mercoledì 21 ottobre 2020

la compravendita degli esami (a proposito di ius soli e ius culturae)

 

Suarez e il linguaggio dei professori di Perugia - Romano Luperini

 

 I fatti sono noti, una inchiesta è aperta, TV e giornali ne parlano. L’università per stranieri di Perugia, d’accordo col Rettore della Università statale della stessa città, ha fatto un esame-farsa al giocatore Suarez per farlo diventare in pochi minuti cittadino italiano e permettere il suo acquisto da parte della Juventus. Pare che il giocatore fosse stato preavvisato delle domande e informato sulle risposte che doveva dare. E infatti il giorno stesso dell’esame (durato esattamente dodici minuti) Suarez ha ricevuto una certificazione per la quale solitamente occorrono 45 giorni.

Attraverso le registrazioni sono documentati gli interventi telefonici del Rettore della università statale, della Rettrice dell’Università per gli stranieri, degli avvocati della Juventus e del direttore della area tecnica Paratici, di un addetto al “Centro per la valutazione e la certificazione linguistica” dell’Università, e dei professori incaricati di far sostenere l’esame al giocatore. Non entro nel merito di quanto è accaduto e della sua rilevanza penale. Mi interessa un altro aspetto: il linguaggio. I dirigenti e gli avvocati della Juventus, i rettori delle due università, il direttore generale della Università degli stranieri (un grande burocrate, insomma), i professori incaricati dell’esame, parlano lo stesso linguaggio e hanno la stessa cultura e lo stesso sistema di valori. Per loro il suddetto Paratici «è più importante di Mattarella», è inconcepibile che un giocatore «che guadagna 10 milioni di euro a stagione» debba sottostare a un esame normale (quello che ogni anno affrontano altri stranieri, etiopi, cinesi, coreani, nigeriani…), essere invitati in tribuna vip allo stadio della Juventus è un privilegio per cui sarebbe impensabile non chiudere  occhi e  orecchie (per non sentire che il giocatore sa coniugare i verbi italiani solo all’infinito, come ammette un insegnante), aiutare un centravanti che «ci fa vincere la Champions» è cosa assolutamente fuori discussione. L’unica differenza linguistica percepibile è che i legali e i tecnici juventini non parlano ovviamente il romanesco becero dei professori perugini, personaggi del tutto degni (non solo per  lingua, ma per cultura e ideologia) dell’immortale tipo d’italiano rappresentato da Alberto Sordi. Gli investigatori cercano la prova della corruzione: ma i dirigenti della Juventus non hanno bisogno di corrompere o persuadere i rappresentanti della università perché questi sono già persuasi per proprio conto.

Due osservazioni: per allettare i dirigenti della Università per stranieri il Rettore della statale fa presente che promuovere Suarez «sarebbe stato un modo per fare pubblicità». Detto fatto: il giorno del cosiddetto esame giornalisti e telecamere sono convocati e si affollano intorno all’illustre esaminato (giunto, pare, con aereo personale) che alla fine sventola l’ottenuto certificato nel tripudio di docenti, discenti, burocrati universitari, tecnici juventini (che nel frattempo però hanno fiutato lo scandalo e rinunciato a comprare Suarez, ma ancora nessuno lo sa). A questo è ridotta la Università: a vendersi l’anima per attirare studenti e investimenti, e insomma per farsi un po’ di pubblicità.

La seconda osservazione riguarda gli insegnanti di Perugia, quelli più sbracati nel loro romanesco, un tempo tipico delle borgate e ora, come sapeva Pasolini, diventato il linguaggio di una universale piccola borghesia. La loro lingua un tempo era quella del popolo, del proletariato e del sottoproletariato. Oggi è segno della proletarizzazione del ceto intellettuale, una massa che talora può anche rivoltarsi ma che in genere, non avendo una cultura alternativa, finisce senza neppure accorgersene per essere subalterna ai gruppi dirigenti. L’egemonia culturale che questi esercitano compatta a suo modo il paese, diventando egemonia ideologica e politica. Da questo punto di vista lo sport industrializzato di oggi è un ottimo collante. E infatti questi insegnanti rivelano qui tutte le loro frustrazioni, ma queste non alimentano una presa di coscienza, e si traducono invece in sterili sogni di successo (oh, essere invitati nella tribuna vip!) e in facili miti (il giocatore che ci fa vincere la Champions e che guadagna 10 milioni all’anno!). Hanno rinunciato ai valori civili e umanistici che erano (e in parte fortunatamente sono ancora) propri del loro ceto e parlano ormai la lingua dei loro dominatori.

da qui

 


L’ipocrisia tutta italiana sul diritto alla cittadinanza - Joshua Evangelista

 

La Juventus ha bisogno di un centravanti e lo individua nel bomber del Barcellona Luis Suarez, in rottura con la società e il nuovo tecnico Koeman. Una notizia di questo tipo generalmente appassiona i tifosi e i fanatici del calciomercato e lascia indifferenti il resto dei lettori. E invece, in questo caso, il possibile approdo dell’uruguaiano Suarez in Serie A (che a oggi appare tuttavia remoto) diventa un’occasione di riflessione sulla tenuta democratica dell’Italia.

L’antefatto è che la Juventus ha terminato i suoi slot disponibili per calciatori extracomunitari e quindi non può ingaggiare Suarez, che avrebbe potuto ottenere la cittadinanza spagnola (bastano due anni continuativi di residenza e lavoro nel paese) ma non l’ha mai richiesta. Quando questa notizia diventa di interesse generale?

Nel momento in cui emerge la possibilità, per Suarez, di ottenere il passaporto italiano attraverso la moglie Sofia Balbi, il cui padre avrebbe origini friulane. Richiedere la cittadinanza per Suarez è una corsa contro il tempo: il mercato dei calciatori termina il 5 ottobre e le pratiche devono essere fatte in tempi record.

Ed è proprio questa corsa contro il tempo che ha portato amarezza alle tante e ai tanti nate/i e cresciute/i in Italia per cui la cittadinanza resta un miraggio. Si tratta di un’amarezza che del resto si è acuita proprio lo scorso weekend, quando gli italiani sono stati chiamati al voto per il referendum costituzionale, le suppletive del Senato della Repubblica, le regionali e le amministrative.

Sarebbe un errore ingiusto e grossolano prendersela contro chi può ottenere la cittadinanza attraverso il proprio background o quello dei propri cari; allo stesso tempo è arrivato il momento che tutte le persone dotate di sensibilità e senso di giustizia si battano strenuamente affinché la legge sulla cittadinanza venga riformata il prima possibile. Per farlo, è necessario che questa battaglia non cada solo sulle spalle delle associazioni delle seconde generazioni. Che rappresentano una comunità di persone esasperate. Su Domani, ad esempio, Igiaba Scego ha ricordato la storia della romana Alessandra Samira Mangoud, madre flilippina e padre egiziano, morta nel 2009 a 29 anni senza mai aver avuto il passaporto della sua terra natia, l’Italia.

Ma andiamo con ordine.

 

La legge sulla cittadinanza oggi

Ad oggi la cittadinanza italiana può essere acquisita automaticamente per nascita in caso di persona straniera nata da almeno un cittadino italiano. Lo ius soli si applica solo se i genitori sono ignoti o apolidi, se il minore è stato rinvenuto in stato di abbandono all’interno del territorio italiano o in caso di adozione da parte di almeno un cittadino italiano.

Poi c’è la cittadinanza degli italo-discendenti. Italiani che probabilmente non hanno mai visto l’Italia, un tempo chiamati oriundi. Centinaia di migliaia di richieste da evadere per chi, magari in difficoltà economica in Uruguay, Brasile o Argentina e con un avo veneto o siciliano può aspirare a un preziosissimo passaporto europeo. Quando era viceministro degli Esteri, Mario Giro aveva affermato che nel mondo c’erano 80 milioni di potenziali aventi diritto alla cittadinanza, più degli italiani residenti in Italia. Del resto, come dimenticare il boom di richieste di cittadinanza del 2002, dopo la crisi dei bond argentini? Si racconta che davanti all’ambasciata italiana a Buenos Aires si era formata una sorta di tendopoli di richiedenti.

E infine ci sono i casi più comuni, quelli dei nati e cresciuti in Italia o adulti che risiedono in Italia da decenni le cui vite sono appese alla burocrazia, alla mala politica, agli slogan. Ci occuperemo di loro nel prossimo paragrafo.

 

Per rimanere in ambito sportivo, da un lato ci sono quelli alla Mauro Germán Camoranesi, campione del mondo nel 2006 in Germania con la nazionale di Lippi, nato nell’estrema periferia di Buenos Aires, il suo bisnonno Luigi era nato a Potenza Picena nel 1873. Rimproverato perché non cantava l’inno di Mameli prima delle partite degli Azzurri, rispose in maniera un po’ naif – e per questo prontamente pizzicato dai giornalisti – che lui non intonava neanche il suo, di inno (riferendosi a quello argentino).

Dall’altra parte ci sono quelle e quelli alla Alessandra Ilic, 16enne nata nel vicentino, campionessa di takaewondo che non può partecipare alle gare internazionali perché non ha la cittadinanza italiana. A scanso di equivoci vogliamo ribadire che in questo articolo, pur sostenendo il paradosso italiano del riconoscimento della cittadinanza, sosteniamo i diritti delle Ilic così come dei Camoranesi, dal momento che riteniamo la cittadinanza un lasciapassare per il riconoscimento di tutti i diritti civili e non uno stendardo da sfoggiare, reminiscenza nemmeno troppo vaga di tempi molto bui del secolo scorso.

 

Essere cittadini dopo il decreto Sicurezza di Salvini

In un articolo dell’8 luglio 2020, Eleonora Camilli racconta un episodio molto interessante che può dare un’idea di che inferno sia quello della richiesta della cittadinanza. La storia in questione è quella della 23enne Erandika Conthrath Arachchige, attivista del movimento “Italiani senza cittadinanza”. Arrivata in Italia dallo Sri Lanka a sette mesi e attualmente studentessa a Milano, Erandika ha fatto richiesta a 18 anni; nel 2017 hanno accettato la domanda, la pratica andava avanti (“dalla fase uno alla fase tre con l’istruttoria completata”) fino a quando, l’iter è tornato indietro perché “si stavano facendo accertamenti”. Un racconto che spiega bene il caos post decreto Sicurezza.

La norma che regolamenta la cittadinanza è la legge numero 91 del 1992. La cittadinanza può essere richiesta dagli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. In particolare il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica. Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio. La ‘cittadinanza per matrimonio’ è riconosciuta dal prefetto della provincia di residenza del richiedente.

Il decreto unico “immigrazione e sicurezza” approvato dal governo Conte I, i cui viceministri erano Mattero Salvini e Luigi Di Maio (due dei tre politici appena citati sono ancora al governo) e firmato dal presidente Mattarella il 4 ottobre 2018 modificava la legge di cittadinanza italiana in alcuni punti nevralgici:

  • la cittadinanza per residenza, così come quella per matrimonio, ha subito un aumento nelle tempistiche per processare le richieste dai 2 ai 4 anni;
  • il contributo per la richiesta è passato da 200 euro a 250;
  • è stato cancellato il cosiddetto silenzio-assenso. Se prima, una volta passati i due anni, in caso di mancata risposta le domande di cittadinanza non potevano essere abrogate, ora la risposta negativa può arrivare anche dopo i 4 anni ordinari.

Una degenerazione della legge 91/92, cosiddetta legge Turco, che di partenza conservava l’approccio estremamente nazionalista della precedente legge sulla cittadinanza del 1912, privilegiando il fantomatico diritto di sangue rispetto a quello del territorio.

Nazzarena Zorzella dell’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) nota altre storture. In primis a proposito dei nuovi requisiti, il test di lingua (che ha svolto anche Suarez, a Perugia) e la durata del procedimento “si applichino anche ai procedimenti in corso, dichiarando retroattiva la legge”. Ci sono storture anche nella comunicazione visto che le/i richiedenti vengono a conoscenza delle inammissibilità attraverso email che rimandano al sito del Ministero, “ancora una volta la creazione arbitraria di un diritto speciale per le persone straniere”. In più dal 2018 le inammissibilità sono “secche”, mentre prima “l’interessato poteva reagire mandando una memoria per spiegare il perché non ritiene giusto l’avviso di rigetto”. Come se non bastasse, le comunicazioni non hanno alcun numero di protocollo, quindi diventa impossibile rispondere e quindi interloquire con la pubblica amministrazione, “senza rispettare l’articolo 96 della Costituzione”.

 

E poi c’è il paradosso della revoca: il cittadino straniero può subire una revoca della cittadinanza per reati gravi. Anche su questo punto Zorzella non ha dubbi: “Si tratta di una condizione sempre sospesa. Vi sono, quindi, notevoli sospetti di illegittimità costituzionale per contrasto con l’articolo 22 della Costituzione, che vieta la revoca della cittadinanza per motivi politici”.

 

Cosa bolle in pentola oggi

“Credo che una riforma della legge sulla cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati e cresciuti in Italia, basata sullo Ius Soli, sia oggi urgente e prioritaria. Non possiamo lasciare un’intera generazione di figli di questo paese orfani di una chiara carta d’identità, una generazione di italiani di fatto ma stranieri per legge”. Lo diceva Pierluigi Bersani, nel 2012. Sono passati otto anni, la situazione è peggiorata drasticamente. E i diritti di chi vive in Italia da una vita o quasi sono rimasti totalmente inascoltati, fuori da ogni radar.

Marilena Fabbri, ex deputata del PD, “madre” e relatrice della legge sullo “Ius soli”, mai approvata dal Parlamento italiano ha raccontato a Repubblica che se potesse tornare indietro punterebbe sul concetto di “Ius culturae”. Che per molti è una briciola, un annacquare i diritti, ma che per altri “avrebbe fatto meno paura, perché affermava in modo estremamente semplice […] che la cittadinanza sarebbe stata concessa ai bambini nati in Italia, con almeno 5 anni di scuola primaria e comunque entro il 12° anno di età”. Un principio che per lo meno tutelerebbe quegli 800 mila bambini nati in Italia e che hanno compiuto un ciclo scolastico.

Forse davvero non è un granché, ma è un inizio. Il 3 ottobre a Roma un’ampia parte di quelle realtà che rappresentano coloro che sciattamente vengono chiamati “nuovi italiani”, oltre a organizzazioni come quella di Aboubakar Soumaoro, le Sardine, l’Anpi di Roma e l’Usb, tra gli altri, scenderanno in piazza per chiedere che la cittadinanza possa tornare a essere un diritto e non una concessione data in maniera schizofrenica, a partire da quell’articolo 3 della Costituzione che dice che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

La posta in gioco è alta, altissima. Del resto le sommosse in atto ovunque, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, ci dicono che ci sono in atto domande per diritti, inclusione e giustizia che vanno ben oltre i confini e le leggi nazionali. Sommariamente, da queste pagine facciamo il tifo affinché le persone come Suarez, quelle come Alessandre Ilic così come quelle bloccate alle porte d’Europa o negli hotspot africani possano essere giudicate in quanto portatrici di diritti universali non scalfibili da pezzi di carta il cui valore varia in base ai capricci dei governanti del momento o al sentire di chi li vota.

da qui

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