«Quando ti
ritrovi per la prima volta in un campo minato, ti rendi conto che a ogni
metro, a ogni centimetro, ti può esplodere una mina sotto i piedi. Vedi un
bosco, vedi degli alberi bellissimi, ma sotto è pieno di mine. E allora capisci
ciò che hai fatto. È difficile dirlo con altre parole: ti senti solo un pezzo
di merda».
La prima
volta che Vito Alfieri Fontana ha visto un campo minato è stato in Kosovo,
nell’inverno tra il 1999 e il 2000. Ha lavorato anni per conto dell'ong
Intersos alla ricerca di mine: era lì per tirarle fuori e farle brillare,
rendendole finalmente inoffensive. Ma Vito – come tutti in Kosovo, e poi in
Bosnia, hanno preso a chiamarlo – non era uno sminatore comune. Le mine le
conosceva meglio di chiunque altro per il semplice fatto di averle ideate e
prodotte per decenni. La sua è una vita che ne racchiude almeno due. Come
Penelope, ha impiegato la seconda metà a disfare la tela che aveva tessuto
nella prima parte.
C’era un
tempo in cui l’Italia era uno dei principali produttori al mondo di mine
anti-uomo, il
secondo in Europa dopo la Jugoslavia. Insieme alla Valsella di Montichiari, una
delle aziende principali era la Tecnovar di Bari, fondata dal padre di Vito,
Alfieri Fontana. Di quella azienda Vito è stato a lungo la mente.
Fino alla
metà degli anni Settanta la Tecnovar, con i suoi 60 dipendenti, ha prodotto forniture
per l’esercito italiano, sia mine antiuomo che anticarro: «Quella antiuomo può
variare dai 10 grammi ai 200-300 grammi di esplosivo, a seconda della nazione
che la produce; la mina anticarro invece può contenere da un chilo e mezzo a 10
chili di esplosivo. La mina anticarro ha un carico di funzionamento che va da
100 a 300 chili, la mina antiuomo va dai 200 grammi ai 20 chili. Quanto alle
mine italiane, la soglia era di 200 chili per le anticarro e di 20 per le
antiuomo. Cioè bastano 20 chili di pressione per far saltare in aria una
persona».
Negli anni
Settanta la Tecnovar fa affari, cresce e supera i confini nazionali. Nel 1979 firma un importante
contratto con il ministro della Produzione militare egiziano. «Nel momento di
massima produzione, all’inizio degli anni Ottanta, producevamo ogni mese
centomila componenti inerti di mine antiuomo, e diecimila di anticarro; poi il
tutto veniva spedito in Egitto e assemblato al Cairo, alla Heliopolis, una
fabbrica con cinquemila dipendenti».
Vito ha
progettato la Ts50, una particolare mina antiuomo costituita da due dischi
sovrapposti, sormontati da una piastra superiore che una volta schiacciata – ed
è estremamente facile schiacciarla – attiva il detonatore. Poiché l’Egitto ha
girato le mine inventate dalla Tecnovar agli eserciti impegnati in tanti fronti
di guerra, oggi si può dire che di Ts50 è infestato mezzo mondo. Ci sono campi
minati in Afghanista, Iraq, Libano, Congo, Kurdistan, Azerbaijan...
Ed è proprio
alla fine degli anni Ottanta, quando ancora la campagna per le mine antiuomo non
ha preso vigore, che Vito Alfieri Fontana capisce che il proprio lavoro non è
più innocente, se mai lo è stato. Capisce che c’è una relazione strettissima
tra produrre “quelle” armi e il loro impiego, più o meno distorto: un impiego
che produce al 90% vittime civili. «Ci sono Paesi», dice, «in cui le mine sono
state usate in modo criminale, come in Angola, in Afghanistan, in Mozambico, le
guerre secessioniste in Congo, in Ruanda: laddove c’era una guerriglia,
venivano utilizzate le mine, specialmente quelle antiuomo; in questo caso non
si tratta più della linea minata che separa due fronti, ma di qualcosa di molto
diverso».
Vito capisce
che produrre mine vuol dire produrre uno strumento infame e stupido di
distruzione. Ma la
sua non è stata una conversione immediata, da notte dell’Innominato, se di
conversione in senso stretto si può parlare. A cambiarlo è stato piuttosto un
flusso, che negli anni si è nutrito di tanti accadimenti.
«La pugnalata più forte me la diede una volta mio figlio. Stavamo in macchina, io avevo un catalogo della Tecnovar sui sedili posteriori, e lui, era piccolino, cominciò a farmi domande sul perché proprio io dovessi produrre armi. Io provai a dirgli che qualcuno doveva pur farle, ma lui mi richiese a bruciapelo: “Sì, ma perché proprio tu?”. Allora ho capito che quella era l’unica domanda che davvero contava: la domanda che non mi ha aveva fatto nessuno».
«La pugnalata più forte me la diede una volta mio figlio. Stavamo in macchina, io avevo un catalogo della Tecnovar sui sedili posteriori, e lui, era piccolino, cominciò a farmi domande sul perché proprio io dovessi produrre armi. Io provai a dirgli che qualcuno doveva pur farle, ma lui mi richiese a bruciapelo: “Sì, ma perché proprio tu?”. Allora ho capito che quella era l’unica domanda che davvero contava: la domanda che non mi ha aveva fatto nessuno».
Poi, nel
1993, fu invitato da don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax
Christi, guida
luminosa di una parte della chiesa pugliese e del movimento nonviolento, a un
incontro sulle mine antiuomo. «Mi sorprese che volesse proprio me. Don Tonino morì
poco dopo, era gravemente malato, ma l’incontro si fece lo stesso». Vito si
trovò davanti 500 pacifisti, e oggi ammette che quell’incontro faticosissimo
gli ha cambiato la vita. «Anche se non l’ho mai visto di persona, don Tonino mi
ha molto aiutato. Credo, in fondo, di averlo conosciuto meglio di tanti altri.
Perché mi sono sentito dire: ora vai!». E Vito va. Non può fare altro che
andare.
Alla metà
degli anni Novanta, in Italia e nel mondo cresce la campagna per la messa al bando delle
mine antiuomo che porta, nel 1997, alla firma della Convenzione internazionale
di Ottawa per la proibizione del loro uso. Quel trattato che segna un punto di
non ritorno è oggi firmato da quasi tutti gli Stati, benché ci siano eccezioni
pesanti: Usa, Cina, India, Russia, Iran, lo stesso Egitto. Dopo aver
partecipato a molti incontri della campagna internazionale contro le mine in
qualità di esperto («Ero quello che veniva dall’altra parte»), Vito decide di
mettersi direttamente in gioco, di disfare la tela in prima persona.
Il resto
della famiglia, cresciuta al riparo delle commesse militari, lo considera
semplicemente un “traditore”. La prima conseguenza della sua scelta è che
l’azienda si spegne da sola. «Finite le commesse, l’alternativa era spostare la
sede in Egitto o a Singapore. Ma a quel punto saremmo diventati dei
trafficanti. L’unica soluzione era chiudere. Chiudere e basta, anche perché la
riconversione di una fabbrica d’armi, a produzione limitata, di qualità
elevata, e ad altissimo valore aggiunto, è praticamente impossibile. Non puoi
metterti a fare contenitori di plastica dall’oggi al domani».
Così Vito
Alfieri Fontana decide di partire per i Balcani alla guida di un team di
sminatori sostenuto da Intersos. Ci resta 12 anni, tornando in Italia solo per
poche settimane all’anno («Senza il sostegno di mia moglie e dei miei figli,
non ce l’avrei mai fatta»). La prima missione è in Kosovo, dove rimane due
anni. Il primo campo da sminare lo incontra a Kijevë, lungo la strada che da
Pec porta a Pristina. I serbi avevano minato il terreno lungo un asse
trasversale per evitare la risalita dell’Uck.
Meglio di
chiunque altro, un ex produttore sa cosa nasconde un terreno infestato. «Quando ho visto le mine
jugoslave, ho tirato un sospiro di sollievo perché mi son reso conto che non
sarebbero durate più di qualche anno. Avevano un punto debole: la capsula
detonante presentava un errore tecnologico, per cui era matematico che si disattivassero.
Infatti, dopo sei mesi, quelle mine non scoppiavano più, tranne le più
pericolose. Di quelle ancora presenti, il 90% delle mine jugoslave sono inerti,
solo un 10% mantiene ancora la sua pericolosità».
Quel 10% è
costituito principalmente di Prom 1. Sono delle mine a forma di bottiglia, dal cui
tappo partono quattro antennine. La bottiglia viene interrata, dal suolo
spuntano solo le antennine. Sono sensibilissime, al minimo tocco la mina
esplode. Più che il Kosovo, è la Bosnia a esserne piena. Ed è lì che Vito si
trasferisce, dopo il lavoro in Kosovo, per rimanerci dieci lunghi anni. Secondo
il Bhmac (Bosnia Herzegovina Mine Action Centre) dal 1992 a oggi, le vittime
delle mine sono state ottomila, tra morti e feriti. Tra questi, ci anche gli sminatori:
150 sono rimasti invalidi, 20 sono morti.
«Il casino
della Bosnia è che buona parte delle mine sono state messe dopo la firma degli
accordi di Dayton. Le
parti erano talmente poco fiduciose l’una dell’altra che si sono ritirate
lasciando i campi minati, una linea di confine tra l’entità serbo-bosniaca e
quella croato-musulmana che segue di poche centinaia di metri quella reale. Ho
passato due anni a bonificare una fabbrica, laddove ci avremmo potuto mettere
tre mesi, perché dopo gli accordi di pace la fabbrica era stata svuotata dai
serbi, riempita di mine e data alle fiamme. Abbiamo dovuto lavorare su una
struttura completamente distrutta, non potevi sollevare una lastra di eternit
ché sotto era pieno di mine».
Non solo la
guerra, ma anche il dopoguerra è segnato dalle ferite dell’odio – un sentimento
che Vito, dopo tanti anni, ha imparato ad associare al calcolo, alla
razionalità, alla freddezza. I serbi si sono ritirati minando addirittura le
fosse comuni in cui erano stati ammassati i corpi dei civili bosniaci. Oggi,
molti ex ufficiali dell’esercito di Ratko Mladic si sono riconvertiti come
sminatori, non cedendo le mappe dei campi minati. «Non è che si siano pentiti»:
hanno semplicemente capito che mettendosi in proprio, avrebbero potuto drenare
i soldi della comunità internazionale, tanto che oggi si è creato un indotto in
cui lavorano almeno cinquemila persone.
Nel team di
Vito Alfieri hanno lavorato sia musulmani che serbi («anche due ex guardie del
corpo di Mladic, per la verità»). Molti erano ex minatori di Olovo, che avevano
passato una vita nelle miniere di piombo, ed erano particolarmente sensibili
alle normative di sicurezza e alle procedure d’allarme.Sminare un campo è
un’operazione lentissima. Si lavora in coppia lungo dei corridoi, dandosi il
cambio ogni mezz’ora. Si avanza carponi con un metal detector in mano.
Accertato che il terreno è sicuro, si sposta ogni volta un po’ più avanti
l’asticella che divide la zona libera da quella ancora da monitorare. Quando il
rilevatore suona, si affonda delicatamente uno spillone nel terreno. Una volta
individuate, le mine vengono estratte e fatte esplodere in una fossa poco
distante. In dieci anni la sua squadra di Vito ha trovato e reso inoffensive
oltre 3 mila mine.
Non
basterebbe un libro per contenere gli aneddoti di uno sminatore. Una volta si è addirittura
trovato tra le mani delle mine prodotte dalla Tecnovar: «Non potevo crederci.
Erano delle mine sperimentali che avevamo dato solo al governo italiano. Non
erano neanche commerciabili, non so proprio in che modo siano finite in mano ai
serbi».Una delle imprese più ardue è stata invece quella di sminare la pista di
bob delle Olimpiadi invernali del 1984. «Era sulla collina di Trebevic, alle
spalle Sarajevo. Sarajevo è una città circondata da colline, e ognuna era un
punto strategico per i cecchini, ma quella di Trebevic, che portava al comando
dei serbi, era molto fortificata rispetto alle altre. L’abbiamo sminata tutta.
Sarajevo è servita da acque sorgive, e le bocche dell’acquedotto sono proprio a
Trebevic. Ritirandosi i serbi le avevano minate, rendendo impossibile per anni
la loro pulizia periodica».
La pista di
bob era stata spaccata in alcuni punti per ricavare delle feritoie da cui
sparare. Proprio
da Trebevic i cecchini potevano controllare un ampio raggio della città, fino
alla vecchia biblioteca. E proprio da qui, si è divertito a sparare sulla città
assediata anche Limonov, che Vito chiama senza alcuna ironia «un intellettuale
russo in vacanza». «Per conquistare quelle trincee, i ragazzi di Sarajevo
sono andati a gruppi di dieci con un fucile e nove pugnali... e quanti ne sono
morti. Gli facevano conquistare posizioni per poi intrappolarli nelle aree
minate».
Di quei
campi minati con “disonore”, aggiunge Vito con fierezza, oggi non c’è più
traccia. E
quanto allo sminamento di tutta la Bosnia? «Oggi probabilmente ci saranno
ancora centomila mine. Di realmente pericolose solo diecimila, ma sono quasi
tutte segnalate. La presenza di mine non monitorate oggi è quasi prossima allo
zero». Difatti, gli ultimi incidenti, che pure ci sono stati, hanno interessato
taglialegna abusivi che si sono inoltrati nei campi delimitati. Tanto è stato
lo shock, per Vito, di trovarsi la prima volta su un campo infestato da ordigni
molto simili a quelli che aveva ideato e prodotto per una vita, quanto intensa,
e difficile da descrivere a parole, la sensazione di leggerezza di camminare su
un campo liberato. È come una festa del raccolto. La terra ritorna a vivere, la
popolazione locale può farci quello che vuole.
Oggi pensa
che i prossimi fronti di lavoro dovrebbero essere la Siria (dove hanno utilizzato le mine
degli ex arsenali di Saddam) e la Libia, dove stanno impiegando mine belghe o
copie di mine brasiliane. «Ma non ora, ora è impossibile andarci». Il lavoro
dello sminatore è un lavoro del dopoguerra, un lavoro portato a termine da un
popolo di formiche che lotta contro le metastasi di un disastro già ideato e
deflagrato. Eppure, senza quelle formiche, la guerra continuerebbe per decenni.
A ogni esplosione, una nuova nuvola di odio si alzerebbe dalla terra. E questo
Vito Alfieri Fontana lo sa. Nessuno meglio di lui può saperlo.
Nessun commento:
Posta un commento