venerdì 30 ottobre 2020

L’esercito degli educatori - Emiliano Schember

Un esercito di educatori marcia inarrestabile attraverso le periferie degradate, i centro città indecorosi, recidendo le sacche del disagio, sbaragliando la devianza, pacificando le indocili genti che pascolano senza vergogna ai margini della civiltà, redimendo chi è disposto a pentirsi della sua inadeguatezza e consegnando alla legge i recidivi.

Con una certa regolarità l’opinione pubblica è scossa da episodi di brutale violenza commessi da minorenni su altri minorenni o su adulti più o meno fragili. D’improvviso lo sconcerto si impadronisce dei più di fronte a video su YouTube nei quali indifesi insegnanti vengono impietosamente bullizzati dai propri studenti, ma anche di fronte a episodi ripugnanti come stupri di gruppo, accoltellamenti, pestaggi. È in queste occasioni che politici, giornalisti, spacciatori di opinioni, invocano gli educatori: un esercito di educatori. Questo mantra è il contraltare progressista di chi impugna il manganello, fa tintinnare le manette, chiede la galera per i genitori e l’abbassamento dell’età punibile fino al periodo fetale e sbraita per più esercito, più polizia, più carabinieri, ronde, porto d’armi in allegato ai quotidiani in edicola e pistole nei distributori automatici agli autogrill. Curiosamente a quest’ultima categoria appartengono i difensori della famiglia contro agli assistenti sociali, quando un bambino abusato da un parente viene portato in una comunità.

Il comune denominatore tra i sostenitori della società law & order e quelli della società liberale dove “tutti nasciamo uguali e con le stesse opportunità e poi saranno i nostri talenti a stabilire chi diventeremo”, è la tendenza a individualizzare il disagio: i ragazzi che commettono atrocità sono individui con qualche problema, risolvibile con la galera o con un percorso educativo a seconda dell’orientamento del maître à penser. Così come secoli fa, ancora oggi si tende a considerare il comportamento violento un problema d’indole o, addirittura, di spessore morale; quindi, se un ragazzino partecipa a uno stupro di gruppo, pesta un altro ragazzino o lo accoltella è perché è fatto così, è cattivo: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise!”.

Se tutto si riduce a una questione morale, o qualche positivista potrebbe dire genetica, “perbacco è tutto scritto nel Dna!”, si capisce allora che tipo di esercito deve essere quello degli educatori: un esercito della salvezza. Nel caso della natura genetica del male passeremmo, addirittura, dalla missione salvifica a quella miracolistica! Non si capisce in base a quale particolare disposizione un educatore, nell’incontro empatico, si dice così, con il ragazzino deviante, dovrebbe mostrargli che la vita non è tanto male, che ci sono tante possibilità e che è solo una questione di volontà coglierle o meno. Ecco, è una questione di volontà. Quindi se non le cogli, le occasioni, è colpa tua.

Che poi l’educatore, se non è un volontario, sia un lavoratore precario, sfruttato, malpagato, frustrato, represso, calpestato, odiato, è una cosa che nessuno mette in conto, ma che potrebbe comprensibilmente inficiare la sua capacità di prospettare al ragazzo praterie sconfinate di possibilità. Meno che mai potrebbe essere, agli occhi del giovane deviante, un modello salvifico di identificazione.

Eppure, caso strano, nessuno nell’invocare l’esercito degli educatori rivendica un miglioramento delle condizioni di vita delle truppe. Neanche gli stessi soldati. Questo succede perché anche molti educatori si sentono investiti di una missione salvifica, sono convinti che il loro lavoro consista nel salvare gli assistiti, nel redimerli, nel farli diventare persone migliori. Anche molti educatori, quindi, condividono l’orizzonte morale del disagio giovanile, si possono far diventare buoni i cattivi: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame scoppiò in un pianto disperato!”.

L’abnegazione personale, la vocazione salvifica, operando di fatto come fattori di rimozione delle condizioni di vita dell’educatore, che con il suo lavoro occupa un segmento preciso della catena di produzione e riproduzione sociale ed economica, nascondono la violenza di cui quelle condizioni di vita sono espressione. La precarietà lavorativa, che diventa precarietà esistenziale, che conduce tanti laureati di vario livello sulla strada della proletarizzazione o, in termini più contemporanei, dell’impoverimento rispetto alle condizioni economiche della famiglia di provenienza, è di fatto la manifestazione di una violenza sistemica che attiva un ascensore sociale al contrario, che spinge le persone verso il basso.

L’educatore che subisce questa forma non spettacolare di violenza incontra sulla sua strada giovani, provenienti spesso da contesti nei quali non c’è mai stata nessuna forma di ascensore sociale, né verso l’alto né verso il basso, che vivono un quotidiano fatto di relazioni affettive brutali, prive di elaborazione, inabilitanti sul piano cognitivo, che trovano nelle istituzioni come la scuola moltiplicatori di disagio per la pochezza e l’inadeguatezza dei mezzi e, talvolta, l’impreparazione del personale docente, che hanno nella violenza, in quanto possessori di un corpo, l’unica possibilità di affermazione e di riconoscimento rispetto al contesto nel quale vivono.

Non c’è una strategia esplicita, una pianificazione, al fondo dell’uso della violenza che i ragazzi fanno, ma l’esibizione di atteggiamenti aggressivi e il tentativo di imporsi attraverso l’esercizio nudo e crudo della forza sono una possibilità presente negli abituali rapporti sociali: chi ha visto Briatore imitare Trump in Apprentice Italia, può capire come a un ragazzo delle tante periferie urbane italiane possa venire in mente che prendere a calci un altro ragazzino per stabilire chi comanda sia tutto sommato lecito.

Di fronte a questo tipo di violenza, che non ha niente a che fare con l’indole o la moralità della persona, ma è la diretta espressione della nostra organizzazione sociale, la base su cui si fondano in gran parte le nostre relazioni anche affettive, l’educatore salvifico non ha strumenti, perché l’intento missionario con cui rimuove la consapevolezza della sua condizione di sfruttato gli impedisce di vedere le dinamiche sociali che sono alla base dei comportamenti violenti dei ragazzi. L’educatore con il suo fardello di violenza subita inconsapevolmente incontra il ragazzo con il suo bagaglio di violenza agita, ma non metabolizzata, e ne risulta disarmato, impotente.

Questa impotenza, quando non porta l’educatore al burn-out, lo spinge a rifugiarsi in una narrazione fantastica del suo lavoro nel quale ogni alito di vento è una dichiarazione d’amore, mentre la violenza delle relazioni sociali resta sostanzialmente immutata. L’esercito degli educatori è un album di figurine.

Più che salvare il prossimo e redimere i ragazzi, l’educatore dovrebbe partire da un profondo lavoro di coscientizzazione, che lo renda consapevole del senso del proprio lavoro. Per fare questo l’universo atomizzato e precario degli educatori dovrebbe attivare al suo interno delle sinapsi: entrare in contatto, abbandonare la narrazione dell’individuo come alfa e omega dell’esistente, che ha avvelenato l’umanità negli ultimi quaranta anni, e riscoprire la dimensione collettiva. Percepirsi e iniziare ad agire come soggetto collettivo pronto a fronteggiare un sistema di produzione e riproduzione sociale ed economico che ha nella marginalità, nell’alienazione e nella violenza che ne deriva il suo nutrimento. L’educatore dovrebbe riscoprire la natura sostanzialmente politica del suo lavoro.

All’università insegnano che l’intervento educativo per essere tale deve trasformare i soggetti e i contesti abitati dai soggetti. Però all’università nulla dicono su ciò che fonda i contesti; i giovani educatori lo scoprono sulla loro pelle e per lo più si rifugiano nel meccanismo rimossivo: nessun individuo può fronteggiare un intero modo di produzione. Ma come soggettività collettiva l’educatore potrebbe arrivare alla consapevolezza che un intervento educativo per essere tale deve mirare a essere rivoluzionario.

Allora il problema non sarà più pacificare un soggetto alienato facendogli ingoiare o rimuovere la sua alienazione, ma renderlo consapevole delle ragioni di una violenza che è solito agire senza elaborarla. In termini un po’ estremi si potrebbe dire che la funzione dell’educatore non è nascondere il sasso che il ragazzo sta per lanciare, né tantomeno convincere il ragazzo a non lanciarlo, dato che i motivi della sua rabbia vanno oltre il gesto in sé, ma aiutarlo a comprendere le ragioni profonde del suo gesto mettendolo nelle condizioni di scegliere se o contro chi lanciare il sasso.

“Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame baciò il Direttore sulla bocca!”.

da qui

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