Lettera aperta al rettore dell’università La Sapienza
di Roma
Signor rettore,
sono Michel Warschawski, giornalista ebreo-israeliano di Gerusalemme. Il 23
marzo ero invitato come relatore a un dibattito all’interno dell’università la
Sapienza; uno degli eventi organizzati intorno al sessantesimo anniversario
dalla firma dei Trattati di Roma.
La Sua decisione di vietarci l’accesso all’università mi ha stupito? Sì e
no. No, perché purtroppo siamo abituati alle pressioni dell’ambasciata di
Israele e delle sue agenzie locali affinché le voci che criticano la politica
dello Stato di Israele siano sistematicamente censurate.
E tuttavia, confesso il mio stupore per una censura messa in atto da
un’istituzione tanto prestigiosa. Un’università dovrebbe essere un luogo di
riflessione libero, e dunque di parola liberata. Imbavagliare la libera
espressione non è degno di un’università come La Sapienza.
Non sarebbe nemmeno necessario precisare che nelle nostre intenzioni,
quella del mio amico palestinese e i miei, non c’era odio né razzismo verso
chicchessia.
Stéphane Hessel – un grande uomo, esponente della Resistenza e co-redattore
della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni unite – in
occasione di un incontro davanti alluniversità della Sorbona, anch’essa chiusa
a una conferenza destinata alla pace in Israele e Palestina, osservò: «Quando
un istituto universitario si piega davanti a pressioni politiche e impedisce la
libera espressione, è il segno che la società è gravemente ammalata».
Chiudendoci le vostre porte, ci confermate che l’Europa, e in particolare
l’Italia, vive oggi una crisi che potrebbe essere fatale per la sua democrazia.
La democrazia formale non serve più, un'intervista a Michel Warshawski, (di Alessandra Mecozzi)
Abbiamo
incontrato Michel Warshawski, giornalista, scrittore e attivista israeliano,
nato a Strasburgo nel 1949 da madre francese e padre polacco immigrato e
residente a Gerusalemme, in occasione del seminario “E’ tempo di giustizia in
Palestina. Le responsabilità dell’Europa”. L’Università La Sapienza di Roma ha
negato la sera prima l’aula designata per ospitare l’incontro, Warshawski,
co-fondatore dell’Alternative Information Center (Gerusalemme ovest – Beit Sahour), ne era uno
dei relatori più autorevoli. Abbiamo approfittato del suo viaggio a Roma per
porgli alcune domande sulla nuova profonda svolta antidemocratica che sta
investendo il suo paese.
Come
sei arrivato a impegnarti nella lotta contro l’occupazione israeliana? E’ stato
il frutto dell’educazione familiare?
Mio
padre, rabbino, è diventato una personalità, ma ha dovuto lottare per farsi
accettare socialmente. Io non capivo granché, ma da piccolo a scuola mi
chiamavano dispregiativamente “polaque” (non polonais). Faccio parte della
prima generazione nata dopo la guerra, sono cresciuto con l’onnipresenza dei
discorsi e dei ricordi sulla “occupazione” nazista. A 17 anni sono andato nei
territori palestinesi, accompagnavo mio padre che portava pellegrini ebrei a visitare
i luoghi santi. Mi sono trovato di fronte alla occupazione israeliana senza
sapere proprio niente di conflitto arabo-israeliano, della guerra del 1967…ma è
lì che ho capito. Nel momento in cui, parlando con un commerciante palestinese,
ho visto nei suoi occhi la paura, la paura di un ragazzo israeliano: e di nuovo
è risuonata la parola “occupazione”. Ma questa volta noi non eravamo gli
occupati, ma gli occupanti. Quella parola, occupazione, evocava nella mia testa
storie di violenza, di brutalità, di miseria, ho capito che mi riguardava in
prima persona e che dovevo battermi contro di essa, ma dovevo farlo mantenendo
sempre aperto e vivo il rapporto tra Israeliani e Palestinesi. Per questo,
insieme ad altri, fondammo l’Alternative Information Center, che è l’unica
organizzazione “bilaterale” che ha resistito a resiste a tutte le crisi. Siamo
riusciti a farne una sola organizzazione, non una partnership tra due diverse.
Quelle che hanno scelto la separazione ad ogni crisi si sono fermate, ognuno si
è rinchiuso nel suo cerchio. Perfino Neve Shalom che esiste da moltissimi anni…
A
che cosa attribuisci questa resistenza?
Per
quanto mi riguarda, sono certo che derivi dalla mia formazione
internazionalista, per la quale ritengo che ci siano valori che trascendono le
diversità di paese, di religione, di etnia….Per molti anni il lavoro, la lotta
in comune tra Israeliani e Palestinesi, è stato forte….Oggi purtroppo le cose
sono cambiate, ed è diventato molto più difficile. Israele ha costruito un muro
di cemento, che si è alzato anche nelle
teste di tantissimi attivisti/e. Ci tengo a dire che io parlo sempre di
occupazione coloniale e che tutto il dibattito sull’indipendenza ci porta alla
questione del controllo dei confini. Fin da Ben Gurion nella cultura israeliana
non ci sono confini. Il termine anglosassone, americano, fronteer indica uno
spazio libero da occupare, quello di border indica invece un limite che non va
oltrepassato! Dal 1967, con l’occupazione conseguente di territori, il concetto
“colonizzazione” è entrato nel discorso politico. Anche l’impatto psicologico è
stato forte; si è realizzato nel 1977, quando è avanzata la destra
nazionalista, la religione ha preso maggior peso, e i giovani a quel momento
sono diventati l’avanguardia dei coloni…
Oggi,
e ancor più dopo l’elezione di Trump, sembra che la situazione non permetta più
di parlare di “due popoli, due Stati”. Molti dicono che la situazione sul campo
è irreversibile. Sei d’accordo?
Assolutamente
no. Questo concetto di irreversibilità già negli anni ’70 lo esprimeva Meron
Benvenisti (vice sindaco di Gerusalemme) dicendo che il processo di
colonizzazione/annessione era un fatto irreversibile e dunque non fattibili i
due Stati. Ma non ero e non sono d’accordo. Non c’è niente di
irreversibile…tranne se c’è un genocidio!
In
Europa, e ancor più in Italia, stiamo assistendo ad una azione repressiva ed
escludente rispetto a iniziative che vogliano promuovere informazione sulla
Palestina e la cultura palestinese. L’ultimo caso è quello dentro cui anche tu ti
sei trovato, con il divieto dell’ Università la Sapienza di fare il seminario a
cui sei stato invitato all’interno dell’università. Il divieto è stato espresso
su richiesta esterna di un Osservatorio sulle discriminazioni, Solomon, legato
alla Comunità ebraica. A tuo avviso questa “stretta” corrisponde ad una stretta
anche nella politica interna di Israele?
Sì,
in Israele si sta verificando più che una regressione, c’è un passaggio da un
regime a un altro. Lo Stato di Israele sta diventando un’altra cosa. Lo stesso
Adam Burg, già presidente di Israele, parla di fascismo. La dimensione
democratica viene rimessa in discussione. Si parlava di Stato ebraico
democratico: adesso il ministro dell’Istruzione, Naftali Bennett, dice
apertamente che la parte importante di questa definizione è l’ “ebraico”, non
il democratico. E questo viene realizzato attraverso una serie di nuove leggi
discriminatorie nei confronti dei Palestinesi in Israele. Per esempio quella
detta della regolarizzazione che permette di espropriare un proprietario
palestinese e passare la sua terra a uno ebreo. Prima per gli espropri si
adducevano ragioni di sicurezza, per la località in cui era situata la terra,
per esempio su una certa collina…Con questa legge lo si può fare senza alcuna
motivazione. E’ importante notare che la Corte Suprema ancora non si è
dichiarata, è stato espresso qualche dubbio di incostituzionalità, ma il
ministro della giustizia ha già dichiarato che se la Corte Suprema si immischia
nella questione verrà fatto un articolo speciale che proibisce alla Corte di
esprimersi sulle decisioni del governo.
Ma
come può avvenire una cosa del genere?
E’
semplice, il governo dice: noi siamo la maggioranza, quindi esprimiamo la
volontà popolare. Una volontà assoluta, che non può essere contraddetta dalla
Corte Suprema. Insomma, c’è una dittatura della maggioranza. Il cambiamento è
profondo e viene operato passo dopo passo. Adesso ci sono due argini: la Corte
Suprema e certi organi di informazione, dove ci sono buoni giornalisti, articoli
critici, reportage. Netanyahou e la ministra della giustizia hanno deciso di
rompere entrambi gli argini. Il governo sta distribuendo gratuitamente per
strada un suo giornale e ha espresso l’intenzione di far votare una legge per
limitare il potere dei mezzi di informazione. D’altro canto, la ministra della
giustizia ha già fatto un passo verso la modifica della Corte Suprema,
rimpiazzando con propri nominati nella commissione che ne sceglie i giudici,
man mano che vanno in pensione i suoi componenti, quelli considerati
dell’”attivismo giuridico”, che può cioè intervenire sulla natura della legge.
Se la Corte Suprema perde questa prerogativa, diventa una semplice corte
d’appello, senza alcun potere.
Sulla
informazione non siamo ancora alla censura, ma le ultime leggi rafforzano il
“discorso unico”. Al fondo c’è il concetto di “fedeltà allo Stato”. Ad esempio
i deputati della Knesset dovranno esprimere fedeltà allo Stato di Israele come
Stato del popolo ebreo. Intanto, la ministra della cultura ha dichiarato che
non darà più fondi a chi non dimostra fedeltà allo Stato: il Teatro Nazionale
si è visto tagliare i fondi perché ha presentato una pièce teatrale scritta in
carcere da un ex prigioniero politico palestinese. L’argomento a sostegno di
tale scelta è che il bene pubblico va gestito dalla maggioranza eletta, cioè
dal governo. Ora la ministra della cultura è piuttosto incolta, ma è
significativo che sia stata il generale dell’esercito che operava la censura
militare su tutta l’informazione pubblica civile, una censura motivata da
questioni securitarie. Questa censura era scomparsa negli anni ’80.
E
sul caso dell’Università di Roma in particolare, tenendo conto che non è il
primo, cosa ti senti di dire?
Immagino
che non sarà neanche l’ultimo. Ricordo che in Francia, nel 2002, Sharon
incontrò Cukiermann, presidente del CRIF, Consiglio dei rappresentanti della
comunità ebraica in Francia, e disse esplicitamente che bisognava organizzare
una controffensiva all’estero utilizzando “l’antisemitismo”. Venne lanciata una
campagna di demonizzazione di giornalisti e politici accusati di essere
antisemiti. Poi ci fu un po’ di calma. Ma dal 2008, da quando la campagna BDS
ha cominciato a mostrare efficacia, dal punto di vista dell’immagine più che
economicamente, in Israele si è aperta una nuova fase. In partnership con il
ministro degli affari esteri, Lieberman, è stata messa in piedi una task force
per una “strategia difensiva di attacco”! Una strategia basata su propaganda e
repressione contro chi critica questo Israele. E’ rivolta contro tutti coloro
che chiedono qualche forma di sanzione, non solo la campagna BDS. La novità è
che da un anno si è costituito un dipartimento con ampio budget statale che,
attraverso una task force, è incaricato di tenere sott’occhio e prendere di
mira Stati e istituzioni pubbliche, una vera e propria strategia del governo.
Quanto è successo a Roma rientra in questa politica e di solito, penso al caso
francese, c’è un collegamento con l’ambasciata israeliana del paese
interessato.
intervista a Michel Warschawski (di Barbara Monaco)
Michel Warshawski è nato nel 1949 a Strasburgo, dove suo padre era rabbino.
All’età di 16 anni va a Gerusalemme per studiare il Talmud, in seguito, ancora
a Gerusalemme, studia filosofia presso l’Università Ebraica. Dopo aver per
lungo tempo abbandonato la fede, si riavvicina ad alcuni sottili punti della
religione ebraica. Nel 1982 Warschawski è uno dei co-fondatori di Yesh Gvul e,
nel 1984 dà vita all’Alternative Information Center (AIC), un’organizzazione
che vede uniti attivisti anti-sionisti israeliani e palestinesi; è tra i primi
israeliani a rifiutare ripetutamente il servizio militare, ed è stato per
questo più volte incarcerato.
Warschawski è scrittore e giornalista, i cui articoli appaiono regolarmente sull’International Viewpoint, Le Monde diplomatique, Znet, Monthly Review e Sine Hebdo. In occasione delle elezioni del 2006 alla Knesset si candidò nella lista Balad (L’Assemblea Democratica Nazionale).
Tra i suoi libri apparsi in traduzione italiana:
Israele-Palestina. “La sfida binazionale. Un «sogno andaluso» del XXI secolo” – Edizioni Multimediali – 2002; “A precipizio. La crisi della società israeliana” – Bollati Boringhieri – 2004; in collaborazione con Gilbert Achcar, “La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano” – Edizioni Alegre – 2007; “Programmare il disastro. La politica israeliana in azione” -Shahrazad Edizioni – 2009.
Nel 1987 l’Alternative Information Center, da lei fondato 25 anni fa, venne minacciato e lei subì un arresto: com’è la situazione attuale?
Non abbiamo più problemi adesso, e questo non è un buon segno, perché significa che le autorità non si sentono più minacciate da noi. Nel 1987, quando venni arrestato, il centro rappresentava l’unico passaggio, l’unico centro di comunicazione tra la sinistra israeliana e la società civile palestinese. Il nostro era l’unico centro misto e il problema per il Governo era dato proprio da questo; eravamo gli unici ad aver abolito la frontiera. In Israele il concetto di frontiera è molto importante, al contrario noi avevamo creato un Noi collettivo, senza annullare le nostre differenze. Subito dopo il mio arresto e la chiusura temporanea del centro, scoppiò la Prima Intifada e questo riuscì a fare un’ulteriore breccia nella frontiera; durante gli anni che andarono dal 1987 al 1990 questa divenne una realtà di massa all’interno della stessa società israeliana. A partire dal 2000 cominciò invece un’inversione di tendenza; adesso c’è di nuovo un muro, ed è per questo che le autorità non hanno più problemi con noi; ormai, invece che collera, provochiamo piuttosto un sorriso ironico: siamo retrò…
Leggendo le sue interviste e i suoi testi, il concetto di frontiera di cui parlava poco fa assume sempre un significato profondo; credo che in Europa si sia sempre guardato ad Israele come ad un luogo in cui era diffusa un’idea di confine e di proprietà nazionale da tempo superata dalle democrazie occidentali…quasi un concetto vicino a quello di far-west americano o a quello di un superato colonialismo europeo. Personalmente purtroppo, mi sono fatta l’idea che attualmente questo stesso concetto sia tornato in auge, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa…
Sono completamente d’accordo, Israele ha tristemente anticipato la filosofia di frontiera del XXI secolo, per la quale le frontiere spaziali sono sempre più aperte e quelle umane sempre più blindate; anche il vostro Trattato di Schengen non è altro che la formazione di un muro ideale, facilmente superabile dalle merci e dai movimenti bancari, ma non dalle persone. Paradossalmente, Israele che da un lato si ostina da sempre a non voler delineare confini con i suoi vicini, per non porre limite alla sua forza espansionistica, fissa frontiere ermetiche ed alimenta il concetto di separazione su cui si fonda, ha anticipato così le tendenze delle politiche occidentali. Lo scopo profondo dello Stato d’Israele, e questo riguarda tutta la società civile del Paese, da destra fino a sinistra, è quello di mantenersi etnicamente il più puro possibile: in questo senso beffardo gli è necessario riconoscere la Palestina, per mantenere la sua purezza etnica. Il concetto di separazione, che qualche volta può rivelarsi un buon mezzo (se due ragazzini fanno a botte è necessario separarli, sul momento), in Israele diventa un valore. Quando mi si dice che, comunque, quella israeliana è una democrazia, devo rispondere che ciò è vero, in Israele abbiamo una democrazia molto avanzata, forse, per certi versi, migliore di molte democrazie europee, ma questo vale solo per la maggioranza ebraica, tanto che un sociologo ha definito quella israeliana una etnocrazia. Sempre per questa ragione essa conserva ancora un altro limite, nuovamente legato al concetto di frontiera: finché la maggioranza ebraica discute della questione palestinese è liberissima di farlo, ma nel momento in cui qualcuno tenta di allacciare un rapporto reale con un membro della società palestinese, viene immediatamente espulso, non gode più dei diritti riconosciuti al resto della comunità.
In Europa risulta scandaloso paragonare la tragedia palestinese con ciò che gli Ebrei subirono durante la Seconda Guerra Mondiale, cosa ne pensa?
È sempre molto difficile ed azzardato paragonare due situazioni storiche diverse, poiché nascono e si sviluppano da e per motivazioni sociali, spaziali e storiche differenti. L’atteggiamento d’Israele nei confronti del popolo palestinese si è sviluppato seguendo più fasi e, una di queste, quella cominciata nel ’48, è stata sicuramente volta ad una politica di epurazione etnica, per poi concretizzarsi in una politica coloniale particolarmente dura, fondata sul massacro della popolazione, sulla distruzione, sull’oppressione razziale e sull’espulsione. Certamente, ancora oggi il fantasma dell’epurazione resta nelle menti degli Israeliani: ovvero quello di una cancellazione totale dei Palestinesi, ma questa resta una fantasticheria. Anche parlare di espulsione, ad oggi, non è più corretto, e questo ce lo spiega la recente carneficina di Gaza: se si vuole costringere un popolo ad andarsene lo si circonda da tre lati, non da tutti e quattro, imprigionandolo letteralmente come, appunto, è successo e succede a Gaza.
L’obiettivo israeliano in questa terza fase di colonizzazione è quello di raggiungere la massima espansione territoriale con il massimo numero di Israeliani e il minor numero di Palestinesi possibile al suo interno. Quella israeliana, il cui grande conduttore, seppur in coma profondo, è tutt’ora Ariel Sharon, è quella che io chiamo una politica dell’emmental: dove gli israeliani sono rappresentati dal formaggio e i palestinesi dai buchi.
D’accordo, ma quello che io mi chiedo è: cosa ne pensa la società israeliana? Ovvero, dove spera di arrivare adottando una tale politica, non è allora così tanto preoccupata dagli attentati terroristici, se pensa di poter imprigionare i Palestinesi in simili isole territoriali…
Paradossalmente sì, la società israeliana ha paura. Se fino al 2000 il grande problema da risolvere era quello dell’Occupazione, a partire da quell’anno l’opinione pubblica israeliana vive nel terrore della minaccia, araba in generale ed islamica in particolare, l’Islam attenta, nel suo immaginario, alla civilizzazione giudaico-cristiana, ed essa vive con la convinzione di non poter aver un dialogo con i propri vicini.
Ma perché sentirsi così minacciati dall’Islam, senza temere in alcun modo la civiltà cristiana che, bene o male, ha ghettizzato gli Ebrei per millenni?
Prima della rivoluzione, il Cristianesimo ha perseguitato gli Ebrei con una violenza sconosciuta al mondo musulmano, per i duemila anni durante i quali il popolo ebraico veniva perseguitato in Europa, nei Paesi arabi nulla di tutto ciò accadeva, seppur gli Ebrei rappresentassero una minoranza in quell’area: ci troviamo di fronte ad una percezione capovolta della storia…
Ma veniamo al suo ultimo testo, “Programmare il disastro”…
In primo luogo vorrei discolparmi per il titolo, che fu il mio editore francese a scegliere, quando gli presentai il lavoro, e ciò avvenne un anno e mezzo fa, quindi ben prima del disastro di Gaza… Rimanendo ancora sul titolo dico che oggi dobbiamo parlare non di uno, ma di un triplo disastro. Il primo, che è quello dimostrato, e che anche la Comunità Internazionale ha riconosciuto, reso evidente dai 3.000 morti, dalle migliaia di feriti e mutilati provocati, ed alla distruzione di ogni infrastruttura ed abitazione, è quello umanitario; il secondo è il disastro politico israeliano sostenuto dagli Stati Uniti e, ormai da 7 anni, anche dall’Unione Europea. Un simile disastro è stato provocato dalla divisione spaziale tracciata tra Cisgiordania e Gaza, ma anche dalla divisione politica tra ANP e Hamas, avvenuta all’interno della stessa Cisgiordania; si tratta di una crisi interna al Paese provocata anche dall’indifferenza della Comunità Internazionale e dalla collusione esistente tra Stato israeliano e Stati arabi come l’Egitto, che hanno portato la Palestina ad un totale isolamento. La terza dimensione del disastro è quella esistenziale ma, rischiando di scioccarla, le dirò che non riguarda la popolazione israeliana; se infatti, dal 1982, si poteva parlare di due Israele, in quanto, anche se ancora non poteva osservarsi una vera presa di coscienza anti-sionista, esisteva una reale frattura all’interno della società , oggi la caratteristica principale dell’aggressione a Gaza, è data dal sostegno unanime da parte di tutta la popolazione israeliana: non c’è più differenza tra destra e sinistra. Se in passato la frattura era tanto profonda da portare all’assassinio di un primo ministra (Begin), oggi, di fronte alla tragedia di Gaza, si erige un solo Grande Israele, circondato dal suo antico mito, e il risultato è uno: la schiacciante responsabilità di tutta la società israeliana. Il disastro esistenziale, che il popolo israeliano non avverte, è quello a lungo termine, e riguarda la messa in discussione stessa dell’esistenza dello Stato d’Israele. Se durante le tante stragi, Sabra e Chatila, Caana, la prima e la seconda Intifada, il mondo arabo poteva dire, “D’accordo tutto ciò è gravissimo, esiste però anche un altro Israele”, adesso ciò non è più possibile: siamo apparsi a migliaia di nostri vicini come persone infrequentabili, una comunità di selvaggi. All’indomani di uno dei giorni più sanguinosi, quello in cui 35 bambini sono stati massacrati nel centro di Gaza, sono crollato, sono stato assalito da una sorta di profonda depressione; per oltre 24 ore ho sentito un acre odore di cadavere che mi seguiva ovunque andassi. Il giorno seguente, di colpo, quei 35 bambini sono diventati i miei nipoti, e mi sono chiesto: “Oddio, cosa stiamo facendo? Quale avvenire stiamo preparando per i nostri bambini?!”. Avevo veramente voglia di andarmene, lasciare questo Paese, sentivo dentro di me tutto il peso dei pensieri del mondo arabo che, persa ogni speranza, era come se ci dicesse: “Dopo tutti i nostri sforzi, dopo tutti i nostri tentativi di vivervi accanto, veramente, non siete dei vicini possibili!”. Parlavo di questo con un’amica francese che cercava di consolarmi, ricordandomi chi aveva manifestato a Tel Aviv e ad Haifa contro lo sterminio di Gaza; le ho risposto col dialogo tra Dio ed Abramo intorno al destino delle città di Sodoma e Gomorra: “Se ci fossero 50 famiglie di giusti sì”, afferma Dio, “salverei Sodoma e Gomorra”, “e se ce ne fossero dieci?”, domanda Abramo, “anche se ce ne fossero solo dieci”, ma quando Abramo tenta di convincere Dio portando ad esempio la sola famiglia di Lot, Egli non può acconsentire, ed è irremovibile: “No, una famiglia non è sufficiente per salvare tutta la città…”. Allo stesso modo, non sono qualche migliaio di manifestanti a Tel Aviv che salvano l’esistenza…
Ma come è potuto succedere questo? Perché la società israeliana ha deciso di chiudersi fino a questo punto?
La presa di coscienza che la stava permeando a partire dal 1982 si è chiusa nell’agosto del 2000, con l’elezione di Ehud Barak, candidato a ricostruire il consenso messo in discussione in precedenza. Barak torna da Camp David dicendo di essere riuscito a smascherare le vere intenzioni di Arafat, che viene presentato ora come il nemico numero uno, e riesce in questo modo a distruggere, in soli quindici giorni, tutto il movimento per la pace. Quella di Barak era una colossale menzogna: non poteva esserci interlocutore più disponibile e dialogante di Yasser Arafat. Oggi, in Israele, viviamo ancora nel cuore della menzogna di Ehud Barak, e per questo siamo disposti ad intraprendere ogni genere di guerra, permanente e preventiva: la carneficina di Gaza rappresenta ciò che vogliamo. Il problema quindi non è l’Occupazione ma il popolo ebraico che, per aver rischiato di venir sterminato, intraprenderà ogni genere di folle guerra: “Siete dei bambini viziati”, disse Barak ad un popolo che cercava di normalizzarsi, “non capite la minaccia che pesa sulle nostre spalle: non saremo mai uno Stato normale”. Questa è quella che io chiamo la Controriforma di Barak, Sharon e Netanyahu.
Ma allora, qual è l’atteggiamento che noi Europei dovremmo assumere di fronte al conflitto israelo-palestinese?
Dovete far capire al popolo israeliano che ciò che non costa nulla oggi costerà caro domani, che non si può pensare di comportarsi, all’infinito, come una società barbara, e pretendere di essere accettati dalla Comunità Internazionale. Israele ha assolutamente bisogno dell’approvazione internazionale, non soltanto da un punto di vista politico, ma anche psicologico; dovete far capire che così come siamo risultiamo infrequentabili, e far passare il messaggio della sanzionabilità di certi atteggiamenti: quando si commette un crimine, prima o poi, si viene sanzionati, è questo che gli Israeliani devono capire e temere. La Questione palestinese resta emblematica per il mondo intero: rappresenta la possibilità di ritornare allo stato della giungla, e la sua soluzione deciderà del tipo di mondo che vogliamo.
Ma in Europa risulta estremamente difficile avvicinarsi al problema senza essere tacciati di antisemitismo…
Conosco grandi giornalisti che, non riuscendo più a gestire quest’accusa infamante, hanno smesso di scrivere sull’argomento. È un’ottima cosa che in Europa ci sia tanta attenzione nei confronti del problema legato all’antisemitismo, ma l’accusa che viene rivolta, in questo caso, è del tutto pianificata, e di questa il Governo si serve, come è successo riguardo al caso dell’uccisione di Mohammed Al Dura e di suo padre1. Che Israele sia cauto: quando si tappa la bocca, quando censura il pensiero di qualcuno non dandogli la possibilità di esprimersi, tale pensiero non cambia, ma marcisce dentro di lui e allora sì, può rischiare di diventare vero antisemitismo.
Concludendo, quale soluzione, due Popoli e due Stati?
Sono stato tra i primi a pubblicare in Italia un libro dal titolo “La sfida binazionale” per affrontare la questione etnica, ma ora me ne pento: non avrei mai dovuto scrivere quel libro. Discutere di questa questione ci fa deviare dai nostri compiti, che sono altri. Dobbiamo smettere di parlare in vece dei Palestinesi, non sta a noi, Israeliani o Europei, trovare una soluzione al problema: saranno i Palestinesi a decidere se se la sentono di vivere insieme agli Israeliani o lontani da loro, da coloro che gliene hanno fatte vedere di tutti i colori. Non perdiamo tempo intorno a questo argomento: non è questo il punto
Warschawski è scrittore e giornalista, i cui articoli appaiono regolarmente sull’International Viewpoint, Le Monde diplomatique, Znet, Monthly Review e Sine Hebdo. In occasione delle elezioni del 2006 alla Knesset si candidò nella lista Balad (L’Assemblea Democratica Nazionale).
Tra i suoi libri apparsi in traduzione italiana:
Israele-Palestina. “La sfida binazionale. Un «sogno andaluso» del XXI secolo” – Edizioni Multimediali – 2002; “A precipizio. La crisi della società israeliana” – Bollati Boringhieri – 2004; in collaborazione con Gilbert Achcar, “La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano” – Edizioni Alegre – 2007; “Programmare il disastro. La politica israeliana in azione” -Shahrazad Edizioni – 2009.
Nel 1987 l’Alternative Information Center, da lei fondato 25 anni fa, venne minacciato e lei subì un arresto: com’è la situazione attuale?
Non abbiamo più problemi adesso, e questo non è un buon segno, perché significa che le autorità non si sentono più minacciate da noi. Nel 1987, quando venni arrestato, il centro rappresentava l’unico passaggio, l’unico centro di comunicazione tra la sinistra israeliana e la società civile palestinese. Il nostro era l’unico centro misto e il problema per il Governo era dato proprio da questo; eravamo gli unici ad aver abolito la frontiera. In Israele il concetto di frontiera è molto importante, al contrario noi avevamo creato un Noi collettivo, senza annullare le nostre differenze. Subito dopo il mio arresto e la chiusura temporanea del centro, scoppiò la Prima Intifada e questo riuscì a fare un’ulteriore breccia nella frontiera; durante gli anni che andarono dal 1987 al 1990 questa divenne una realtà di massa all’interno della stessa società israeliana. A partire dal 2000 cominciò invece un’inversione di tendenza; adesso c’è di nuovo un muro, ed è per questo che le autorità non hanno più problemi con noi; ormai, invece che collera, provochiamo piuttosto un sorriso ironico: siamo retrò…
Leggendo le sue interviste e i suoi testi, il concetto di frontiera di cui parlava poco fa assume sempre un significato profondo; credo che in Europa si sia sempre guardato ad Israele come ad un luogo in cui era diffusa un’idea di confine e di proprietà nazionale da tempo superata dalle democrazie occidentali…quasi un concetto vicino a quello di far-west americano o a quello di un superato colonialismo europeo. Personalmente purtroppo, mi sono fatta l’idea che attualmente questo stesso concetto sia tornato in auge, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa…
Sono completamente d’accordo, Israele ha tristemente anticipato la filosofia di frontiera del XXI secolo, per la quale le frontiere spaziali sono sempre più aperte e quelle umane sempre più blindate; anche il vostro Trattato di Schengen non è altro che la formazione di un muro ideale, facilmente superabile dalle merci e dai movimenti bancari, ma non dalle persone. Paradossalmente, Israele che da un lato si ostina da sempre a non voler delineare confini con i suoi vicini, per non porre limite alla sua forza espansionistica, fissa frontiere ermetiche ed alimenta il concetto di separazione su cui si fonda, ha anticipato così le tendenze delle politiche occidentali. Lo scopo profondo dello Stato d’Israele, e questo riguarda tutta la società civile del Paese, da destra fino a sinistra, è quello di mantenersi etnicamente il più puro possibile: in questo senso beffardo gli è necessario riconoscere la Palestina, per mantenere la sua purezza etnica. Il concetto di separazione, che qualche volta può rivelarsi un buon mezzo (se due ragazzini fanno a botte è necessario separarli, sul momento), in Israele diventa un valore. Quando mi si dice che, comunque, quella israeliana è una democrazia, devo rispondere che ciò è vero, in Israele abbiamo una democrazia molto avanzata, forse, per certi versi, migliore di molte democrazie europee, ma questo vale solo per la maggioranza ebraica, tanto che un sociologo ha definito quella israeliana una etnocrazia. Sempre per questa ragione essa conserva ancora un altro limite, nuovamente legato al concetto di frontiera: finché la maggioranza ebraica discute della questione palestinese è liberissima di farlo, ma nel momento in cui qualcuno tenta di allacciare un rapporto reale con un membro della società palestinese, viene immediatamente espulso, non gode più dei diritti riconosciuti al resto della comunità.
In Europa risulta scandaloso paragonare la tragedia palestinese con ciò che gli Ebrei subirono durante la Seconda Guerra Mondiale, cosa ne pensa?
È sempre molto difficile ed azzardato paragonare due situazioni storiche diverse, poiché nascono e si sviluppano da e per motivazioni sociali, spaziali e storiche differenti. L’atteggiamento d’Israele nei confronti del popolo palestinese si è sviluppato seguendo più fasi e, una di queste, quella cominciata nel ’48, è stata sicuramente volta ad una politica di epurazione etnica, per poi concretizzarsi in una politica coloniale particolarmente dura, fondata sul massacro della popolazione, sulla distruzione, sull’oppressione razziale e sull’espulsione. Certamente, ancora oggi il fantasma dell’epurazione resta nelle menti degli Israeliani: ovvero quello di una cancellazione totale dei Palestinesi, ma questa resta una fantasticheria. Anche parlare di espulsione, ad oggi, non è più corretto, e questo ce lo spiega la recente carneficina di Gaza: se si vuole costringere un popolo ad andarsene lo si circonda da tre lati, non da tutti e quattro, imprigionandolo letteralmente come, appunto, è successo e succede a Gaza.
L’obiettivo israeliano in questa terza fase di colonizzazione è quello di raggiungere la massima espansione territoriale con il massimo numero di Israeliani e il minor numero di Palestinesi possibile al suo interno. Quella israeliana, il cui grande conduttore, seppur in coma profondo, è tutt’ora Ariel Sharon, è quella che io chiamo una politica dell’emmental: dove gli israeliani sono rappresentati dal formaggio e i palestinesi dai buchi.
D’accordo, ma quello che io mi chiedo è: cosa ne pensa la società israeliana? Ovvero, dove spera di arrivare adottando una tale politica, non è allora così tanto preoccupata dagli attentati terroristici, se pensa di poter imprigionare i Palestinesi in simili isole territoriali…
Paradossalmente sì, la società israeliana ha paura. Se fino al 2000 il grande problema da risolvere era quello dell’Occupazione, a partire da quell’anno l’opinione pubblica israeliana vive nel terrore della minaccia, araba in generale ed islamica in particolare, l’Islam attenta, nel suo immaginario, alla civilizzazione giudaico-cristiana, ed essa vive con la convinzione di non poter aver un dialogo con i propri vicini.
Ma perché sentirsi così minacciati dall’Islam, senza temere in alcun modo la civiltà cristiana che, bene o male, ha ghettizzato gli Ebrei per millenni?
Prima della rivoluzione, il Cristianesimo ha perseguitato gli Ebrei con una violenza sconosciuta al mondo musulmano, per i duemila anni durante i quali il popolo ebraico veniva perseguitato in Europa, nei Paesi arabi nulla di tutto ciò accadeva, seppur gli Ebrei rappresentassero una minoranza in quell’area: ci troviamo di fronte ad una percezione capovolta della storia…
Ma veniamo al suo ultimo testo, “Programmare il disastro”…
In primo luogo vorrei discolparmi per il titolo, che fu il mio editore francese a scegliere, quando gli presentai il lavoro, e ciò avvenne un anno e mezzo fa, quindi ben prima del disastro di Gaza… Rimanendo ancora sul titolo dico che oggi dobbiamo parlare non di uno, ma di un triplo disastro. Il primo, che è quello dimostrato, e che anche la Comunità Internazionale ha riconosciuto, reso evidente dai 3.000 morti, dalle migliaia di feriti e mutilati provocati, ed alla distruzione di ogni infrastruttura ed abitazione, è quello umanitario; il secondo è il disastro politico israeliano sostenuto dagli Stati Uniti e, ormai da 7 anni, anche dall’Unione Europea. Un simile disastro è stato provocato dalla divisione spaziale tracciata tra Cisgiordania e Gaza, ma anche dalla divisione politica tra ANP e Hamas, avvenuta all’interno della stessa Cisgiordania; si tratta di una crisi interna al Paese provocata anche dall’indifferenza della Comunità Internazionale e dalla collusione esistente tra Stato israeliano e Stati arabi come l’Egitto, che hanno portato la Palestina ad un totale isolamento. La terza dimensione del disastro è quella esistenziale ma, rischiando di scioccarla, le dirò che non riguarda la popolazione israeliana; se infatti, dal 1982, si poteva parlare di due Israele, in quanto, anche se ancora non poteva osservarsi una vera presa di coscienza anti-sionista, esisteva una reale frattura all’interno della società , oggi la caratteristica principale dell’aggressione a Gaza, è data dal sostegno unanime da parte di tutta la popolazione israeliana: non c’è più differenza tra destra e sinistra. Se in passato la frattura era tanto profonda da portare all’assassinio di un primo ministra (Begin), oggi, di fronte alla tragedia di Gaza, si erige un solo Grande Israele, circondato dal suo antico mito, e il risultato è uno: la schiacciante responsabilità di tutta la società israeliana. Il disastro esistenziale, che il popolo israeliano non avverte, è quello a lungo termine, e riguarda la messa in discussione stessa dell’esistenza dello Stato d’Israele. Se durante le tante stragi, Sabra e Chatila, Caana, la prima e la seconda Intifada, il mondo arabo poteva dire, “D’accordo tutto ciò è gravissimo, esiste però anche un altro Israele”, adesso ciò non è più possibile: siamo apparsi a migliaia di nostri vicini come persone infrequentabili, una comunità di selvaggi. All’indomani di uno dei giorni più sanguinosi, quello in cui 35 bambini sono stati massacrati nel centro di Gaza, sono crollato, sono stato assalito da una sorta di profonda depressione; per oltre 24 ore ho sentito un acre odore di cadavere che mi seguiva ovunque andassi. Il giorno seguente, di colpo, quei 35 bambini sono diventati i miei nipoti, e mi sono chiesto: “Oddio, cosa stiamo facendo? Quale avvenire stiamo preparando per i nostri bambini?!”. Avevo veramente voglia di andarmene, lasciare questo Paese, sentivo dentro di me tutto il peso dei pensieri del mondo arabo che, persa ogni speranza, era come se ci dicesse: “Dopo tutti i nostri sforzi, dopo tutti i nostri tentativi di vivervi accanto, veramente, non siete dei vicini possibili!”. Parlavo di questo con un’amica francese che cercava di consolarmi, ricordandomi chi aveva manifestato a Tel Aviv e ad Haifa contro lo sterminio di Gaza; le ho risposto col dialogo tra Dio ed Abramo intorno al destino delle città di Sodoma e Gomorra: “Se ci fossero 50 famiglie di giusti sì”, afferma Dio, “salverei Sodoma e Gomorra”, “e se ce ne fossero dieci?”, domanda Abramo, “anche se ce ne fossero solo dieci”, ma quando Abramo tenta di convincere Dio portando ad esempio la sola famiglia di Lot, Egli non può acconsentire, ed è irremovibile: “No, una famiglia non è sufficiente per salvare tutta la città…”. Allo stesso modo, non sono qualche migliaio di manifestanti a Tel Aviv che salvano l’esistenza…
Ma come è potuto succedere questo? Perché la società israeliana ha deciso di chiudersi fino a questo punto?
La presa di coscienza che la stava permeando a partire dal 1982 si è chiusa nell’agosto del 2000, con l’elezione di Ehud Barak, candidato a ricostruire il consenso messo in discussione in precedenza. Barak torna da Camp David dicendo di essere riuscito a smascherare le vere intenzioni di Arafat, che viene presentato ora come il nemico numero uno, e riesce in questo modo a distruggere, in soli quindici giorni, tutto il movimento per la pace. Quella di Barak era una colossale menzogna: non poteva esserci interlocutore più disponibile e dialogante di Yasser Arafat. Oggi, in Israele, viviamo ancora nel cuore della menzogna di Ehud Barak, e per questo siamo disposti ad intraprendere ogni genere di guerra, permanente e preventiva: la carneficina di Gaza rappresenta ciò che vogliamo. Il problema quindi non è l’Occupazione ma il popolo ebraico che, per aver rischiato di venir sterminato, intraprenderà ogni genere di folle guerra: “Siete dei bambini viziati”, disse Barak ad un popolo che cercava di normalizzarsi, “non capite la minaccia che pesa sulle nostre spalle: non saremo mai uno Stato normale”. Questa è quella che io chiamo la Controriforma di Barak, Sharon e Netanyahu.
Ma allora, qual è l’atteggiamento che noi Europei dovremmo assumere di fronte al conflitto israelo-palestinese?
Dovete far capire al popolo israeliano che ciò che non costa nulla oggi costerà caro domani, che non si può pensare di comportarsi, all’infinito, come una società barbara, e pretendere di essere accettati dalla Comunità Internazionale. Israele ha assolutamente bisogno dell’approvazione internazionale, non soltanto da un punto di vista politico, ma anche psicologico; dovete far capire che così come siamo risultiamo infrequentabili, e far passare il messaggio della sanzionabilità di certi atteggiamenti: quando si commette un crimine, prima o poi, si viene sanzionati, è questo che gli Israeliani devono capire e temere. La Questione palestinese resta emblematica per il mondo intero: rappresenta la possibilità di ritornare allo stato della giungla, e la sua soluzione deciderà del tipo di mondo che vogliamo.
Ma in Europa risulta estremamente difficile avvicinarsi al problema senza essere tacciati di antisemitismo…
Conosco grandi giornalisti che, non riuscendo più a gestire quest’accusa infamante, hanno smesso di scrivere sull’argomento. È un’ottima cosa che in Europa ci sia tanta attenzione nei confronti del problema legato all’antisemitismo, ma l’accusa che viene rivolta, in questo caso, è del tutto pianificata, e di questa il Governo si serve, come è successo riguardo al caso dell’uccisione di Mohammed Al Dura e di suo padre1. Che Israele sia cauto: quando si tappa la bocca, quando censura il pensiero di qualcuno non dandogli la possibilità di esprimersi, tale pensiero non cambia, ma marcisce dentro di lui e allora sì, può rischiare di diventare vero antisemitismo.
Concludendo, quale soluzione, due Popoli e due Stati?
Sono stato tra i primi a pubblicare in Italia un libro dal titolo “La sfida binazionale” per affrontare la questione etnica, ma ora me ne pento: non avrei mai dovuto scrivere quel libro. Discutere di questa questione ci fa deviare dai nostri compiti, che sono altri. Dobbiamo smettere di parlare in vece dei Palestinesi, non sta a noi, Israeliani o Europei, trovare una soluzione al problema: saranno i Palestinesi a decidere se se la sentono di vivere insieme agli Israeliani o lontani da loro, da coloro che gliene hanno fatte vedere di tutti i colori. Non perdiamo tempo intorno a questo argomento: non è questo il punto
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