S. nasce nelle campagne del sud del Marocco
nel 1990. Arriva minorenne a Palermo, con due fratelli più piccoli, per
ricongiungersi al padre, venditore ambulante da vent’anni in Sicilia e del
quale oggi non si hanno più notizie.
Dopo un periodo di convivenza estremamente
problematica col padre, S. si trasferisce prima da amici e poi in un centro
d’accoglienza palermitano, mentre i due fratellini venivano affidati a due
comunità dal Tribunale dei minori di Palermo.
Dal 2010 collabora volontariamente con il Centro
Astalli di Palermo come operatore e come mediatore culturale, mettendosi
generosamente a disposizione degli altri migranti.
Nel 2011 S. trova lavoro in un’impresa edile,
quest’esperienza si rivela pesante: con il miraggio di un’assunzione, viene
sfruttato e mal pagato per un lavoro duro, talvolta pericoloso e in nero.
Nel frattempo S. consegue la licenza media con
ottimi voti e si iscrive con grande motivazione alla scuola superiore dove si
diploma nel 2016, dopo cinque anni di impegno, non solo per le difficoltà
linguistiche e per gli orari scolastici serali ma anche perché già dall’autunno
2011 si manifestano i primi sintomi della sua patologia psichiatrica, una
psicosi paranoidea, che il ragazzo fatica ad accettare. Da questo momento in
poi sarà seguito presso i servizi di salute mentale di Palermo.
Gli anni del liceo sono intervallati da
ricoveri volontari; pur con qualche con difficoltà S. segue la propria terapia.
Nel 2014 il ragazzo subisce un travagliato
TSO: egli stesso, convinto di essere vittima di persecuzione e minacce, chiama
impaurito la polizia. Gli agenti lo trovano in stato di agitazione e reputano
opportuno un intervento sanitario coatto. Durante quel T.S.O, avvenuto in
maniera spropositatamente violenta – viene contenuto fisicamente dagli agenti e
dagli infermieri “ex manicomiali” – S. non capisce, si dimena, oppone
resistenza e per questo viene denunciato.
Dopo un lungo periodo di degenza al reparto di
psichiatria di un ospedale palermitano, nel quale S. rimane per i primi giorni
legato alle caviglie e ai polsi, viene tentato un percorso riabilitativo presso
una clinica privata: S. risponde bene al trattamento farmacologico e alla
psicoterapia e, al momento delle dimissioni, mostra maggiore consapevolezza nei
confronti del proprio disturbo.
Durante i mesi di ricovero, S. continua a
studiare e ottiene permessi speciali di uscita per sostenere interrogazioni e
compiti in classe. I professori premiano il suo impegno ammettendolo al quarto
anno nonostante le assenze per motivi di salute.
Dopo le dimissioni dalla clinica, S. inizia ad
essere seguito nuovamente dai servizi pubblici di salute mentale e trova posto
in una CTA (Comunità Terapeutica Assistita).
In questo periodo S. ottiene una borsa lavoro
nell’ambito del progetto Comunità Urbane Solidali (in questo blog ne abbiamo
parlato qui: http://www.labottegadelbarbieri.org/comunita-urbane-solidali/ ).
Dopo il diploma S. si iscrive così alla
facoltà di Sviluppo Economico e Cooperazione Internazionale ottenendo una borsa
di studio dall’Ersu con vitto e alloggio in una residenza universitaria.
La sintomatologia riappare in maniera più
evidente già nel 2017 e manifesta il suo aspetto più acuto il 9 aprile 2017
alla mensa universitaria: all’ora di cena il ragazzo mette in allarme i
commensali pronunciando parole a oggi ancora poco chiare ma che, in questo
periodo storico di quotidiano allarmismo, vengono scambiate per un atto di
terrorismo islamico.
Giungono sul posto le forze dell’ordine e i
rappresentanti dell’Ersu che, pur conoscendo la storia clinica di S. e pur
essendo evidente il suo stato di sofferenza, non reputano necessario nessun
intervento sanitario. S. viene portato in caserma per accertamenti e poi
rilasciato.
Comprensibilmente provato e nel tentativo di
rielaborare quanto accaduto, il 13 aprile, accompagnato da tre volontarie, fra
cui la responsabile della CGIL migranti di Palermo, S. si reca spontaneamente
presso la clinica privata dove era stato seguito, con la volontà di effettuare
un nuovo ricovero.
In clinica, mentre aspetta di incontrare il
medico e avviare le pratiche del ricovero, S. viene contattato telefonicamente
da un agente della Digos che conosce e di cui si fida, dando indicazioni
precise sul luogo in cui si trova.
Qualche minuto dopo, altri due agenti della
Digos giungono in clinica e lo prelevano senza attendere il colloquio con i
medici. S. viene condotto presso il Pronto Soccorso del Policlinico
Universitario di Palermo, qui lo aspettano anche i dirigenti dell’Ufficio
Immigrazione della questura di Palermo: S. viene sottoposto a una brevissima
visita medica e subito dopo trasferito all’Ufficio Immigrazione della questura
dove gli viene revocato il permesso di soggiorno – la borsa di studio era stata
già sospesa qualche giorno prima – e notificato un decreto di espulsione. Dalla
questura S. viene quindi trasferito al Centro d’Identificazione ed Espulsione
di Caltanissetta, il famigerato CIE di Pian del Lago.
Durante il trasferimento forzato, gli agenti
minacciano S. di distruggere il suo computer sotte le ruote della macchina, lo
ammanettano “a incrocio” e lo percuotono alla testa, provocando una ferita
ancora sanguinante al momento dell’arrivo al CIE.
L’avvocato di S., Ileana Grottadaurea, in un
comunicato stampa riferisce «Sono preoccupata per il mio assistito perché non
ha potuto seguire la terapia. Fra l’altro mi ha mostrato alcuni lividi che, ha
riferito, gli sarebbero stati provocati dagli agenti della Digos, durante il
trasferimento al CIE».
L’udienza del 15 aprile convalida il
trattenimento contro il quale l’avvocato presenta un ricorso per Cassazione:
pur avendo necessità di cure specialistiche presso strutture adeguate e
riabilitanti, S. è tuttora rinchiuso nel CIE di Caltanissetta.
«Ancora una volta assistiamo alla totale
follia della normativa italiana e comunitaria per la gestione delle migrazioni
e dell’accoglienza dei migranti» dichiara il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.
A favore di S. si espone anche
il professor Daniele La Barbera, direttore della Scuola di specializzazione di
Psichiatria dell’Università di Palermo, che sulla sua pagina Facebook dichiara:
«Espellere una persona che invece può e deve essere curata è un atto razzista,
oscurantista e di una indicibile violenza; non è in alcun modo accettabile
sostituire una terapia con una punizione, le cui conseguenze, per altro,
possono essere gravissime, proprio perché si tratta di un soggetto
psicologicamente fragile. Addolora che un individuo affetto da un disturbo
psichico debba ancora oggi essere considerato socialmente pericoloso piuttosto
che bisognevole di cure».
Il 20 aprile 2017 il senatore
Cotti del M5S presenta un’interrogazione parlamentare sottoscritta anche dai
senatori Giarruso e Serra.
S. si trova ancora al CIE di
Caltanissetta, non riesce a dormire la notte perché si è reso conto che i
rimpatri avvengono a sorpresa a notte inoltrata, vive con la continua paura di
essere espulso da un momento all’altro e di subire ulteriore violenza. Non è
chiaro quanto e da chi la terapia farmacologica di S. sia “attenzionata”
all’interno del CIE ed è comunque evidente che le sue condizioni di salute non
possono che peggiorare in un contesto di reclusione.
E’ inaccettabile la detenzione
di un ragazzo innocente, con un vissuto psichico così vulnerabile, che
necessita un percorso riabilitativo in un ambiente protetto: S. ne ha pieno
diritto, come immigrato, come persona.
E’ vergognosa la negazione
della libertà personale, del diritto alla salute e allo studio; è scandaloso il
tentativo d’espulsione verso un Paese a lui ormai estraneo e nel quale non ha
nessun punto di riferimento. Verrebbe da pensare che S. verrà espulso a
prescindere, per diventare un trofeo della politica razzista e securitaria del governo
Gentiloni e del suo ministro Minniti.
S. può essere ancora salvato:
l’immediata mobilitazione ha rallentato i tempi dell’espulsione: c’è la
sensazione che al ministero dell’Interno abbiamo compreso il clamoroso
boomerang a cui si stanno esponendo. L’impressione è che si voglia far calare
l’attenzione sul caso e liberarsi di S. in silenzio, per non dire “abbiamo
sbagliato”. Ormai è comunque evidente che S. non potrà essere più la prima
“medaglia al valore” di Minniti: il caso è stato comunque smascherato, la sua
espulsione non potrà essere sbandierata come successo delle politiche di
prevenzione antiterrorismo.
Bisogna dunque continuare la mobilitazione, diffondere il più
possibile questa storia e tenere alta l’attenzione su S. per restituirgli al
più presto libertà e diritti.
Il rimpatrio forzato in Marocco
rappresenterebbe un ulteriore trauma e non è affatto chiaro a cosa vada
incontro esattamente: di certo la famiglia del ragazzo è ormai disgregata.
Sarebbe strappato ai suoi punti di riferimento in Italia, il suo progetto di
studio sarebbe bruscamente interrotto, gli verrebbe negato il diritto alla
salute distruggendo tutto quello che, nonostante il disturbo psichiatrico e con
grande fatica anche economica, S. ha costruito in questi anni in Italia.
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