lunedì 12 ottobre 2020

Le 200 regine del profitto - Francesco Gesualdi

In un mondo dove c’è una vera e propria ossessione per la rilevazione dei dati, c’è invece un ambito dove i dati scarseggiano. E’ quello delle multinazionali che finisce per essere addirittura avvolto in un’aurea di mistero.

Perfino sulla loro definizione non c’è accordo preciso, il che spiega perché esistano stime le più varie perfino sul loro numero.

In questo contesto, assume particolare importanza  lo sforzo del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di monitorare le prime 200 multinazionali, corredandole di una serie di articoli di approfondimento che ogni anno  danno luogo a un dossier intitolato Top 200.

Ed essendo un’attività che si protrae ormai da una diecina di anni, sono possibili anche confronti che permettono di seguire l’evoluzione delle top 200.

Tendenzialmente si nota una loro crescita su tutti i fronti, ma fatturati e profitti crescono più di quanto non crescano gli occupati.

Più precisamente, fra il 2005 e il 2019 il loro fatturato complessivo è aumentato del 69% e i profitti del 62%, mentre l’occupazione solo del 35%.

Un dato che conferma un assetto produttivo in rapida trasformazione. Infatti mentre un tempo le imprese tendevano ad integrarsi vertical­mente, in modo da controllare tutte le fasi della pro­duzione, oggi preferiscono appaltare il più possibile all’esterno, possibilmente in paesi a bassi salari, per ridurre i loro costi di produzione.

Un altro dato di rilievo è come stia  cambiando la nazionalità delle Top 200. La novità principale è rappresentata dall’avanzata della Cina che da  19 multinazionali nel 2009, è passata a 50 nel 2019, e non a detrimento degli Stati Uniti, che anzi avanzano anch’esse passando da 59 a 60, ma degli stati europei.

 

Di particolare interesse anche la composizione delle principali economie mondiali mettendo insieme multinazionali e stati, le prime per il loro fatturato e le seconde per il loro Pil.

Il risultato è che fra i primi cento posti siedono 42 multinazio­nali, precisando che la prima compare al 25° posto, prima del Venezuela. La situazione cambia radicalmente se anziché in base al Prodotto Interno Lordo, gli stati sono elencati in base agli introiti governativi.

Rappre­sentazione più reale perché basata su criteri più omogenei. Osservando questi dati, fra i primi cen­to posti siedono ben 69 multinazionali, con la pri­ma multinazionale che compare al 13° posto, prima dell’Australia.

Il dossier, che abitualmente esce ad ottobre, è formato da due parti. La prima dedicata a considerazioni e classifiche sulle Top 200, la seconda ad approfondimenti su temi connessi al mondo produttivo  ed altre tematiche di particolare importanza per il tempo che stiamo vivendo.

Il numero di quest’anno, consultabile al link , offre approfondimenti sugli assetti proprietari delle imprese quotate in borsa, sulle imprese della carne, sui profitti non tassati, sugli effetti del lockdown sul mondo del lavoro e i diversi settori produttivi, sul crescente divario fra gli stipendi degli alti dirigenti e gli altri lavoratori.

Dal 1978 al 2019, la paga dei di­rigenti delle grandi imprese americane è cresciuta del 1.167%. Per contro nello stesso periodo la paga di un lavoratore medio è cresciuta solo del 13,7%. 

Nel 2019 il rapporto fra la paga di un grande dirigente e quella di un lavoratore medio è stato 320 a 1. Nel 1965 il rapporto era 21 a 1. Poi ci si sorprende per la crescita delle disuguaglianze.

da qui

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