Ci sono musicisti che vanno ricordati e (ri)ascoltati, Marisa
Sannia fa parte di quella schiera.
Cercate le sue canzoni, a partire dalle prime o dalle
ultime, non importa, pochi cd sono ancora in circolazione, e per fortuna c’è youtube, non privatevene, saranno ascolti
per molti bellissimi, per altri di più.
Inizia giovanissima a cantare canzoni di grandi musicisti, a
partire da Sergio Endrigo (Tutto o niente
è la prima canzone,scritta per
lei, e poi tante altre, inciderà un doppio album con le sue canzoni), e Don
Backy (autore di Casa Bianca, con la
quale arrivò seconda al Festival di Sanremo del 1968), e Mogol, (La compagnia, poi cantata anche da Lucio
Battisti) e Vinicius de Moraes (Il gatto e Il
pinguino) e altri.
Nel
1976 pubblicò anche un cd come cantautrice (La pasta scotta)
A partire dal 1993 pubblicò tre dischi su testi di Montanaru
(Sa oghe de su entu e de su mare),
Francesco Masala (Melagranàda ),
e suoi (Nanas e janas).
Nell’ultimo disco, Rosa
de papel, canta Federico
García Lorca.
Ha scritto Marisa Sannia: "La poesia non si legge con gli occhi, si legge con la voce. Gli occhi ci aiutano a decifrarla l'orecchio a scoprirne il ritmo, ma la voce ci dà la possibilità di ricrearla”.
“Il suono della lingua – continua Marisa Sannia – la magia della parola portano sul cammino della poesia tra memoria e sogno. Musiche, suoni, parole che si snodano come trame e disegni toccando i sentimenti profondi e misteriosi dell’anima. Melodie mediterranee, solari, si fondono con le parole in atmosfere dove è difficile distinguere l’antico e il contemporaneo, la lingua, il poeta, il compositore e l’interprete”.
"Le
persone non muoiono, restano incantate”, scrive Joao Guimaraes Rosa, lo scrittore brasiliano,
autore de Il grande Sertao, dotate, cioè, di qualcosa di magico. Si
rimane aggrappati al loro ricordo, si spera che ci continuino a parlare, li si
chiama, li si interroga… ma di là risuona un silenzio assordante. E ti chiedi
che senso ha tutto questo, che senso ha la vita…
La
separazione duole troppo. Scava, lascia solchi profondi.
Marisa se
n’è andata lasciandomi parole dolci, di affetto che mi riaffiorano alla mente e
che mi aiutano a sentirla ancora viva dentro di me.
L'avevo
conosciuta quando entrambe avevamo 18 anni e facevamo parte della nazionale
giovanile di basket. Poi ci eravamo rincontrate diverse volte, fino all'ultima
volta, l'anno della sua morte.
Lei non c’è
più, e non può più rispondermi al telefono, ma c’è la sua musica che è davvero
magica e quando l'ascolto io so che mi parla.
Karen
Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina:
“una notte,
un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile
fragore: è l'argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo
di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino,
affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul
terreno il disegno di una cicogna. O per meglio dire la bellissima immagine di
una cicogna tracciata sul terreno dal suo arrancare affannato e scomposto nel
buio.
"Quando
il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una
cicogna?" si
chiede la Blixen.
Marisa ha
terminato il suo disegno. Un disegno ricercato e perseguito con tenacia: il
“suo disegno”, tracciato dalla sua musica, dalle sue ricerche, dal suo impegno
con la vita e per chi amava che mai ha sacrificato alla carriera. “Io
mi esprimo con la musica” diceva sempre…
La ricorderò
per la sua semplicità e profondità, per aver sempre creduto fortemente in
quello che faceva, per non avere mai amato successo e fama fine a se stessi,
per non aver mai ceduto alla leggerezza e vacuità di questo tempo, per la sua
grande onestà e umiltà. “La vita mi ha dato tanto, non poteva darmi di
più ed io so che tanta troppa gente non ha avuto neanche una minima parte di
quello che ho avuto io” Questa era una delle sue solide consapevolezze.
Credo che
lei oggi vorrebbe essere ricordata anche per ciò che non l’ha resa famosa e per
ciò che i mass media hanno disdegnato: l'amore per la poesia, la maturità, lo
studio continuo e la riscoperta delle radici linguistiche sarde. Questa ricerca
l’ha portata agli inizi degli anni Novanta ad accostarsi ad alcuni poeti sardi
come Antonio Casula, Francesco Masala e Antonio Canu, sui testi dei quali
elaborò e compose melodie che diedero vita a lavori splendidi come Sa oghe de
su entu e de su mare (1993), Melagranada (1997) e Nanas e janas (2003)
caratterizzati anche dagli splendidi arrangiamenti di Marco Piras e dalla
collaborazione artistica di Maria Lai.
……Questa
lingua antica ma familiare, radicata nel profondo dell’anima, mi affascina e mi
intimorisce, solo cantando riesco a vincere il pudore e a liberare emozioni…..
“…Incantata
da questi versi semplici, pieni di sentimento, di voglia di libertà, di
solitudine, ho provato a musicarli per poterli cantare…”
E poi il suo
grande amore per la poesia di Federico Garcia Lorca. Negli ultimi tre anni
della sua vita Marisa ha dedicato tutto il suo tempo allo studio e alla metrica
del grande autore andaluso lasciandoci in eredità un toccante lavoro di canzoni
originali cantate in spagnolo pubblicate in Rosa de papel, un album
postumo (curato graficamente da lei fino all'ultimo dettaglio), e che ha avuto
un'anteprima la scorsa estate al Malborghetto Roma.
Ma il CD era
solo una parte del progetto, perché su Garcia Lorca aveva preparato uno
spettacolo teatrale. Ricordo la gioia dei suoi occhi quando me ne ha parlato e
quando mi raccontava le prove che stava facendo e che solo la malattia ha
interrotto. Ascoltatene una... E' bellissima.
So bene che questo post sarà letto da pochi, perché alla
fine persino il “mio pubblico” preferisce essere rassicurato da argomenti che
già conosce e apprezza, ma non importa: nel suo piccolissimo, questo blog ha la
pretesa di fare cultura, e di conseguenza cerco di non subire la tirannia dei
”click”. Ecco dunque la recensione un disco davvero notevole, di un‘artista che
purtroppo non c’è più, pubblicato da un‘etichetta che da anni sta portando
avanti un eccezionale lavoro sul nostro patrimonio musicale di area folk.
Personalmente ritengo che sarebbe il caso di provare ad ascoltarlo (in fondo al
testo trovate pure un estratto audio), poi fate un po‘ voi.
Rosa de papel (Felmay)
I lettori più anziani la ricorderanno magari come “meteora” della nostra musica leggera degli anni 60, ma quanti l’hanno conosciuta nei Novanta, ben dopo quel pur dignitoso periodo di apprendistato cui hanno comunque fatto seguito (fino al 1984) altre prove di livello come cantautrice, interprete e attrice teatrale, sono certo stati colpiti dallo spessore e dall’intensità con la quale si è confrontata con le magnifiche tradizioni della Sardegna che le ha dato i natali nel 1947. In questo Rosa de Papel, edito a pochi mesi di distanza dalla prematura scomparsa, Marisa Sannia getta un ponte verso la Spagna, cimentandosi con l’adattamento in canzoni di nove poesie di Federico Garcia Lorca e aggiungendovi le riletture di altre due opere del grande autore andaluso già musicate da Leonard Cohen e Amancio Prada, il tutto superbamente arrangiato da Marco Piras con il ricorso prevalente a strumenti caldi e limpidi quali chitarra acustica, violoncello, contrabbasso e piano. Sinuoso e affascinante il risultato, con la voce della Sannia in perfetto equilibrio tra fragilità e forza e le musiche – scarne ma incisive – a sottolinearne l’intensità, in questo favorite dai toni “esotici” dello spagnolo. Avrebbe potuto firmarlo una Marianne Faithfull, e scusate se è poco.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.654 del gennaio 2009
I lettori più anziani la ricorderanno magari come “meteora” della nostra musica leggera degli anni 60, ma quanti l’hanno conosciuta nei Novanta, ben dopo quel pur dignitoso periodo di apprendistato cui hanno comunque fatto seguito (fino al 1984) altre prove di livello come cantautrice, interprete e attrice teatrale, sono certo stati colpiti dallo spessore e dall’intensità con la quale si è confrontata con le magnifiche tradizioni della Sardegna che le ha dato i natali nel 1947. In questo Rosa de Papel, edito a pochi mesi di distanza dalla prematura scomparsa, Marisa Sannia getta un ponte verso la Spagna, cimentandosi con l’adattamento in canzoni di nove poesie di Federico Garcia Lorca e aggiungendovi le riletture di altre due opere del grande autore andaluso già musicate da Leonard Cohen e Amancio Prada, il tutto superbamente arrangiato da Marco Piras con il ricorso prevalente a strumenti caldi e limpidi quali chitarra acustica, violoncello, contrabbasso e piano. Sinuoso e affascinante il risultato, con la voce della Sannia in perfetto equilibrio tra fragilità e forza e le musiche – scarne ma incisive – a sottolinearne l’intensità, in questo favorite dai toni “esotici” dello spagnolo. Avrebbe potuto firmarlo una Marianne Faithfull, e scusate se è poco.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.654 del gennaio 2009
Eppure, senza nemmeno aver troppo tema di smentite, si tratta di uno dei dischi più belli sentiti negli ultimi anni, uno di quelli che, senza nemmeno aver bisogno di pensarci molto, avrei schiaffato tra gli "indimenticabili" di questa o di un'altra stagione. E, perché anche la fortuna, come è noto, deve avere dei limiti, bisogna anche specificare che la versione che ho tra le mani è un "parente povero" della versione originaria, che comprendeva, oltre alle 11 canzoni riportate qui dentro, tratte dalle liriche del poeta sardo Antioco Casula "Montanaru", rielaborate da Marisa Sannia e Francesco Masala su musiche della stessa Sannia, anche la riproduzione a stampa di un'opera dell'artista Maria Lai, un "multiplo" contenente versi di Montanaru scritti a mano e impreziositi da fili cuciti dall'artista, all'interno di un cofanetto in cartone telato, quello di cui sopra è riportata la copertina.
Il disco in mio possesso è invece una riedizione successiva, dalla copertina molto scarna (che riporto qua sotto) che è uscito una decina di anni dopo la versione originale e che navigando sui fragili vascelli del caso, è riuscito ad arrivare fino a me. Ecco comunque la copertina della versione che si può ancora trovare in circolazione, frugando bene negli scaffali secondari dei migliori negozi e soprattutto nei negozi virtuali su internet.
L'operazione qui, completamente godibile anche di per sé, ha anche un cote culturale di tutto rispetto: Antioco Casula è un poeta lugodorese del primo '900 ("Montanaru" è il suo soprannome), classico poeta contadino della Barbagia, con istruzione appena elementare, ma autore di quattro libri di liriche usciti tra il 1904 e il 1950 e Maria Lai è una delle principali artiste sarde contemporanee di arti visive, in particolare applicare sul paesaggio e su vasta scala. Marisa Sannia, infine, qualcosa bisognerà dirlo anche su di lei, è una "signora della canzone italiana": ha avuto il suo periodo di splendore sul finire degli anni '60, interpretando brani come "Casa bianca" o "C'è chi spera" o "Sarai fiero di me". Poi un primo distacco dal mondo della musica leggera e un ritorno in veste di cantautrice con un album ("La pasta scotta" - 1976) di cui, chi ha potuto ascoltarlo, ne ha parlato molto bene.
Altro silenzio (pur non assoluto, un
album dedicato a Sergio Endrigo, introvabile e valutato fino a 80 euro sul
borsino dei dischid a collezione, teatro, cinema, traduzioni di Manel Serrat) e
nel 1993 arriva, in anticipo sui tempi, la svolta etnica e la riscoperta della
Sardegna con l'album in questione "Sa oghe de su entu e de su mare",
destinato a non restare opera unica: infatti nel 1997 esce
"Melagranada", album di cui ora sono disperatamente in caccia, che
dovrebbe proseguire e approfondire il discorso di "Sa oghe" e,
infine, nel 2003 esce "Nanas et janas", una raccolta di ninne nanna e
filastrocche in lingua sarda che va a completare il "trittico
isolano".
Per ora resta questa opera dai testi densi e imperscrutabili (ma sul sito si trovano le traduzioni). Si apre con "It'est sa poesia": "Cos'è la poesia? / E' la bella immagine lontana vista e mai raggiunta / Un desiderio, uno sguardo / un raggio di sole alle finestra / Cos'è la poesia? / il dolore, la gioia, la speranza / la voce del vento e del mare", che è e resta assolutamente un fado! Magicamente orchestrato da Marco Piras che ha a sua volta avuto un passato glorioso nel beat degli anni '60 con i Bertas, un gruppo sardo di ottime qualità, autore tra l'altro di un piccolo hit come "Fatalità" e suonato da Pinuccio Cossu e Marco Piras alle chitarre, Gilda Dettori all'arpa, Angelo Nappi al violoncello, Francesco Pilu alla fisarmonica, Bruno Piccinnu alle percussioni e ancora Marco Piras alle tastiere, oltre a diversi cori, il disco propone varietà di ambienti sonori e arrangiamenti ampi ed ariosi.
"Istasera un organitto" (Serenata di inverno) è un altro grande episodio di un grande disco, raccolto e delicato, in forma di acquerello musicale, ma con controtempi e cori che richiamano alla tradizione. Alla tradizione delle ninne nanne richiama "Ninna nanna da Anton'Istene", che forse colpirà particolarmente chi è particolarmente sensibile al tema, ma che sfido chiunque a riuscire ad ascoltarlo mantenendo il ciglio asciutto e la mano ferma. E a non farsi trascinare dalla voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dall'ammaliante voce di Marisa Sannia. "Ninna nanna a cantare" è invece sull'altro versante delle nanne, più vivace e veloce, ma altrettanto dolce.
Ma nei 44'59" del disco non ci sono momenti bassi, l'ispirazione non abbandona mai Marisa e, per paradosso geografico, i versi di "Montanaru" e le trame dolci che intesse loro attorno Marisa Sannia, soprattutto nella "Morte dell'elce", richiamano i canti della terra di Gigi Maieron in quel capolavoro che era "Si vif". Lingue diverse dall'italiano, per sentimenti universali, contatto con la natura e abbraccio con i ritmi della terra e con i suoi suoni. Il montanaro carnico e il "Montanaru" barbaricino in alcuni estremi si toccano. E ognuno di questi due dischi potra con sè il respiro della terra e un suono che non è mai solo di una nazione o di una terra, ma universale. Cinque stelle, due lune e un mare incantato per un disco che incanta.
Per ora resta questa opera dai testi densi e imperscrutabili (ma sul sito si trovano le traduzioni). Si apre con "It'est sa poesia": "Cos'è la poesia? / E' la bella immagine lontana vista e mai raggiunta / Un desiderio, uno sguardo / un raggio di sole alle finestra / Cos'è la poesia? / il dolore, la gioia, la speranza / la voce del vento e del mare", che è e resta assolutamente un fado! Magicamente orchestrato da Marco Piras che ha a sua volta avuto un passato glorioso nel beat degli anni '60 con i Bertas, un gruppo sardo di ottime qualità, autore tra l'altro di un piccolo hit come "Fatalità" e suonato da Pinuccio Cossu e Marco Piras alle chitarre, Gilda Dettori all'arpa, Angelo Nappi al violoncello, Francesco Pilu alla fisarmonica, Bruno Piccinnu alle percussioni e ancora Marco Piras alle tastiere, oltre a diversi cori, il disco propone varietà di ambienti sonori e arrangiamenti ampi ed ariosi.
"Istasera un organitto" (Serenata di inverno) è un altro grande episodio di un grande disco, raccolto e delicato, in forma di acquerello musicale, ma con controtempi e cori che richiamano alla tradizione. Alla tradizione delle ninne nanne richiama "Ninna nanna da Anton'Istene", che forse colpirà particolarmente chi è particolarmente sensibile al tema, ma che sfido chiunque a riuscire ad ascoltarlo mantenendo il ciglio asciutto e la mano ferma. E a non farsi trascinare dalla voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dall'ammaliante voce di Marisa Sannia. "Ninna nanna a cantare" è invece sull'altro versante delle nanne, più vivace e veloce, ma altrettanto dolce.
Ma nei 44'59" del disco non ci sono momenti bassi, l'ispirazione non abbandona mai Marisa e, per paradosso geografico, i versi di "Montanaru" e le trame dolci che intesse loro attorno Marisa Sannia, soprattutto nella "Morte dell'elce", richiamano i canti della terra di Gigi Maieron in quel capolavoro che era "Si vif". Lingue diverse dall'italiano, per sentimenti universali, contatto con la natura e abbraccio con i ritmi della terra e con i suoi suoni. Il montanaro carnico e il "Montanaru" barbaricino in alcuni estremi si toccano. E ognuno di questi due dischi potra con sè il respiro della terra e un suono che non è mai solo di una nazione o di una terra, ma universale. Cinque stelle, due lune e un mare incantato per un disco che incanta.
Chi ha seguito gli ultimi dischi pubblicati da Marisa Sannia in lingua
sarda ha avuto modo di apprezzare le sue qualità di autrice e di musicista
raffinata e di gusto: pochi sanno però che gli esordi come autrice della
cantante pupilla di Sergio Endrigo risalgono agli anni '70, ad un album che non
esito a definire un piccolo gioiellino, uno dei miei preferiti in assoluto: “La
pasta scotta”.
Il disco fu pubblicato nel 1976 (la matrice è datata 1 ottobre), gli
arrangiamenti sono curati da Danilo Vaona, e si fanno decisamente apprezzare,
forse non per l'originalità ma sicuramente per la cura sonora e il buon gusto.
Passando alle canzoni, la title track è un valzer-ballata stile west coast:
se fosse in inglese me la immagino nel repertorio di una Linda Ronstadt o di
una Nicolette Larson; anche altre canzoni si rifanno decisamente a questo
stile, penso a “E' freddo il tuo caffè”, che pare una cover di Neil Young ed è,
invece, scritta testo e musica dalla Sannia (come del resto tutti i brani di
questo disco).
“Se sarà più bello” è la classica canzone cantautorale, con un inizio con
la chitarra arpeggiata, a cui poi si affiancano gli altri strumenti, tra cui il
violino negli intermezzi delle strofe cantate; ed anche “Stagioni nuove” si
basa sull'arpeggio della chitarra, mentre il testo, sul trascorrere del tempo e
sui cambiamenti, è tra i più interessanti, con un'armonica a bocca che si
aggiunge nel finale (peccato che non siano riportati i nomi dei musicisti).
“Vorrei essere io” è una delicata canzone d'amore che chiude il lato A,
mentre la canzone che apre il lato B, “Il guardiano”, si stacca un po' dalle
atmosfere precedenti ed è sicuramente la più ritmata del disco.
Un po' sottotono “Ma chi sei”, mentre invece è molto bella “Ma quale regina”,
sia per la musica, basata sugli archi e sulla chitarra, che per il testo che è
su un amore finito e sulla disillusione che ne segue, con dei riferimenti però
molto precisi alla presa di coscienza delle donne ed alle lotte femministe di
quegli anni (espressi però in modo metaforico e poetico).
“Masticavo chewingum” è una ballata in cui la Sannia racconta la sua
adolescenza e la sua giovinezza, paragonandole alla sua vita da adulta.
Conclude il disco “Anche se non so nuotare”, che superando i sei minuti è
la canzone più lunga del disco, ed una delle più belle e interessanti: una
riflessione sulla vita, un mare in cui ci ritroviamo a doverci muovere anche
senza saper nuotare, dal momento della nascita, e sul suo senso. Musicalmente
il brano si caratterizza per la lunga coda strumentale, con riferimenti al Neil
Young di “On the beach” e “Zuma”, ed il basso in evidenza.
Un disco che, ovviamente, non è mai stato ristampato in cd.
Grandissima artista... conosciuta grazie a mio padre. Avrebbe esultato per questo post. Commossa.
RispondiEliminagrazie dell'apprezzamento, più di così cosa può aspettarsi chi scrive un blog?:)
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