sabato 3 ottobre 2020

Las Meninas di Velazquez - Michel Foucault

Il pittore … fissa un punto invisibile, che noi, spettatori, possiamo agevolmente individuare poiché questo punto siamo noi stessi: il nostro corpo, il nostro volto, i nostri occhi. Lo spettacolo che egli osserva è due volte invisibile: non essendo rappresentato nello spazio del quadro e situandosi esattamente nel punto cieco, nel nascondiglio essenziale ove il nostro sguardo sfugge a noi stessi nel momento in cui guardiamo.

 

Diego Velazquez, Las Meninas, 1656

 

Le damigelle d’onore

1.

Il pittore si tiene leggermente discosto dal quadro. Dà un’occhiata al modello; si tratta forse di aggiungere un ultimo tocco, ma può anche darsi che non sia stata stesa la prima pennellata. Il braccio che tiene il pennello è ripiegato sulla sinistra, in direzione della tavolozza; è, per un istante, immobile fra la tela e i colori. L’abile mano è legata allo sguardo; e lo sguardo, a sua volta, poggia sul gesto sospeso. Tra la sottile punta del pennello e l’acciaio dello sguardo lo spettacolo libererà il suo volume.

Non senza un sistema sottile di finte. Indietreggiando un po’, il pittore si è posto di fianco all’opera cui lavora. Per lo spettatore che attualmente lo guarda egli si trova cioè a destra del suo quadro, che, invece, occupa tutta l’estrema sinistra. Al medesimo spettatore il quadro volge il retro; non ne è percepibile che il rovescio, con l’immensa impalcatura che lo sostiene. Il pittore, in compenso, è perfettamente visibile in tutta la sua statura; non è ad ogni modo nascosto dall’alta tela che, forse, di lì a poco lo assorbirà, quando facendo un passo verso di essa si rimetterà all’opera; probabilmente si è appena offerto in questo stesso istante agli occhi dello spettatore, sorgendo da quella specie di grande gabbia virtuale che proietta all’indietro la superficie che sta dipingendo. Possiamo vederlo adesso, in un istante di sosta, nel centro neutro di questa oscillazione. La sua scura sagoma, il suo volto chiaro, segnano uno spartiacque tra il visibile e l’invisibile: uscendo dalla tela che ci sfugge, egli emerge ai nostri occhi; ma quando fra poco farà un passo verso destra, sottraendosi ai nostri sguardi, si troverà collocato proprio di fronte alla tela che sta dipingendo; entrerà nella regione in cui il quadro, trascurato per un attimo, ridiventerà per lui visibile senza ombra né reticenza. Quasi che il pittore non potesse ad un tempo essere veduto sul quadro in cui è rappresentato e vedere quello su cui si adoperava a rappresentare qualcosa. Egli regna sul limitare di queste due visibilità incompatibili.

Il pittore guarda, col volto leggermente girato e con la testa china sulla spalla. Fissa un punto invisibile, me che noi, spettatori, possiamo agevolmente individuare poiché questo punto siamo noi stessi: il nostro corpo, il nostro volto, i nostri occhi. Lo spettacolo che egli osserva è quindi due volte invisibile: non essendo rappresentato nello spazio del quadro e situandosi esattamente nel punto cieco, nel nascondiglio essenziale ove il nostro sguardo sfugge a noi stessi nel momento in cui guardiamo. E tuttavia come potremmo fare a meno di vederla, questa invisibilità, se essa ha proprio nel quadro il suo equivalente sensibile, la propria figura compiuta? sarebbe infatti possibile indovinare ciò che il pittore guarda, se si potesse gettare lo sguardo sulla tela cui è intento; ma di questa non si scorge che l’ordito, i sostegni orizzontali e, verticalmente, la linea obliqua del cavalletto. L’alto rettangolo monotono che occupa tutta la parte sinistra del quadro reale, e che rappresenta il rovescio della tela rappresentata, restituisce sotto l’aspetto di una superficie l’invisibilità tridimensionale di ciò che l’artista contempla: lo spazio in cui siamo, che siamo. Dagli occhi del pittore a ciò che non potremmo evitare: attraversa il quadro reale e raggiunge, di qua dalla sua superficie, il luogo in cui vediamo il pittore che ci osserva; questa linea tratteggiata ci raggiunge immancabilmente e ci lega alla rappresentazione del quadro.

In apparenza, questo luogo è semplice; è di pura reciprocità: guardiamo un quadro da cui un pittore a sua volta ci contempla. Null’altro che un faccia a faccia, occhi che si sorprendono, sguardi dritti che incrociandosi si sovrappongono. E tuttavia questa linea sottile di visibilità avvolge a ritroso tutta una trama complessa d’incertezze, di scambi, di finte. Il pittore dirige gli occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo al posto del suo soggetto. Noialtri spettatori, siamo di troppo.

Accolti sotto questo sguardo, siamo da essi respinti, sostituiti da ciò che da sempre si è trovato là prima di noi: dal modello stesso. Ma a sua volta lo sguardo del pittore diretto, fuori del quadro, verso il vuoto che lo fronteggia, accetta altrettanti modelli quanti sono gli spettatori che gli si offrono; in questo luogo esatto, ma indifferente, il guardante e il guardato si sostituiscono incessantemente l’uno all’altro. Nessuno sguardo è stabile o piuttosto, nel solco neutro dello sguardo, che trafigge perpendicolarmente la tela, soggetto e oggetto, spettatore e modello invertono le loro parti all’infinito. E il rovescio della grande tela all’estrema sinistra del quadro esercita a questo punto la sua seconda funzione: ostinatamente invisibile, impedisce che possa mai essere reperito e definitivamente fissato il rapporto tra gli sguardi. La fissità opaca che regna da un lato, rende per sempre instabile il gioco delle metamorfosi che al centro si stabilisce tra spettatore e modello. Per il fatto che vediamo soltanto questo rovescio, non sappiamo chi siamo, né ciò che facciamo. Veduti o in atto di vedere? Il pittore fissa attualmente un luogo che di attimo in attimo non cessa di cambiare contenuto, forma, aspetto, identità. Ma l’attenta immobilità dei suoi occhi rinvia ad un’altra direzione da essi già sovente seguita e che ben presto, è certo, riprenderanno: quella della tela immobile su cui si sta tracciando, è forse tracciato da tempo e per sempre, un ritratto che più non si cancellerà. Cosicché lo sguardo sovrano del pittore ordina un triangolo virtuale, che definisce nel suo percorso il quadro di un quadro: al vertice – solo punto visibile – gli occhi dell’artista; alla base da un lato la sede invisibile del modello, dall’altro la figura probabilmente abbozzata sulla tela vista dal rovescio.

Nell’istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono ad entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio, prelevano da lui la sua luminosa e visibile essenza e la proiettano sulla superficie inaccessibile della tela voltata. Vede la sua invisibilità resa visibile al pittore e trasporta in una immagine definitivamente astuzia marginale. All’estrema destra il quadro riceve la sua luce da una finestra rappresentata secondo una prospettiva molto scorciata; non se ne vede che il vano dal quale il flusso di luce che essa largamente diffonde impregna a un tempo, di identica generosità, due spazi vicini, compenetrati ma irriducibili: la superficie della tela con il volume da essa rappresentato (cioè lo studio del pittore, o la sala in cui ha collocato il suo cavalletto) e di qua da questa superficie della tela il volume reale occupato dallo spettatore (o ancora la sede irreale del modello). Percorrendo la stanza da destra a sinistra, l’ampia luce dorata trascina lo spettatore verso il quadro e insieme il modello verso la tela; è sempre essa che, illuminando il pittore, lo rende visibile allo spettatore e fa brillare come altrettante linee d’oro agli occhi del modello il quadro della tela enigmatica ove la sua immagine, trasportatavi, si troverà rinchiusa. La finestra estrema, parziale, appena indicata, libera un luce intera e mista che serve da luogo comune alla rappresentazione. Essa equilibra, all’altro capo del quadro, la tela invisibile; questa, volgendo il retro agli spettatori, si chiude sul quadro che la rappresenta e forma, attraverso la sovrapposizione del suo rovescio, visibile sulla superficie del quadro portante, il luogo, per noi inaccessibile, ove scintilla l’Immagine per eccellenza; analogamente la finestra, pura apertura, instaura uno spazio tanto manifesto quanto l’altro è celato; tanto comune al pittore, ai personaggi, ai modelli, agli spettatori, quanto l’altro è solitario (nessuno infatti, nemmeno il pittore, lo guarda). Da destra si diffonde attraverso una finestra invisibile il puro volume d’una luce che rende visibile ogni rappresentazione; a sinistra si estende la superficie che evita, dall’altra parte del suo troppo visibile ordito, la rappresentazione da essa portata.

La luce, inondando la scena (intendo la stanza non meno della tela, la stanza rappresentata sulla tela e la stanza in cui la tela è posta), avvolge personaggi e spettatori e li trascina, sotto lo sguardo del pittore, verso il luogo ove il suo pennello li rappresenterà. Ma questo luogo, ci è sottratto. Ci guardiamo guardati dal pittore e resi visibili ai suoi occhi dalla stessa luce che ce lo fa vedere. E nell’istante in cui ci coglieremo trascritti dalla sua mano come in uno specchio, non potremo percepire, di quest’ultimo, che il rovescio oscuro. L’altro lato d’una psiche.


Ora, esattamente dirimpetto agli spettatori – a noi stessi -, sul muro che costituisce il fondo della stanza, l’autore ha rappresentato una serie di quadri; ed ecco che fra tutte queste tele sospese una brilla di singolare fulgore. La sua cornice è più larga , più scura di quella degli altri; ma una sottile linea bianca la ripete verso l’interno diffondendo su tutta la sua superficie una luce ardua da collocare, poiché non emana da nessun luogo se non da uno spazio che ad esso sia interno. In questa luce strana si mostrano due figure e sopra di esse, leggermente arretrato, un greve sipario di porpora. Gli altri quadri lasciano vedere solo qualche macchia più pallida al margine d’una notte senza profondità. Questo al contrario si apre su uno spazio in fuga, in cui forme riconoscibili si scaglionano in un chiarore che appartiene soltanto ad esse. In mezzo a tutti questi elementi che sono destinati ad offrire rappresentazioni, ma che le rifiutano, le nascondono, le evitano grazie alla loro posizione o alla loro distanza, questo è l’unico che funziona in piena onestà offrendo alla vista ciò che deve mostrare. La sua lontananza, l’ombra che lo circonda. Ma non è un quadro: è uno specchio. Esso offre infine la magia del duplicato che rifiutavano i dipinti lontani non meno che la luce in primo piano con la tela ironica. Di tutte le rappresentazioni che il quadro rappresenta è la sola visibile; ma nessuno lo guarda. In piedi a lato della sua tela e intento unicamente al suo modello il pittore non può vedere questo specchio che brilla mite dietro di lui. Gli altri personaggi del quadro sono per lo più volti anch’essi verso ciò che deve aver luogo davanti – verso la chiara invisibilità che orla la tela, verso il balcone di luce ove i loro occhi possono vedere quelli che li vedono e non verso la cavità cupa che chiude la camera in cui sono rappresentati. Vi sono è vero alcune teste che si presentano di profilo: ma nessuna è girata abbastanza da guardare, in fondo alla sala, questo specchio desolato, piccolo rettangolo lucente, che altro non è se non visibilità, ma priva di sguardi che possano farsene padroni, renderla attuale e godere del frutto all’improvviso maturo del suo spettacolo.

Occorre riconoscere che tale indifferenza non trova riscontro che in quella dello specchio. Esso infatti non riflette nulla di ciò che si trova nello stesso suo spazio; né il pittore che gli volta le spalle, né i personaggi al centro della stanza. Nella sua chiara profondità non accoglie il visibile. Nella pittura olandese era consuetudine che gli specchi svolgessero una funzione di duplicazione: ripetevano ciò che era dato una prima volta nel quadro, ma all’interno d’uno spazio irreale, modificato, ristretto, incurvato. Vi si vedeva la medesima cosa che nella prima istanza del quadro, ma decomposta e ricomposta secondo un’altra legge. Qui lo specchio non dice nulla di ciò che è già stato detto. Eppure la sua posizione è quasi centrale: il suo margine superiore coincide con la linea che divide in due l’altezza del quadro, occupa sul muro di fondo (o per lo meno sulla parte visibile di questo) una posizione mediana; dovrebbe pertanto essere attraversato dalle stesse linee prospettiche del quadro stesso; ci si potrebbe aspettare che uno stesso studio, uno stesso pittore, una stessa tela si disponessero in esso secondo uno spazio identico; potrebbe costituire il duplicato perfetto.

Invece non fa vedere nulla di ciò che il quadro stesso rappresenta. Il suo sguardo immobile mira a cogliere oltre il quadro, nella regione necessariamente invisibile che ne forma la facciata esterna, i personaggi che vi sono disposti. Anziché indugiare presso gli oggetti visibili lo specchio traversa l’intero campo della rappresentazione trascurando ciò che potrebbe captarne, e restituisce la visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo. L’invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato: non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso invisibile sia dalla struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto. Ciò che in esso si riflette è ciò che tutti i personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé; è dunque ciò che potrebbe essere veduto se la tela si prolungasse anteriormente scendendo ancora fino ad avvolgere i personaggi che servono da modelli al pittore. Ma, poiché la tela si arresta a questo punto, mostrando il pittore e il suo studio, è anche quanto sta fuori del quadro, nella misura in cui è quadro, cioè frammento rettangolare di linee e colori demandato a rappresentare qualcosa agli occhi di un qualsiasi eventuale spettatore. In fondo alla stanza, da tutti ignorato, lo specchio inatteso fa splendere le figure cui guarda il pittore (il pittore nella sua realtà rappresentata, oggettiva, di pittore al lavoro); ma altresì le figure che al pittore guardano (nella realtà materiale che linee e colori hanno deposto sulla tela). Queste due figure sono inaccessibili entrambe ma in modo diverso: la prima in virtù di un effetto di composizione che è proprio del quadro; la seconda in virtù della legge che presiede all’esistenza stessa di un qualsiasi quadro in genere. Il gioco della rappresentazione consiste qui nel portare l’una al posto dell’altra, in una rappresentazione instabile, queste due forme dell’invisibilità – e di restituirle all’istante stesso all’altra estremità del quadro – al polo che è il più intensamente rappresentato: il polo d’una profondità di riflesso nel cavo di una profondità di quadro. Lo specchio ancora assicura una metatesi della visibilità che incide, a un tempo, nello spazio rappresentato nel quadro e nella sua natura di rappresentazione: mostra, al centro della tela, ciò che nel quadro è due volte necessariamente invisibile.

Strano modo di applicare letteralmente, ma capovolgendolo, il consiglio che il vecchio Pachero aveva dato, sembra, al suo discepolo, quando lavorava nello studio di Siviglia; « L’immagine deve uscire dal quadro ».

2.

Ma è tempo di dare un nome infine a quest’immagine che appare in fondo allo specchio e che il pittore di qua dal quadro contempla. È forse meglio definire una buona volta l’identità dei personaggi presenti o indicati, al fine di non trovarci intricati all’infinito in queste designazioni fluttuanti, un po’ astratte, sempre suscettibili di equivoci e di sdoppiamenti; “il pittore”, “i personaggi”, “i modelli”, “gli spettatori”, “le immagini”. Invece di inseguire all’infinito un linguaggio fatalmente inadeguato al visibile basterebbe dire che Velazquez ha composto un quadro; che in questo quadro ha rappresentato se stesso nel suo studio o in una sala dell’Escoriale nell’atto di dipingere due personaggi che l’infanta Margherita si reca a contemplare, circondata di governanti, di damigelle d’onore, di cortigiani e di nani; che a questo gruppo si possono con grande precisione attribuire nomi: la tradizione riconosce qui doña Maria Augustina Sarmiente, là Nieto, in primo piano Nicola Pertusato, buffone italiano. Basterebbe aggiungere che i due personaggi che servono da modelli al pittore non sono visibili, perlomeno direttamente; ma che possono essere scorti in uno specchio; che si tratta indubbiamente del re Filippo IV e di sua moglie Marianna.

Questi nomi propri costituirebbero utili punti di riferimento, eviterebbero designazioni ambigue; ci direbbero ad ogni modo ciò che il pittore guarda, e insieme con lui la maggior parte dei personaggi del quadro. Ma il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente ci cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non starà mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi. Il nome proprio, tuttavia, in questo gioco non è un artificio: permette di additare, cioè di far passare furtivamente dallo spazio in cui si parla allo spazio in cui si guarda, cioè di farli combaciare comodamente l’uno sull’altro come se fossero congrui. Ma volendo mantenere aperto il rapporto tra il linguaggio e il visibile, volendo parlare a partire dalla loro incompatibilità e non viceversa, in modo da restare vicinissimi sia all’uno che all’altro, bisognerà allora cancellare i nomi propri e mantenersi nell’infinito di questo compito. E forse attraverso la mediazione di questo linguaggio grigio, anonimo, sempre meticoloso e ripetitivo perché troppo comprensivo che il dipinto a poco a poco accenderà i suoi chiarori. Occorre dunque fingere di non sapere chi si rifletterà nel fondo dello specchio e interrogare il riflesso medesimo al livello della sua esistenza.


Esso è anzitutto il rovescio della grande tela rappresentata a sinistra. Il rovescio o piuttosto il dritto poiché mostra frontalmente ciò che essa cela grazie alla sua posizione. Inoltre si oppone alla finestra e la rinforza. Non diversamente da questa, costituisce infatti uno spazio comune al quadro e a ciò che gli è esterno. Ma la finestra opera in virtù del movimento continuo di un’effusione che da destra a sinistra unisce ai personaggi attenti, al pittore, al quadro, lo spettacolo che contemplano; lo specchio invece, grazie a un movimento violento, istantaneo e di pura sorpresa cerca di qua dal quadro ciò che è guardato ma non visibile, al fine di restituirlo, sul fondo di questo spazio inventato, visibile ma indifferente a tutti gli sguardi. Il tratteggio imperioso che unisce il riflesso e ciò che in esso si riflette recide perpendicolarmente il flusso laterale della luce. Infine – ed è questa la terza funzione dello specchio – affianca una porta che si apre come esso nel muro di fondo. Anche questa ritaglia un rettangolo chiaro la cui luce opaca non si irraggia nella stanza. Non sarebbe che un riquadro dorato se non fosse scavato verso l’esterno di un battente scolpito, dalla curva di una tenda e dall’ombra di alcuni scalini. Qui comincia un corridoio; ma invece di sprofondarsi nell’oscurità si disperde in uno sfolgorio giallo ove la luce senza entrare turbina su se stessa e riposa. Su questo sfondo vicino e illimitato a un tempo, un uomo si stacca nella sua alta figura; è di profilo, con una mano trattiene il peso di un tendaggio; i suoi piedi sono posti su due gradini diversi; ha il ginocchio piegato. Forse entrerà nella stanza; forse si limiterà a spiare ciò che in essa accade, contento di sorprendere senza essere osservato. Non diversamente dallo specchio egli fissa il rovescio della scena: e, al pari dello specchio, non gli si presta attenzione alcuna. Non si sa donde viene; si può supporre che seguendo malcerti corridoi abbia aggirato la stanza ove i personaggi sono riuniti e in cui lavora il pittore; anch’egli forse era, poco fa, sul davanti della scena nella regione invisibile che contemplano tutti gli occhi del quadro.[1] Come le immagini che si scorgono nel fondo dello specchio è forse un emissario di questo spazio evidente e nascosto. Vi è tuttavia una differenza. È là in carne ed ossa; sorge dal di fuori, al limite dell’area rappresentata; è indubitabile – non riflesso probabile ma irruzione. Lo specchio facendo vedere, di là degli stessi muri dello studio, ciò che avviene di qua dal quadro, fa oscillare, nella sua dimensione sagittale, l’interno e l’esterno. Con un piede sullo scalino e il corpo interamente di profilo il visitatore ambiguo entra ed esce a un tempo, in un bilanciamento istantaneo delle immagini che attraversano la stanza, penetrano lo specchio, vi si riflettono e ne rimbalzano, nuove e identiche, sotto l’aspetto di forme visibili. Pallide, minuscole, le figure nello specchio sono respinte dall’alta e solida statura dell’uomo che sorge nel vano della porta.

Ma occorre ridiscendere dal fondo del quadro verso la parte anteriore della scena; occorre lasciare il circuito di cui abbiamo percorso la voluta. Partendo dallo sguardo del pittore che, a sinistra, costituisce come un centro spostato, si scorge anzitutto il rovescio della tela, poi i quadri esposti con nel centro lo specchio, poi la porta aperta, poi altri quadri, dei quali una prospettiva molto scorciata lascia vedere solo le cornici nel loro spessore, infine, all’estrema destra, la finestra, o piuttosto lo squarcio attraverso cui irrompe la luce. Questa conchiglia elicoidale offre l’intero ciclo della rappresentazione: lo sguardo, la tavolozza e il pennello, la tela innocente di segni (vale a dire gli strumenti materiali della rappresentazione), i quadri, i riflessi, l’uomo reale (vale a dire la rappresentazione ultimata ma come redenta dei suoi contenuti illusori o veri che le sono giustapposti); poi la rappresentazione si scioglie: ormai se ne vedono soltanto le cornici e la luce che dall’esterno impregna i quadri, ma che questi di rimando devono ricostituire nella loro natura propria come se venisse da un altro luogo attraversando le loro cornici di legno scuro.

  

E questa luce è infatti visibile sul quadro che sembra sorgere nell’interstizio della cornice; e da lì raggiunge la fronte, gli zigomi, gli occhi, lo sguardo del pittore che tiene in una mano la tavolozza, e nell’altra il sottile pennello… In tal modo si chiude la voluta o piuttosto, grazie a questa luce, si apre.

Quest’apertura non è più, come sullo sfondo, una porta che è stata socchiusa: è l’ampiezza stessa del quadro, e gli sguardi che l’attraversano non sono quelli di un visitatore lontano. Il celetto che occupa il primo e il secondo piano del quadro rappresenta – se vi includiamo il pittore – otto personaggi. Cinque di essi, con la testa più o meno china, voltata o piegata, guardano in direzione perpendicolare al quadro. Il centro del gruppo è occupato dalla piccola infanta, con la sua ampia veste grigia e rosa. La principessa gira la testa verso la destra del quadro, mentre il suo busto e i grandi volanti della veste fuggono leggermente verso la sinistra; ma lo sguardo cade diritto sullo spettatore che si trova di fronte al quadro. Una linea mediana che dividesse la tela in due ante uguali passerebbe tra gli occhi della bambina. Il suo volto è a un terzo dell’altezza totale del quadro. Di modo che lì, senza alcun dubbio, risiede il tema principale della composizione; lì, l’oggetto stesso di questo dipinto. Come per dimostrarlo e sottolinearlo ancora meglio l’autore è ricorso ad una figura tradizionale: vicino al personaggio centrale ne ha posto un altro inginocchiato e che lo sta guardando. Come il donatore in preghiera, come l’Angelo che saluta la Vergine, una governante in ginocchio tende le mani verso la principessa . il suo volto si staglia secondo un perfetto profilo. È all’altezza di quello della bambina. La governante guarda la bambina e non guarda che lei. Un po’ più verso destra c’è un’altra damigella, voltata anch’essa verso l’infanta, leggermente china su di lei, ma con gli occhi chiaramente volti in avanti, dove già guardano il pittore e la principessa. Infine due gruppi di personaggi: l’uno è più indietro, l’altro composto di nani, è in primissimo piano. In ognuna delle due coppie un personaggio guarda dritto davanti a sé, l’altro a destra o a sinistra. Per posizione e statura questi due gruppi si rispondono e si duplicano: in secondo piano i cortigiani (la donna a sinistra guarda verso destra); in primo piano i nani (il bambino che è all’estrema destra guarda verso l’interno del quadro). Questo insieme di personaggi, così disposti, può costituire due figure, a seconda dell’attenzione che si porta al quadro o del centro di riferimento che si sceglie. La prima sarebbe una grande X; al punto superiore sinistro vi sarebbe lo sguardo del pittore e a destra quello del cortigiano; all’estremità inferiore sinistra vi è l’angolo della tela vista dal retro (più esattamente, il piede del cavalletto); a destra il nano (più esattamente la sua scarpa posta sul dorso del canee). All’incrocio di queste due linee, nel centro della X, lo sguardo dell’infanta. L’altra figura sarebbe piuttosto una vasta curva; i suoi due punti estremi sarebbero determinati dal pittore a sinistra e dal cortigiano di destra – estremità alte e retrocesse; l’incavo, molto più ravvicinato, coinciderebbe con il volto della principessa, e con lo sguardo che ad esso rivolge la governante. Questa linea leggera disegna una vasca, la quale a un tempo rinserra e libera in mezzo al quadro l’area dello specchio.

 

Due sono quindi i centri che possono organizzare il quadro, a seconda di come l’attenzione ondeggi e si fermi qui o là la principessa è ritta in mezzo ad una croce di Sant’Andrea ruotante intorno a lei col turbine dei cortigiani, delle damigelle d’onore, degli animali e dei buffoni. Ma questo ruotare è bloccato. Bloccato da uno spettacolo che sarebbe assolutamente invisibile se questi stessi personaggi, improvvisamente immobili, non offrissero come nel cavo d’una coppa la possibilità di guardare nel fondo dello specchio il duplicato imprevisto della loro contemplazione. Nel senso della profondità la principessa si sovrappose allo specchio; in quello dell’altezza è il riflesso che si sovrappone al volto. Ma la prospettiva li rende vicinissimi l’uno all’altra. Ora, da ciascuno di essi scaturisce una linea inevitabile; l’una, spuntata dallo specchio, varca l’intero spessore rappresentato (e anche di più, dal momento che lo specchio fora il muro di fondo e fa nascere dietro di esso un altro spazio); l’altra è più breve; proviene dallo sguardo della bambina e attraversa solo il primo piano.

Queste due linee sagittali sono convergenti secondo un angolo molto acuto e il loro punto d’incontro, scaturendo fuori della tela, si fissa davanti al quadro press’a poco là da dove guardiamo. Punto incerto poiché non lo vediamo; punto inevitabile tuttavia e perfettamente definito, essendo imposto da queste due figure sovrane e confermato ulteriormente da altre tratteggiate adiacenti che nascono dal quadro e se ne scostano anch’esse.

Cosa vi è infine in questo luogo perfettamente inaccessibile in quanto esterno al quadro, ma imposto da tutte le linee della sua composizione? Di quale spettacolo si tratta, a chi appartengono i volti che si riflettono dapprima nel fondo delle pupille dell’infanta, poi in quelle dei cortigiani e del pittore, e da ultimo nella luminosità lontana dello specchio? Ma la domanda immediatamente si sdoppia: il volto riflesso dallo specchio è al tempo stesso quello che lo contempla; ciò che guardano tutti i personaggi del quadro sono ancora i personaggi ai cui occhi essi vengono offerti come una scena da contemplare. Il quadro nella sua totalità guarda una scena per la quale esso a sua volta è una scena. Pura reciprocità che lo specchio guardante e guardato manifesta, e i cui due momenti sono risolti ai due angoli del quadro: a sinistra il rovescio della tela ad opera del quale il punto esterno diviene puro spettacolo; a destra il cane disteso, unico elemento del quadro che non guardi né si muova, essendo fatto, con la sua massa voluminosa e la luce che gioca nel pelo lucido, soltanto per essere un oggetto da guardare.

 

 

La prima occhiata sul quadro ci ha insegnato di che cosa è fatto questo spettacolo-a-fronte. Si tratta dei sovrani. Possiamo già intuire la loro presenza nello sguardo rispettoso del gruppo, nello stupore della bambina e dei nani. Li riconosciamo all’estremità del quadro, nelle due figurine che lo specchio fa scintillare. In mezzo a tutti questi volti attenti, a tutti questi corpi addobbati, essi sono la più pallida, la più irreale, la più compromessa di tutte le immagini: un movimento, un po’ di luce basterebbero a farli svanire. Di tutti questi personaggi rappresentati essi sono inoltre i più trascurati, poiché nessuno presta attenzione al riflesso che s’insinua dietro tutti e s’introduce silenziosamente attraverso uno spazio insospettato; nella misura in cui sono visibili sono la forma più fragile e più lontana da ogni realtà. Inversamente, nella misura in cui, situandosi all’estremo del quadro, sono ritirati in una invisibilità essenziale, essi ordinano intorno a sé tutta la rappresentazione; è ad essi che si sta di fronte, è verso di essi che ci si volta, è ai loro occhi che viene presentata la principessa nel suo vestito di festa; dal rovescio della tela all’infanta e da questa al nano che gioca all’estrema destra, una curva si disegna (oppure, il tratto inferiore della X si apre) per ordinare al loro sguardo tutta la disposizione del quadro e fare apparire in tal modo il vero centro della composizione cui sono sottomessi in ultima analisi lo sguardo dell’infanta e l’immagine nello specchio.

Questo centro è simbolicamente sovrano nell’aneddoto, essendo occupato dal re Filippo IV e da sua moglie. Ma lo è soprattutto in virtù della triplice funzione che occupa in rapporto al quadro. In esso si sovrappongono esattamente lo sguardo del modello nel momento in cui viene dipinto, quello dello spettatore che contempla la scena e quello del pittore nel momento in cui compone il suo quadro (non quello che è rappresentato ma quello che è davanti a noi e del quale parliamo). Queste tre funzioni “guardanti” si confondono in un punto esterno al quadro: cioè ideale in rapporto a ciò che è rappresentato ma perfettamente reale, giacché solo a partire da esso diviene possibile la rappresentazione. In questa medesima realtà esso non può non essere invisibile eppure questa realtà è proiettata all’interno del quadro – proiettata e diffratta in tre figure che corrispondono alle tre funzioni di quel punto ideale e reale. Esse sono: a sinistra il pittore con la tavolozza in mano (autoritratto dell’autore del quadro); a destra il visitatore, con un piede sullo scalino, pronto a entrare nella stanza: questi coglie a rovescio l’intera scena, ma vede frontalmente la coppia reale, che è lo spettacolo stesso; al centro infine il riflesso del re e della regina, addobbati, immobili, nell’atteggiamento di modelli pazienti. Riflesso che mostra ingenuamente e nell’ombra ciò che tutti guardano in primo piano. Restituisce come per magia ciò che manca ad ogni sguardo: a quello del pittore, il modello che il suo duplicato figurativo copia là sul quadro; a quello del re il suo ritratto che è in via di componimento sul versante della tela che egli non percepire da dove si trova; a quello dello spettatore il centro reale della scena, di cui ha preso il posto come per effrazione. Ma questa generosità dello specchio è forse finta: esso forse nasconde altrettanto e più di quanto manifesti. Il posto in cui troneggia il re con sua moglie è anche quello dell’artista e quello dello spettatore: in fondo allo specchio potrebbero apparire – dovrebbero apparire – il volto anonimo del passante e quello di Velazquez. La funzione reale di questo riflesso è infatti di attirare all’interno del quadro ciò che gli è intimamente estraneo: lo sguardo che lo ha organizzato e quello verso il quale si offre. Ma essendo presenti nel quadro, a sinistra e a destra, l’artista e il visitatore non possono essere disposti nello specchio: viceversa il re appare in fondo allo specchio, in quanto appunto egli non appartiene al quadro.

Nella grande voluta che percorreva il perimetro dello studio, dallo sguardo del pittore, con la tavolozza e la mano sospesa, fino ai quadri ultimati, la rappresentazione nasceva, si compiva per disfarsi di nuovo nella luce; il ciclo era perfetto. In compenso le linee che attraversano la profondità del quadro sono incomplete; a tutte manca una parte del loro tragitto. Questa lacuna è dovuta all’assenza del re – assenza che è un artificio del pittore. Ma questo artificio cela e indica un vuoto che è invece immediato: quello del pittore o dello spettatore nell’atto di guardare o comporre il quadro. Ciò accade forse perché in questo quadro come in ogni rappresentazione di cui, per così dire, esso costituisce l’essenza espressa, l’invisibilità espressa, l’invisibilità profonda di ciò che è veduto partecipa dell’invisibilità di colui che vede – nonostante gli specchi, i riflessi, le imitazioni, i ritratti. Tutt’attorno alla scena sono deposti i segni e le forme successive della rappresentazione; ma il duplice rapporto che lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto. Esso non può mai essere presente senza riserva, fosse pure in una rappresentazione che offra se stessa in spettacolo. Nella profondità che attraversa la tela, che illusoriamente la scava e la proietta di qua da essa medesima, non è possibile che la pura felicità dell’immagine dia mai in piena luce il maestro che rappresenta e il sovrano rappresentato.

Vi è forse in questo quadro di Velazquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la definizione dello spazio che essa apre. Essa tende infatti a rappresentare se stessa in tutti i suoi elementi, con le sue immagini, gli sguardi di cui si offre, i volti che rende visibili, i gesti che la fanno nascere. ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce – e di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. lo stesso soggetto – che è il medesimo – è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione.

 

[1][Secondo Joel Snyder (“Las Meninas and the Mirror of Prices.” Critical Inquiry 11.4; June 1985: 539–72), l’assistente della regina Nieto doveva essere pronto per aprire e chiudere le porte per lei e quindi apparirebbe sulla soglia in modo che il re e la regina possano partire. Nel contesto del dipinto, Snyder sostiene che la scena rappresenta la fine della seduta della coppia reale per Velázquez e che i reali si stanno preparando ad uscire (particolare confermato dal fatto che la menina a destra dell’Infanta inizia a inchinarsi). N.d.C.]

 

Tratto da:

Michel Foucault, Le parole e le cose : un’archeologia delle scienze umane; con un saggio critico di Georges Canguilhem ; traduzione dal francese di Emilio Panaitescu ; Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1978 ; Collezione · BUR. L ; 158 ; Titolo uniforme · Les mots et les choses. · Classificazione Dewey · 401 (19.) LINGUAGGIO. FILOSOFIA E TEORIA

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