lunedì 19 ottobre 2020

Sedici ottobre - Annamaria Rivera

 

«Ho indossato il guanto nero sulla mano destra e Carlos quello sinistro dello stesso paio. Il mio pugno alzato voleva dire il potere dell’America nera. Quello di Carlos l’unità dell’America nera. Insieme abbiamo formato un arco di unità e forza» (Tommie Smith).  


Ora che rivedo quell’immagine, capisco il perché della mia emozione. Lo comprendo solo ora, dopo quarant’anni: di Tommie ero quasi innamorata. Il poster con la scena memorabile me lo sono portato di casa in casa, di città in città, fino a pochi anni fa. Poi è scomparso, perduto in uno degli  ultimi trasferimenti.


Contemplo la foto con una specie di groppo in gola. Tuttora mi commuovono il pugno destro guantato di nero, rivolto al cielo, il lungo braccio snello e muscoloso, la bella testa china quasi in preghiera. Ancora mi fa effetto la figura imponente ma gentile per le proporzioni perfette, tutta tesa in quel gesto ostentato quanto intenso: un corpo esposto con sfida e orgoglio, eppure raccolto come in meditazione. Soprattutto i piedi scalzi mi hanno sempre colpita. Non solo per il messaggio, fin troppo esplicito ed eloquente, ma anche perché esprimono un’inconsapevole umiltà francescana che fa quasi tenerezza.

Solo ora, dopo quarant’anni, quell’immagine mi evoca anche una sorta di simbolica della crocifissione: Tommie Smith, al centro del podio, è il cristo nero che si eleva sui due ladroni che gli stanno accanto. Il buon ladrone afroamericano, John Carlos, replica il suo gesto col pugno sinistro e indossa una collana fatta di piccole pietre, quasi grani di un rosario, ognuno dei quali allude a un nero linciato o ucciso solo perché rivendicava i propri diritti. Il secondo ladrone, Peter Norman, le braccia molli lungo il corpo quasi muto, in realtà non è insignificante, sembra solo un po’ meno coinvolto. Certo, è partecipe e complice, ma, sebbene si sia battuto per i diritti degli aborigeni australiani, non è il maggiore artefice di quel messaggio sovversivo.

 


Nondimeno, anch’egli indossa il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights (Progetto Olimpico per i Diritti Umani), un movimento che raccoglie i migliori atleti afroamericani e che rivendica uguaglianza, giustizia, rispetto, non solo nell’ambito dello sport, ma anche in ogni altro: economico, sociale, civile, politico… C’è da dire, en passant, che non pochi altri atleti appartenenti alla medesima sigla hanno deciso di non partecipare affatto ai Giochi olimpici di Città del Messico; e ciò come forma di protesta per l’assassinio di Martin Luther King, avvenuto il 4 aprile del medesimo anno, cui il 5 giugno successivo sarebbe seguito quello di Robert F. Kennedy.

Di Tommie ero quasi innamorata poiché era corpo seducente che si faceva messaggio politico. Poiché era messaggio politico che si faceva corpo erotico. Io allora, nel mitico 1968, avevo cominciato appena a balbettarlo, quel genere di messaggi. Sentivo che essi erano veri, ma troppi e troppo gridati. Temevo che la loro verità potesse perdersi nell’eco degli slogan urlati e reiterati.  

Sapevo che i nostri corpi erano troppo addomesticati per poter dire senza parole. Non abbastanza liberi – come possono essere i corpi di chi ha conservato memoria della schiavitù – per poter essere così eroticamente sovversivi: il nostro eros, che avevamo appena scoperto, era ancora rinchiuso in amplessi privati per quanto multipli.

Una protesta pacifica e sovversiva

Fin qui è ciò che io scrivevo, per me stessa, il 16 ottobre 2008, a quarant’anni dalla memorabile protesta, potentemente simbolica quanto sobria e silenziosa, compiuta da Tommie Smith, detto the Jet, e John Carlos, con la complicità dell’australiano, bianco, Peter Norman, nel corso della cerimonia di premiazione dei Giochi olimpici di Città del Messico: giusto nella città in cui pochi giorni prima, il 2 ottobre, in piazza delle Tre Culture, nel quartiere di Tlatelolco, si era consumata la strage di Stato di centinaia di persone, in massima parte studenti e studentesse impegnati/e nel movimento.  

Quando, nello stadio, iniziarono a risuonare le note di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale degli Stati Uniti, Smith e Carlos abbassarono la testa e alzarono il pugno chiuso guantato di nero: un gesto potentemente sovversivo. E tanto più coraggiosa fu la loro contestazione per il fatto che i tre, in quella finale dei 200 metri, erano risultati vincenti: al primo posto si era classificato Smith, che con i suoi 19″83 era stato il primo al mondo a scendere sotto i 20″; al secondo v’era Norman (20″06), al terzo Carlos (20″10).

Essi avrebbero potuto, dunque, avvantaggiarsi delle loro brillanti performance per incamminarsi verso una luminosa carriera atletica. E, invece, non appena abbandonarono il podio, essa sarà stroncata e la loro vita diverrà un inferno. La loro protesta ebbe, certo, immediata risonanza e successo amplissimi, tanto da divenire quasi mitica, anche grazie all’eco esercitata dal dilagare del movimento sessantottino in un’area del mondo assai ampia. Nondimeno, Smith e Carlos saranno costretti a lasciare il Messico entro 48 ore, poi emarginati, obbligati a esercitare i lavori più umili, a tal punto insultati, minacciati, perseguitati che la moglie del secondo finirà per suicidarsi.

Anche Norman, una volta rientrato nel suo Paese, sarà trattato come un paria e non correrà mai più per le Olimpiadi, nonostante fosse a quel tempo il più grande velocista australiano mai visto fino allora. Dopo che, il 3 ottobre del 2006, egli morì a causa di un infarto fulminante, Tommie e John accorsero a Melbourne per partecipare alle sue esequie: furono loro a trasportare la sua bara.

Ci si potrebbe chiedere se la mitica protesta del 16 ottobre del 1968  conservi tuttora un valore simbolico e politico tale da avere senso rispetto all’oggi.

Si pensi alla rivolta, non sempre pacifica, che si è scatenata a Minneapolis e subito si è ampiamente diffusa, a seguito dell’omicidio poliziesco, atroce e del tutto arbitrario, dell’inerme afroamericano George Floyd, soffocato dal ginocchio di un poliziotto che lo ha inchiodato a terra, senza ch’egli opponesse alcuna resistenza. Ad esso seguiranno molti altri omicidi di stampo razzista, ugualmente ad opera delle forze dell’ordine, brutalmente istigati da Donald Trump, che ha minacciato di usare anche l’esercito contro i rivoltosi. Tutto ciò concorre a dimostrare quanto feroce e strutturale sia tuttora negli Stati Uniti il razzismo, istituzionale e non, contro gli/le afroamericani/e, ma anche contro persone di origine ispanica.

A tal punto che recentemente lo stesso Barack Obama ha dichiarato che “Per milioni di americani essere trattati in modo diverso a causa della ‘razza’ è tragicamente, dolorosamente, esasperatamente normale, sia che si tratti di avere a che fare con il sistema sanitario, d’interagire col sistema giudiziario o di fare jogging in strada o semplicemente di guardare gli uccelli nel parco”.

Una tale abnorme ferocia e serialità della repressione poliziesca, fino alla normalizzazione e banalizzazione dell’omicidio, ha fatto sì, in tal caso, che alla rivolta aderissero e partecipassero anche un numero non irrilevante di bianchi; e perfino una parte della stessa polizia la quale, in New Jersey e altrove, è addirittura scesa in piazza per protestare a fianco dei manifestanti. V’è da aggiungere che anche l’approccio delle autorità locali è stato perlopiù all’insegna della comprensione e del dialogo con i dimostranti.

Tutto ciò per non dire dell’emergenza sanitaria che ha fatto sì che i più colpiti dal Covid19 siano stati gli afroamericani, con un tasso di mortalità tre volte superiore a quello dei “bianchi”. La pandemia ha provocato anche un livello altissimo di disoccupazione: a perdere il lavoro sono stati almeno 40 milioni di persone. Tra queste, la percentuale di afroamericani e ispanici, uomini e donne, è enormemente alto.

Insomma, a sollecitare una così ampia e diffusa sollevazione, non v’è solo l’insensata e seriale brutalità poliziesca, ma anche le progressive disuguaglianze e la crescita drammatica della disoccupazione e dell’emarginazione sociale. Non per caso la rivolta è influenzata dal movimento Black Lives Matter, che già nel 2014, allorché è nato, ha affermato una visione politica capace di coniugare l’antirazzismo con la lotta di classe, nonché con l’antisessismo.

In fondo, una tale dialettica potrebbe essere rappresentata, ancor oggi, dalla simbolica di quel lontano 16 ottobre 1968: il pugno nero alzato, i piedi scalzi, la collana di piccole pietre simboleggianti gli afroamericani linciati.

da qui




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