoro dietro la manipolazione del «falso-autonomo». E purtroppo, con la pandemia, le vittime del capitalismo digitale continuano ad aumentare. 

Una lotta di Tutti 

D’altra parte, la completa mancanza di protezione dei lavoratori non è una novità introdotta dall’organizzazione digitale del lavoro. Storicamente, il processo di decostruzione delle protezioni sociali e dei diritti del lavoro conquistati nel dopoguerra, risale almeno alla fine degli anni Settanta. In Italia, lo abbiamo conosciuto con la categoria «flessibilità», ed è il percorso che progressivamente ci ha portato dai tradizionali contratti a tempo indeterminato, con i quali si andava in pensione e si comprava la casa, ai contratti interinali, che hanno incenerito le prospettive di stabilità di intere generazioni. Nelle megalopoli latinoamericane invece, il lavoro informale, o in nero, cioè senza contratto, è una delle principali fonti di precarietà. In Messico, per esempio, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica e Geografia, più del 53% della popolazione è impiegata nel mercato informale. E dal 2016, quando le multinazionali della gig-economy sono arrivate nel paese, sono in molti i lavoratori informali che sono passati a offrire i propri servizi alle imprese che operano attraverso le app. 

Il capitalismo digitale rappresenta una nuova fase dell’inesorabile processo di precarizzazione e decostruzione delle protezioni sociali, che si avvale degli algoritmi, l’automazione e l’intelligenza artificiale per ridurre i costi del lavoro, aumentare il profitto di pochi azionisti e fuggire alla responsabilità sociale delle imprese. 

Poco prima dell’assemblea internazionale, ho avuto la possibilitá di discutere di questi processi con Galo, che ha 31 anni ed è uno dei leader del collettivo Entregadores Anti-Fascistas di San Paolo, in Brasile. Per Galo, è chiaro che la lotta per la dignitá del lavoro deve necessariamente essere antifascista, soprattutto in un contesto come quello del Brasile governato da Jair Bolsonaro. Durante la nostra chiacchierata, Galo si è riferito alla precarizzazione imposta dalle piattaforme del food-delivery con la categoria «uberizzazione», che definisce come una forma di controllo e organizzazione del lavoro risultato dell’evoluzione tecnologica del capitalismo: 

Con la rivoluzione industriale è stata introdotta una nuova tecnologia: la macchina. Il padrone si è reso conto che una macchina poteva fare il lavoro di dieci operai e gli permetteva di ridurre i costi di produzione, aumentando i profitti. L’uberizzazione è un ulteriore sviluppo tecnologico del capitalismo che sta avendo un enorme impatto sui diritti dei lavoratori. È importante allora che tutti i lavoratori si uniscano per lottare contro l’uberizzazione del lavoro, non solamente i riders, perché è un processo che si sta già estendendo ad altri settori, come la rivoluzione industriale si è estesa dalle fabbriche ai campi ed ha raggiunto tutti i lavoratori. Tutta la classe si deve unire in questa lotta. Dobbiamo lottare perché la tecnologia sia al servizio della classe lavoratrice, non del profitto dei padroni.

Galo suggerisce che l’esperienza dei riders è un modello per la classe lavoratrice in generale. La gig-economy e la gamma di servizi offerti attraverso piattaforme digitali si è ormai estesa a una quantità incalcolabile di mansioni e professioni: dai lavori domestici ai servizi di traduzione e consulenza. Per qualsiasi necessità del mercato, dalle operazioni più semplici a quelle che richiedono sofisticate competenze professionali, esiste una piattaforma digitale che offre personale qualificato a basso costo e senza protezioni sociali, che può lavorare da casa o a domicilio, senza un contratto di lavoro. 

La pandemia ha accelerato il processo di «uberizzazione» o «piattaformizzazione» del lavoro, a causa dell’introduzione di misure di quarantena e distanziamento sociale. Servizi come quelli offerti dai riders, che si avvalgono dell’utilizzo di tecnologie digitali per organizzare il lavoro e il rapporto fra domanda e offerta, sono diventati uno strumento di sopravvivenza nel nuovo scenario globale pandemico. Attraverso queste tecnologie, la «nuova normalità», come si è iniziata a definire la ristrutturazione pandemica del capitale, ha sferrato un ulteriore attacco ai diritti del lavoro. 

Una manipolazione ideologica così profonda – spiega Galo – che molti di noi non si riconoscono più come lavoratori. L’obiettivo degli Entregadores Antifascistas è di promuovere nuovamente l’identità e la dignità del lavoro a partire dalla strada. Vogliamo fare della strada uno spazio politico come lo sono state la fabbrica e la catena di montaggio. La lotta è una sola, ed è una lotta politica, antifascista e antirazzista.

In questa fase storica, i riders sono un’avanguardia della resistenza anticapitalista. Dobbiamo imparare dalla loro esperienza per identificare le strategie attraverso cui ricostruire globalmente il potere dei lavoratori e delle lavoratrici, senza contare sulle organizzazioni e le leggi che tradizionalmente ne hanno rappresentato gli interessi, avvalendoci della la tecnologia per costruire solidarietá, resistenza e antagonismo.  

*Paolo Marinaro è un ricercatore che lavora con l’università della California a Los Angeles e il Center for Global Workers’ Rights. Si occupa di lavoro e movimenti sociali in Messico e negli Stati Uniti. La foto di apertura dell’articolo è di Julia Thompson e Renato Maretti.

da qui


 

Messico e riders: lavorare senza tutele ai tempi del Covid-19 - Caterina Morbiato

 

Con la pandemia i riders affrontano un carico di lavoro maggiore. Il sistema di valutazione delle app però non è andato in quarantena: ritardi o ordini incompleti significano meno clienti. Avanza il Covid-19 e aumenta anche l’insicurezza lavorativa.

 

(traduzione di Alessandro Bricco e Caterina Morbiato)

 

Circa quattro giorni fa, Mauricio Fluss é andato a caccia di mascherine. Era notte fonda e aveva completato una parte dell’ordine che un cliente aveva fatto attraverso l’applicazione di food delivery Rappi: tonno in scatola, maionese, carta igienica. È stato facile, ha trovato un SevenEleven (catena di negozi aperti 24 ore, ndr) aperto e si è rifornito.

Mancava però un’altra parte dell’ordine: cinque mascherine. E cosí ha pedalato per otto chilometri alla ricerca di una farmacia aperta e, dopo averla trovata, ha pedalato per altri quattro chilometri per trovarne una che non solo fosse aperta ma che avesse anche delle  mascherine. Un’ora e mezza dopo, vittorioso, aveva completato il suo ordine. 

Ha guadagnato 33 pesos (1,25 euro).


La precarietà lavorativa alle stelle

Con l’avanzare della pandemia, gli ordini sono diventati più lenti e più difficili da completare, come quando si tratta di ottenere mascherine e guanti. E anche più pesanti dato che i riders che fanno le consegne in bici possono trasportare fino a 25 kg tra frutta, verdura e prodotti vari del supermercato.

D’altra parte, non portare a termine un ordine o rifiutarlo non è un’opzione che tutti possono permettersi.

Il sistema di punteggio e valutazione delle applicazioni non è andato in quarantena: i riders vengono valutati dai clienti e una scelta “sbagliata”, come interrompere un ordine perché lo sforzo e il tempo necessari non valgono i pochi pesos di profitto, può tradursi in ritorsioni automatiche.

Se il tuo punteggio diminuisce, l’algoritmo ne prende nota e prepara il tuo castigo: meno clienti per te. Se hai acquistato la maggior parte della merce dell’ordine ma te lo annullano perché ci hai messo troppo tempo a consegnarlo, dovrai pagare di tasca tua.

Nel mezzo della pandemia, l’abituale precarietà lavorativa sale alle stelle.

Quindi, ti proteggi come puoi: decidi di lavorare per Didi Food, Rappi, UberEATS. Mauricio è ora collegato a ognuna di queste tre applicazioni: vuole provare a guadagnare quello che guadagnava prima. Anche se non si fida degli aiuti che potrebbero dargli le imprese nel caso si contagi di covid-19, lavorare come rider è la sua unica fonte di ingresso e non ha intenzione di smettere.

“Devi continuare a lavorare perché o ti uccide il virus o ti uccide la fame, questo è il problema”, dice scrollando le spalle.

Dallo stato di Sinaloa, nel nord del Messico, il portavoce del collettivo Ni Un Repartidor Menos Culiacán, Gerardo Antonio Valenzuela Lizarraga, gli fa eco.

“Se non lavoriamo, non mangiamo. Viviamo alla giornata”, commenta in un’intervista telefonica.

Gerardo spiega che, ad oggi, le applicazioni attive nella città di Culiacán (la capitale dello stato di Sinaloa, ndr) non hanno fornito alcun tipo di protezione ai riders. Per questa ragione, lui e i suoi compagni di collettivo vogliono chiedere aiuto ad istituzioni come la Croce Rossa o la Protezione Civile. L’altra opzione sarebbe comprare glicerina e alcool per preparare gel antibatterico e distribuirlo ai riders che lavorano in città; se la spesa diventa eccessiva, potrebbero organizzare una colletta insieme ai loro colleghi.

“Normalmente quando chiediamo una cooperazione è per qualcuno che ha avuto un incidente: gli diamo il denaro raccolto così può sopravvivere durante il periodo di degenza —osserva—. Ora sarebbe bene unirsi vista l’emergenza. L’iniziativa andrebbe a beneficio dei riders, ma anche dei clienti: proteggendo noi, proteggiamo anche loro”.

 

Azioni collettive 

Sono le tre e mezza del pomeriggio di mercoledì 9 aprile. Mauricio e altri membri dei collettivi Ni Un Repartidor Menos e Deliverlibres da poco più di un’ora sono arrivati al Parco della Bombilla, nel sud di Città del Messico. Hanno cercato riparo all’ombra di alcuni alberi a pochi metri dal monumento ad Álvaro Obregón; da qui ricevono i riders che arrivano.

Di fronte all’assalto della pandemia, i collettivi di riders fanno quello che sono abituati a fare in situazioni di emergenza: praticare un aiuto mutuo con le poche risorse disponibili.

Una settimana fa hanno ottenuto una donazione di 30 litri di gel antibatterico dall’Unità di Soccorso e Urgenze Mediche (ERUM) della Secretaría de Seguridad Ciudadana (agenzia del governo incaricata della supervisione della sicurezza pubblica) e hanno iniziato la distribuzione in vari punti della città dove sanno che transitano i riders.

Oggi pomeriggio si occupano anche di disinfettare gli zaini con prodotti sanitari che hanno donato i membri dell’organizzazione di cicloattivisti División del Sur: “sono biologici e resistono sulle superfici per 24 ore”, assicurano.

Disinfetta, igienizza, pulisci. Insieme al virus, in Messico si diffonde anche la paura.

“Ora che siamo senza protezioni ed esposti al virus le applicazioni si sono dimenticate di noi —afferma Mauricio—. Per fortuna però ci stiamo organizzando: se nessuno lo fa, chi meglio di noi?”

Disinfetta, igienizza, pulisci. Ti proteggi come puoi.


Cosa succede se mi ammalo?

Finora le applicazioni hanno reagito diversamente all’emergenza. Al di là dei messaggi sulle misure di igiene che inviano costantemente ai riders, non tutte hanno comunicato chiaramente quali misure verranno applicate durante la crisi sanitaria.

Alcune, come Didi Food, distribuiscono kit di protezione sanitaria —una bottiglietta di gel antibatterico, 50 paia di guanti e 10 mascherine— ai loro riders che devono ritirarli negli uffici dell’azienda.

Altre, come Rappi, sono evasive. Attraverso un comunicato stampa rilasciato il 23 marzo, l’impresa ha annunciato un investimento in “apparecchiature e processi per garantire che i riders rispettino tutti i protocolli di sicurezza durante il trasporto e al momento della consegna degli ordini, distribuendo oltre 200mila gel antibatterici e mascherine come parte delle misure”. L’impresa, inoltre, annuncia di star finanziando campagne di educazione e prevenzione per garantire la fiducia degli utenti in merito alle misure di controllo e igiene.

Abbiamo cercato l’azienda Rappi per sapere quando e come inizierà la distribuzione di gel antibatterici, nonché i metodi per diffondere queste campagne di prevenzione. Al momento di questa pubblicazione, non si é ottenuta nessuna risposta.

C’è però un’incertezza ancora più grande. Diverse applicazioni —Rappi, Didi, UberEATS— hanno annunciato un aiuto economico nel caso in cui i riders dimostrino, con un certificato medico, di essere positivi al covid-19. Le misure annunciate parlano di un fondo di emergenza di cui però non si stabilisce né l’importo né la modalità di erogazione.

Inoltre, non tutti gli istituti di sanità pubblica stanno conducendo test e il costo di un test privato è di circa 3.500 pesos.

Didi coprirà fino a un mese di guadagno, ma solo parzialmente. Se ti ammali e lo dimostri, Rappi e Uber fanno una stima di quello che che guadagni normalmente e te ne assicurano solo una certa percentuale”, spiega Mauricio. Si sforza di fare chiarezza su un procedimento che fin dall’inizio è stato comunicato con ambiguità.

“Ho contattato il centralino di Rappi e mi hanno detto che dovevo isolarmi e che non potevo più uscire a fare le consegne”, spiega Maximiliano, un giovane rider che è in isolamento da più di una settimana con quelli che sembrano essere i sintomi del coronavirus.

“Hanno detto che mi monitoreranno e aspetteranno di sapere come si sviluppa la mia situazione, ma quando ho chiamato non hanno menzionato nulla del fondo di sostegno economico: l’ho scoperto da solo perché ho letto i metodi di prevenzione che ha comunicato Rappi a noi riders”.


Eroi usa e getta

Come già accaduto in paesi come l’Italia, gli Stati Uniti o l’Argentina, i servizi di consegna a domicilio sono diventati un settore essenziale durante la pandemia. Da un lato, questo può rappresentare un vantaggio per quelle persone che non possono uscire di casa e riescono così ad ottenere provviste o medicine. D’altra parte, non tutto ciò che viene ordinato tramite le applicazioni rappresenta un bene di prima necessità.

Dall’Italia, diversi gruppi di riders sostengono con determinazione che una pizza o un hamburger consegnati a domicilio non sono l’equivalente di un servizio indispensabile, non sono un diritto. È aberrante che i riders debbano rischiare la propria salute, oltre che guadagnare una miseria.

Nel paese mediterraneo, finora il più solito dal virus —alle ore 18:00 del 9 aprile, i dati ufficiali  riportano la morte di 18.279 persone—, i riders hanno protestato per più di un mese attraverso i social networks con comunicati congiunti e campagne virtuali di sensibilizzazione della popolazione in cui ripetono: “non abbiamo bisogno di eroi, vogliamo uno stipendio di quarantena”, “sicurezza per tutti” e “anche noi vogliamo il diritto alla quarantena”.

Diversi gruppi come Deliverance Milano, Riders Union Bologna, Riders per Napoli-Pirate Union, non solo denunciano l’inadempienza delle applicazioni —che per legge dovrebbero fornire i dispositivi di protezione ai riders ma chiedono anche che venga garantito un contributo economico durante il periodo di emergenza per non doversi trovare a scegliere se rischiare la vita lavorando o smettere di lavorare restando senza soldi per vivere.

Accusano il governo di considerarli come eroi usa e getta: figure utili per alimentare una retorica nazionalista romanticizzata che inneggia alla solidarietà nazionale mentre si dimenticano le disuguaglianze che attraversano il tessuto socio-economico del paese.

Secondo il ricercatore Marco Marrone, studente di post-dottorato del Centro per le Discipline Umanistiche e il Cambiamento Sociale dell’Università Cà Foscari di Venezia, il governo italiano ha affrontato la crisi attraverso la costruzione di un nuovo regime di lavoro basato sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli. Questi includono, ad esempio, i dipendenti del settore della logistica e dell’agricoltura, dove prevale il lavoro migrante.

“Quello che stiamo vedendo è una nuova polarizzazione del mercato del lavoro —sottolinea Marrone—: c’è una parte dei lavoratori che possono rimanere a casa protetti e un’altra parte che è costretta a rimanere per strada. Il governo non smetterà di parlare di solidarietà nazionale, ma che tipo di paese è quello in cui la sopravvivenza di un lavoratore si basa sullo sfruttamento di un altro?”

da qui

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