Aprile del 2016,
scoppia il caso dei Panama Papers. Vengono divulgati oltre undici milioni di documenti confidenziali provenienti da uno studio
legale di Panama, e
riguardanti società di oltre duecento nazioni del mondo che usavano compagnie
anonime e trust per nascondere i più svariati giri di denaro. Uno dei più
grandi scandali nella storia dei paradisi fiscali.
Non
si contano, nei giorni successivi, le dichiarazioni indignate e quasi offese
dei politici di tutto il mondo. Il Commissario Europeo agli affari fiscali Moscovici
parla apertamente di un comportamento “immorale, non etico e, in una parola,
inaccettabile”. L’Unione Europea ha il dovere di porre fine a questo genere di
trucchi fiscali, tuona il Commissario. Lo seguono a ruota tutti i governi
europei. E’ ora di agire. Mentre da anni si chiedono sacrifici e austerità, è
possibile che simili comportamenti privino i governi di miliardi e miliardi di
euro?
Un fenomeno di dimensioni inimmaginabili. I Panama Papers riguardano un singolo
studio legale di una singola giurisdizione. Quanti sono gli avvocati a Panama?
E perché solo gli avvocati e non i commercialisti, i notai, i consulenti, i
banchieri? E perché solo Panama e non anche le decine e decine di territori che
il Tax Justice Network classifica tra i paradisi fiscali del pianeta?
Il problema è che parliamo di un vero e proprio mercato della segretezza,
dell’evasione fiscale, del riciclaggio, della corruzione, dell’illegalità, in cui ogni giurisdizione si
specializza in alcune operazioni e in una particolare nicchia. Una corsa verso
il fondo su normative e controlli per attrarre capitali e imprese offrendo le
condizioni più vantaggiose. Pensare di contrastare tale fenomeno inseguendo
l’isoletta tropicale di turno significa fermare una valanga a mani nude. Se
anche si chiude uno studio di consulenti ne spunta un altro, se convinci una
giurisdizione a adottare leggi più stringenti un’altra offrirà normative ancora
più compiacenti. L’approccio seguito dall’OCSE, che per anni ha stilato liste
nere, grigie e bianche di presunti paradisi fiscali si è dimostrato
fallimentare.
Non
è quindi possibile fare nulla? Al contrario. Se i Panama Papers e gli altri
scandali hanno insegnato qualcosa, è che dobbiamo ribaltare l’approccio;
risalire alla fonte. Non guardare dove finiscono i soldi, ma da dove
provengono, quale sia l’origine e quali siano i beneficiari. In altre parole
iniziare a guardare in casa nostra e non scaricare le responsabilità (solo) su
Panama, le Cayman o qualsiasi altro territorio offshore. Grazie al lavoro delle
reti internazionali della società civile, il contrasto ai paradisi fiscali
negli ultimi anni sta finalmente andando in questa direzione. Le proposte oggi in discussione riguardano l’obbligo per le
multinazionali di pubblicare i propri bilanci suddivisi per ogni giurisdizione
in cui operano (country by country reporting),
in modo da potere immediatamente sapere fatturato, profitti e carico fiscale in
ogni Paese in cui operano. Un’altra misura fondamentale è la cosiddetta beneficial
ownership, ovvero rendere noto il reale
beneficiario di ogni impresa, in modo da evitare le scatole cinesi e
l’anonimato che nascondono dai profitti delle
imprese ai proventi dei peggiori traffici delle mafie internazionali.
A
luglio la Commissione pubblica una proposta di revisione della normativa anti-riciclaggio
per garantire un pieno accesso del pubblico – quindi anche di giornalisti e
società civile – ai registri contenenti l’indicazione del reale proprietario di
ogni impresa e trust che opera sul territorio dell’UE. Una procedura che esiste
già in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna. Negli ultimi mesi, però, l’eco dei
Panama Papers e l’attenzione del pubblico si sono affievolite. A dicembre 2016
i negoziati europei hanno ridotto di molto le aspettative, in particolare
abbandonando la proposta della Commissione di rendere pubblico l’accesso a
questi registri. Il nuovo testo prevede che sia necessario dimostrare un
“interesse legittimo” alle informazioni, per potervi accedere, a meno che i
singoli Stati non prevedano esplicitamente un accesso pubblico. Non solo viene meno l’accesso pubblico, ma nel momento in cui ogni Paese
dell’UE può definire autonomamente cosa intende con “interesse legittimo” si
crea un gap tra le diverse legislazioni europee. Gap che può essere sfruttato
per cercare nuovamente il Paese più “compiacente” dal punto di vista della
riservatezza e della non-trasparenza.
Il governo italiano ha adottato una definizione estremamente deludente.Di fatto è difficilissimo per i
cittadini e persino per i giornalisti riuscire a provare il “legittimo
interesse”. Il decreto del governo dovrà ora passare al vaglio del Parlamento,
ma sta di fatto che l’Italia ha al momento la definizione di legittimo
interesse probabilmente peggiore di tutta l’UE. La prossima volta che
critichiamo la burocrazia europea, informiamoci sulle responsabilità dei
singoli governi, anche di quelli che poi se la prendono con la stessa UE
promettendo di andare a Bruxelles a fare la voce grossa.
Nel frattempo il Parlamento europeo sta cercando di spingere per una
maggiore trasparenza dei registri. Un voto del febbraio 2017 ha chiesto
una risposta ambiziosa allo scandalo dei Panama Papers, in particolare
introducendo un registro pubblico dei reali beneficiari di imprese e trust che
operano nell’UE, e rimediando ad alcune mancanze della proposta originale della
Commissione, tra le quali l’obbligo per le banche di interrompere ogni rapporto
con le compagnie che non possono identificare il loro reale beneficiario.
Le
resistenze a tale proposta sono molte, il tira e molla continua. Nel frattempo
nelle scorse settimane dalla Russia arriva lo scandalo denominato “lavatrice
globale” – global laundromat.
Decine di miliardi di dollari di soldi di origine criminale ripuliti e
sbiancati tramite società anonime e banche di mezza europa. Scandalo a cui sono
seguite dichiarazioni indignate e ferme prese di posizione di governi e
politici di tutta Europa. Secondo voi come andrà a finire?
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