giovedì 27 aprile 2017

Jenin non dimenticherà il massacro israeliano - Ilan Pappe


Quindici anni fa, questo mese, l’esercito israeliano ha bombardato e assaltato il campo profughi di Jenin per oltre dieci giorni. Era parte dell’operazione israeliana “Scudo Protettivo” durante la quale Israele ha inviato truppe nel cuore delle sei principali città della Cisgiordania occupata e nei villaggi e i campi profughi vicini, che erano sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.
In un rapporto sull’assalto le Nazioni Unite hanno concluso che l’esercito israeliano ha ucciso decine di palestinesi in un campo grande solo 0,4 km quadrati e che ospita circa 15mila persone.
Dopo l’assalto, un lungo dibattito è nato intorno al numero delle vittime. Nell’urgenza immediata che regnava nel campo, i numeri parevano essere molto alti. Israele impedì ai membri di una commissione d’inchiesta Onu inviata dal Consiglio di Sicurezza di condurre un’indagine, ma un rapporto successivo compilato dal segretario generale concluse che almeno 52 palestinesi erano stati uccisi nel campo profughi di Jenin. Almeno 500 palestinesi furono uccisi e altri 1.500 feriti nel corso della campagna israeliana in Cisgiordania dal marzo al maggio 2002.
Tuttavia non furono solo i numeri a scioccare il mondo all’epoca, ma la natura brutale dell’assalto israeliano che non aveva precedenti neppure nella dura storia dell’occupazione.
Questa brutalità può essere compresa al meglio visitando il campo. Il quartiere affollato è stato preso d’assalto dal cielo con gli elicotteri, colpito dai carri armati dalle colline intorno e invaso da veicoli mostruosi, un ibrido tra un tank e un bulldozer che gli israeliani hanno soprannominato Achzarit, “il brutale”, perché ha raso al suolo le case e trasformato gli stretti vicoli in superstrade attraverso le quali i carri armati potessero passare.
I carri armati hanno di nuovo fatto visita al campo dopo l’operazione, in genere in piena notte, traumatizzando i bambini per anni con il loro boato.
Geografia di un disastro
Sono stato al campo la scorsa settimana durante una visita della filiale di Jenin della Al-Quds Open University. Siamo corsi in città e siamo tornati nella Palestina ’48 (l’attuale Stato di Israele) perché la compagnia privata che gestisce il checkpoint di Jalameh avrebbe chiuso il passaggio nei giorni successivi così che gli ebrei israeliani avrebbero potuto celebrare la Pasqua dimenticando i palestinesi sotto assedio in Cisgiordania.
L’esercito ha imposto chiusure ai villaggi e i quartieri della Cisgiordania e incarcerato milioni di persone in piccole enclavi così che i coloni israeliani possano muoversi come se questa fosse una terra nullius – una terra senza popolo, una terra di nessuno.
La Al-Quds Open University ha offerto cibo e bevande ai bambini, tra gli altri, dei prigionieri politici e dei martiri. Al momento ha sede in un edificio in affitto, nella speranza che un giorno possa spostarsi in un campus vero e proprio, se i milioni di dollari necessari al suo completamento saranno trovati.
Oltre 50mila palestinesi usano i servizi dell’università nelle sue filiali in giro per Cisgiordania e Gaza, in una realtà geopolitica di frammentazione imposta da Israele e di controllo che richiede che sia l’università ad andare dai suoi studenti perché gli studenti non possono andare all’università.
Resilienza e resistenza possono essere portati avanti in tanti modi e nel 2017 – diversamente dalla resistenza armata del 2002 – passa per questo tipo di determinazione: all’attuale regime in Israele viene ricordato che non può cancellare, o totalmente ignorare, i milioni di persone che opprime ogni giorno dal 1967.
All’interno della geografia del disastro, ci sono diversi gradi di povertà e oppressione. C’è una divisione chiara tra la città di Jenin e il campo. Capisci quando hai lasciato la città per entrare in questo enorme campo, costruito sul versante di una ripida collina sul lato occidentale della città. È anche molto facile da vedere quali delle case del campo furono demolite durante il massacro del 2002: sono quelle ricostruite con l’aiuto del denaro arrivato dal Golfo.
Sono molto poche le case uscite indenni dall’assalto feroce del 2002. Quando sali in cima alla collina, vedi il luogo in cui i carri armati israeliani erano posizionati, facendo piovere il loro fuoco sul campo senza difesa appena sotto, infliggendo caos e morte, tattiche troppo familiari dei ripetuti assalti israeliani contro Gaza.
Visione chiara
Tuttavia, c’è qualcos’altro che noti quando sei sulla collina. Puoi vedere l’intera regione che parte da Jenin, nel nord della Cisgiordania, e arriva al Mar Mediterraneo. Puoi vedere da Marj Ibn Amr – la fertile regione anche nota come piana di Esdrelon – fino ad Haifa sulla costa.
I villaggi e le città che erano lì prima del 1948 sono stati spazzati via durante la Nakba – la pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste. La maggior parte di coloro che ci vivevano sono stati cacciati e possono vedere dalla collina come le loro case e le loro terre siano state trasformate in colonie ebraiche e “foreste” del Jewish National Fund.
Il collegamento tra quello che vedi dalla collina e gli orrori dell’aprile 2002 è chiaro. È solo un altro promemoria ci quello che il defunto studioso Patrick Wolfe articolò così bene quando notò che il colonialismo di insediamento è una struttura, non un evento.
Nel caso del sionismo, si tratta di una struttura di sfollamento e rimpiazzamento o, per parafrasare le parole di Edward Said, di sostituzione di un’assenza con una presenza. È cominciata nel 1882 con le prime colonie sioniste e ha raggiunto il suo apice nel 1948, per continuare poi con veemenza nel 1967 e mantenersi viva fino ad oggi.
Il tentativo di distruggere la resistenza allo sfollamento è quanto accaduto nel campo 15 anni fa. Le foto dei martiri del 2002 coprono ancora i muri e le strade. Sotto, siede un grande numero di giovani disoccupati: il campo di Jenin è uno di quelli con il più alto tasso di disoccupazione in Cisgiordania.
Parlando con loro è chiaro che sono determinati a non soccombere alla disperazione e all’apatia. L’educazione offerta dalla Al Quds Open University è uno dei modi per reagire alla vita nel campo e all’oppressione. Ma la resistenza è ancora un’opzione.
Dopotutto, questa è la zona da cui le più significative spinte anti-coloniali da parte palestinese si sono diffuse nei primi anni Trenta: la ribellione guidata da Izz al-Din al-Qassam. Simbolico che in questa mia visita abbia incontrato suo nipote, Ahmad. Abbiamo parlato brevemente su come l’immagine storica del nonno sia distorta da cui lo paragona ai jihadisti di oggi. Era molto lontano da esserlo.
Se i britannici non lo avessero ucciso nel 1935, sarebbe diventato il Che Guevara palestinese. Era un carismatico leader anti-colonialista che operava tra la gente che è stata la prima vittima del sionismo negli anni Trenta, i contadini e i mezzadri sfollati e cacciati dalle terre che avevano coltivato per secoli.
Una sola patria
La geografia e la topografia del campo ci dicono qualcos’altro: la soluzione a due Stati è un’idea assurda. Il campo si trova vicino al checkpoint di Salem tra Cisgiordania e l’attuale Stato di Israele. Il viaggio in auto da Jenin a Haifa attraverso questo passaggio durava 20 minuti negli anni passati.
Prima che gli Accordi di Oslo fossero firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 1993, c’era libertà di movimento per la gente e le merci in questa parte settentrionale della Palestina, fino al 1948 amministrata come una regione unica.
Anche dopo la firma dell’accordo – quando il checkpoint di Salem era il solo punto di passaggio tra Jenin e il resto del mondo – era ovvio che l’intera area era parte della stessa patria. Gli architetti di Oslo sperarono di rompere questa integrità storica, culturale ed economica e chiudere il passaggio, costringendo la gente ad usare il checkpoint settentrionale di Jalameh. Questo ha trasformato un viaggio molto breve in un viaggio molto lungo, con Salem che diventava una corte militare dove oggi i palestinesi vengono mandati in prigione senza processo o dopo un processo-farsa.
Oslo doveva anche risolvere l’eterno problema sionista: come avere il territorio senza la sua gente. La “soluzione” fu quella di confinare i palestinesi in enclavi controllando il loro spazio e usando la forza bruta, come ha fatto Israele a Jenin nell’aprile 2002, ogni qualvolta la gente ne aveva abbastanza, chiedeva un cambiamento o combatteva.
Quel progetto coloniale sionista continua, ma sarà oggetto di resistenza nella terra di Izz al-Din al-Qassam e in un campo dove la gente non dimentica e ha ben poco da perdere.
*Autore di numerosi libri, Ilan Pappe è professore di storia e direttore del Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter.
Traduzione a cura della redazione di Nena News

da qui


"Jenin Jenin", di Muhammad Bakri (con sottotitoli in italiano)





"Jenin Jenin", di Muhammad Bakri (con sottotitoli in inglese, migliore qualità)

Nessun commento:

Posta un commento