martedì 13 ottobre 2020

L’addio – Antonio Moresco

come Ivan Karamazov, Antonio Moresco si interroga sul dolore e la violenza sui bambini, in un romanzo che sembra un giallo (reale e metafisico).

un poliziotto indaga su un traffico di bambini e per questo si reca nella città di Morti, per capire cosa è successo.

avrà alcune risposte, e torna alla città dei Vivi, dove certe volte nell'aria si sente un misterioso canto di bambini.

il dolore dei bambini è la cosa più inaccettabile del mondo, ma non si può fermare, il mondo lo continua a produrre, senza fermarsi mai, e sembra impossibile fermarlo, al poliziotto.

e tutti siamo dentro questa storia.

un libro da non perdere.


 

 

 

QUI un’intervista ad Antonio Moresco

 

 

…Più si va avanti con la lettura e più si capisce che, in realtà, la Città dei Vivi e la Città dei Morti non hanno alcuna differenza tra loro ma sono, anch’esse, una delle tantissime metafore che Moresco usa per descrivere una realtà che lui odia, che denuncia, che l’ha spinto a ritirarsi dal mondo della Letteratura e della Scrittura gridando il suo “Addio” a una società che lui disprezza.

Nella sua denuncia egli non risparmia nessuno: i Vivi e i Morti sembrano due popoli immersi in una realtà atrofizzata, dove i rapporti umani sono segnati da ipocrisie, falsità e dove le emozioni vengono paralizzate dai social e dal web; dove i bambini non hanno la libertà essere se stessi, di vivere, di inventare, ma vengono “uccisi” mentalmente e moralmente dalla società e, spesso, anche dai loro stessi genitori.

Bambini, in questo romanzo, sono il punto focale, l’emblema del pensiero filosofico e sociale di Moresco. Essi, infatti, rappresentano il lato più intimo e innocente di ogni uomo, strozzati e fatti morire dalla realtà che li circonda e dal modo in cui vengono cresciuti.

Il Male qui viene descritto come parte integrante della vita di tutti giorni, cosa che pochi eletti come D’Arco cercheranno di ribaltare senza mai riuscirci, perché il mondo stesso ha scelto di vivere in questo modo.

Con uno stile molto cinico e diretto, a tratti anche spietato, Antonio Moresco con questo “L’Addio” cerca di porre fine, forse, alla sua carriera da scrittore emarginato e ci lascia una sorta di testamento letterario, invitandoci a combattere la sua stessa battaglia, ma con la consapevolezza che sarà impossibile eliminare “tutta l’acqua del mare con un cucchiaino”.

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Per la prima volta l’autore è stato ispirato a scrivere in un genere distrutto per inflazione, una specie di thriller. Ma al contrario di ciò che succede di solito in quella forma usurata, in cui – non solo nelle sue versioni più trite – si prova a cercare la verità, qui è molto più ciò che per pudore si occulta: come fosse oscena l’intera esistenza. Il protagonista – D’Arco il suo nome – è uno sbirro morto dagli occhi bianchissimi, il quale appunto sostiene: «Io non voglio più fare il detective, cercare indizi, accumulare prove di tutto questo male. Io non voglio più svolgere indagini, non mi interessa cercare la verità se questa è la verità. Io non voglio farmi complice di questa verità. Io voglio solo alleggerire un po’ la pressione, diminuire almeno un po’ tutto questo male…»

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Di fronte alla tenerezza dell’uomo per il bambino fa quasi un passo indietro anche l’amore che è meno presente che negli altri romanzi di Moresco. La tenerezza per il bambino riempie tutto il romanzo in modo bello e straziante e la si percepisce dal non detto, dal non descritto, dal rispetto con cui è trattato il tema da uno scrittore che di solito non ci risparmia nulla. La critica al male è radicale, c’è il male evidente dell’uomo di luce che risplende nella sua terribile ovvietà e c’è il male nascosto nelle pieghe della società, subdolo e carnivoro. C’è una descrizione della materia che rimanda alla morte, all'abiezione, al degrado come quando vengono descritti certi personaggi che mangiano, ruttano, guardano film porno come se piacere e dolore fossero strettamente legati e il male si nascondesse tra le pieghe della vita, di quella che consideriamo vita. I bambini cuciti, i bambini che cantano però sono immagini di pace, nonostante tutto. Certo, di fronte al dolore dell’innocente non c’è risposta solo umana.
Come direbbe Camus, anche se tutti dovessero morire di peste il medico resta al suo posto a fare il medico fino alla fine e pure il poliziotto e, perché no, lo scrittore con i suoi occhi bianchi. Infatti, le parole sono importanti per combattere il male: sono il cannone, la mitragliatrice, la pistola e la bomba a mano.

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L’addio è una cometa disincagliata dalla costellazione degli Increati (Mondadori, 2015). È un pianto creaturale, una mostra delle atrocità. È una scrittura eventuale, probabilistica, condotta per quanti di energia. Sull’orizzonte degli eventi le forze piegano il diagramma cartesiano del mondo, gli opposti trovano una cucitura, fra arte popolare e arte sacra, fra Grand Guignol e le efferatezze di Francis Bacon, fra noir e arte marziale, surrealismo fauve e manga. Il dagherrotipo che emerge ha il bianco e nero dei sogni e dei capolavori del cinema muto, come La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer (1928), nel quale recitava Antonin Artaud, il padre del “teatro della crudeltà”. Oggi nelle stesse fosforescenze brillano i nervi di Antonio Moresco.

In questo suo ultimissimo romanzo esistono due città: quella dei vivi e quella dei morti. La polizia dei vivi ha una linea speciale con quella dei morti e quest’ultima aiuta la prima nel risolvere i casi, interrogando direttamente le vittime precipitate nell’altro mondo. D’Arco è uno “sbirro morto”, la cui missione è ritornare nella “città dei vivi” per indagare su una terribile mattanza. Ad aiutarlo un bimbo muto, con una cicatrice intorno al collo, a forma di collana di spine.

Il nome D’Arco richiama certo la pulzella d’Orléans, la guerriera in ascolto privilegiato del Divino (l’acustica è centrale nella vicenda: i bimbi della città dei morti, infatti, intonano un canto ultrasonico, udibile solo all’iniziato D’Arco), ma anche, per assonanza fonetica, l’aggettivo dark, quell’oscuro scrutare che domina la messinscena moreschiana…

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…Non basta, dunque, rendersi conto che le parole dei singoli carnefici, se lette come un corpus unico, compongono la narrazione di un male sotterraneo che potrebbe erompere, prima di quanto si possa immaginare, nel nostro mondo: in quello spicchio di realtà che ogni mattina vediamo fuori dalla finestra. Si tratta di un male che si alimenta con l’idea che «i comportamenti delle donne e gli uomini di questa specie non sono diversi da quelli dell’ultima colonia di scimpanzé. […] Tutto il resto, quelle cose che hanno chiamato sentimenti, ideali, amore, sono solo chiacchiere di copertura e inganni su cui hanno costruito quella grande menzogna che hanno chiamato civiltà». Non basta rendersi conto che la città di Moresco è sì una megalopoli del futuro, ma non così dissimile dalle immense conurbazioni che già conosciamo. Non basta, se la gran parte della lettura è spesa rincorrendo raffiche di domande troppo uguali e corpi che cedono alla morte abbattuti da proiettili di un qualche calibro, o sviscerati da una qualche lama.

Sopito il caos della battaglia, spente le luci accecanti del videogioco, sopravvive la messa in guardia, l’allerta, il grido d’aiuto che l’autore lancia ai membri, ai custodi quali tutti siamo della nostra specie. È questo l’addio di Moresco, quello diretto al lettore a mo’ di prologo, e non è dato sapere se si trasformerà in un arrivederci, ma se così non fosse sarebbe allora un addio a una società che davvero non ha ragion d’essere: «Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come sono configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene immiserita e rimpicciolita, anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni anelito si trasforma in delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la ristrettezza di orizzonte, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione».

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Leggere l’Addio è una cupa discesa negli inferi, in un mondo dove non esiste speranza e dove tutto è caotico, dove le domande esistenziali afferrano D’Arco senza lasciargli pace, ammorbandolo e devastandolo dall’interno, fino alla rivelazione finale in stile Fight Club: “tu sei diventato grande perché io sono stato ucciso da bambino, e io sono un bambino solo perché tu sei stato ucciso da grande. Perché io sono morto per far vivere te e tu sei morto per fare vivere me.”

Nulla è chiaro, nulla è delineato, anche la triade di dogmi nascere-vivere-morire è messa in dubbio con forza, in un pessimismo cosmico che fa impallidire il poeta di Recanati.

Quelle vocine che cantano dall’alba dei tempi, e non smetteranno nemmeno alla fine, sembrano sussurrare il monito di uno dei tanti assassini che infestano le pagine maledette di Moresco: “perché i bambini vengono lasciati diventare grandi e uccidono poi altri bambini?”

Quel vecchio sembra tanto ricordare Emil Cioran.

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