(intervista di Daniela Mallardi)
Dopo “La Fabbrica della cura mentale” e “Il manicomio chimico”, Piero Cipriano pubblica con Elèuthera il suo terzo e ultimo libro di psichiatria riluttante, dove esamina come, a partire dal luogo-non luogo dove si deposita la massima sofferenza psichica (il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, appunto), si imbatta quotidianamente in diagnosi sbrigative e facili. In questo atto di narrazione finale, Cipriano spiega il rischio di una società che a ogni deviante appiccica la sua etichetta, che diventa nulla più che un insieme obbligato di regole e di come si possa, invece, sovvertirne percorsi, farmaci e forse perfino l’idea stessa della cura.
Come già aveva fatto in precedenza nel testimoniare la difficoltà di accondiscendere all’imbruttimento del manicomio e alle abbuffate farmacologiche, con “La società dei devianti”, Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta, a partire dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura in cui lavora, si e ci interroga sul paradigma dell’ideale di salute, e ridefinisce lo statuto della tristezza, senza ascriverla necessariamente alla depressione. Ad animare il libro compare lui, il personaggio narrativo, psichiatra basagliano e a tratti autobiografico, che ricorda come la vischiosità classificatoria delle forme di depressione con l’uso a cascata di farmaci, rappresenti la delegittimazione della tristezza.
In questo libro con uno stile tra saggistica, racconto e divulgazione, Cipriano esprime come in una società performativa e prestazionale, qualsiasi forma di devianza venga non solo mal tollerata ma anche patologizzata, come se l’officina della salute mentale dovesse produrre sempre e nuovi malesseri su cui orientare una presunta direzione di cura.
D’altronde, per Basaglia, lavorare al cambiamento sociale significava proprio superare i rapporti di oppressione e vivere la contraddizione del rapporto con l’altro, accettare la contestazione, e dare valenza positiva al conflitto, alla crisi, alla sospensione di giudizi, all’indebolirsi dei ruoli e delle etichette identitarie.
Come già aveva fatto in precedenza nel testimoniare la difficoltà di accondiscendere all’imbruttimento del manicomio e alle abbuffate farmacologiche, con “La società dei devianti”, Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta, a partire dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura in cui lavora, si e ci interroga sul paradigma dell’ideale di salute, e ridefinisce lo statuto della tristezza, senza ascriverla necessariamente alla depressione. Ad animare il libro compare lui, il personaggio narrativo, psichiatra basagliano e a tratti autobiografico, che ricorda come la vischiosità classificatoria delle forme di depressione con l’uso a cascata di farmaci, rappresenti la delegittimazione della tristezza.
In questo libro con uno stile tra saggistica, racconto e divulgazione, Cipriano esprime come in una società performativa e prestazionale, qualsiasi forma di devianza venga non solo mal tollerata ma anche patologizzata, come se l’officina della salute mentale dovesse produrre sempre e nuovi malesseri su cui orientare una presunta direzione di cura.
D’altronde, per Basaglia, lavorare al cambiamento sociale significava proprio superare i rapporti di oppressione e vivere la contraddizione del rapporto con l’altro, accettare la contestazione, e dare valenza positiva al conflitto, alla crisi, alla sospensione di giudizi, all’indebolirsi dei ruoli e delle etichette identitarie.
D.M.
Sul penultimo numero di “A” rivista anarchica (giugno 2016, anno 46, n. 5) Giorgio Antonucci si professa diverso da Basaglia in quanto sostiene che mentre quest’ultimo fosse contro il manicomio, lui invece è contro il ricovero coatto (il TSO, insomma). E tu? Tra Antonucci l’antipsichiatra e Basaglia lo psichiatra anti-istituzionale, dove ti collochi?
Quello di Antonucci è un discorso che trovo demagogico. La malattia mentale certo che non esiste in quanto malattia, siamo d’accordo, ma la sofferenza psichica, o il disagio, o chiamiamolo come vogliamo, quello c’è, lo vediamo, e una persona così sofferente, la libertà l’ha già perduta prima ancora che intervenga la psichiatria con le sue armi di precisione e repressione. Quindi non si tratta solo di liberare le persone sofferenti, dalla psichiatria, ma liberarle pure da quella sofferenza che un tempo si chiamava follia. Allora, in certi casi, bisogna assumersi la responsabilità di decidere, per quella persona non più in grado di farlo. Per cui, io pure revoco, o non convalido, moltissimi Trattamenti Sanitari Obbligatori, quasi sempre inutili, ingiustificati. Però non contesto lo strumento del TSO.
Quello di Antonucci è un discorso che trovo demagogico. La malattia mentale certo che non esiste in quanto malattia, siamo d’accordo, ma la sofferenza psichica, o il disagio, o chiamiamolo come vogliamo, quello c’è, lo vediamo, e una persona così sofferente, la libertà l’ha già perduta prima ancora che intervenga la psichiatria con le sue armi di precisione e repressione. Quindi non si tratta solo di liberare le persone sofferenti, dalla psichiatria, ma liberarle pure da quella sofferenza che un tempo si chiamava follia. Allora, in certi casi, bisogna assumersi la responsabilità di decidere, per quella persona non più in grado di farlo. Per cui, io pure revoco, o non convalido, moltissimi Trattamenti Sanitari Obbligatori, quasi sempre inutili, ingiustificati. Però non contesto lo strumento del TSO.
L’impresa titanica di Basaglia
Non mi pare che sia questo strumento, se usato con parsimonia e in casi eccezionali, il vero problema. Invece contesto i manicomi. I manicomi in ogni forma e modo, anche quelli più sofisticati fatti di diagnosi, psicofarmaci, perfino psicoterapie (anche in queste vi sono rapporti di potere, è chiaro). Ed è per questo che non ho mai amato Szasz, nonostante i libri che lui ha scritto siano condivisibili, perché sul piano della pratica uno che proclama: non darò mai farmaci né metterò piede in un ospedale, ma erogherò solo parole e relazione, ha fatto una scelta di campo, si è ritagliato una comoda attività professionale borghese, dedicandosi a gente ricca e poco sofferente. Altro che le fosse di serpenti (i 600 internati del manicomio di Gorizia o i 1200 del manicomio di Trieste in cui si gettò Basaglia). Insomma, Basaglia accetta di non essere un puro. Accetta la contraddizione di prescrivere psicofarmaci, pure di continuare ad avere persone legate e rinchiuse, ma riuscendo, con la tecnica di “infiltrare gli infiltrati”, usando le stesse armi dei manicomiali, ad abolire i manicomi per la prima volta al mondo dopo due secoli dalla loro invenzione. Lascia stare che poi quelli si sono riprodotti sotto altre forme. Ma l’impresa è stata titanica. Riesce a violentare la società. La società che voleva e vuole i manicomi. I manicomi esistono perché qualcuno espelle lo sragionante, è ovvio.
Eppure Basaglia parte, se ci pensi, dalle stesse premesse teoriche di Szasz (e Antonucci): quando dice non so cosa sia la follia, è una condizione umana, in noi la follia esiste come esiste la ragione, ma la società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece no, si incarica di trasformare la follia in malattia (per mezzo degli psichiatri) e come tale la relega nei manicomi; le premesse sono simili. È la prassi che è stata drammaticamente diversa. Szasz dedito all’esercizio della lieve psicoterapia, e Antonucci la cui impresa più rilevante è stata troppo veloce, pretenziosa e controproducente. Nel senso che non sono confrontabili la marginale e irrilevante esperienza di Cividale (durata poco più di sei mesi, conclusasi con un’occupazione del reparto con i dodici pazienti rimasti – tanti quanti ve ne sono oggi in un SPDC) che vide protagonisti Cotti e Antonucci, con l’impegno sisifico che si assunse Basaglia, di interi manicomi da svuotare, ma facendolo gradualmente, attento a non causare l’incidente, l’incidente sempre atteso che rischia di confermare, per eterogenesi dei fini, che pratiche troppo liberatorie non sono possibili e dunque non è possibile fare a meno dei manicomi. Per cui, tra Antonucci e Basaglia, io non ho dubbi.
Eppure Basaglia parte, se ci pensi, dalle stesse premesse teoriche di Szasz (e Antonucci): quando dice non so cosa sia la follia, è una condizione umana, in noi la follia esiste come esiste la ragione, ma la società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece no, si incarica di trasformare la follia in malattia (per mezzo degli psichiatri) e come tale la relega nei manicomi; le premesse sono simili. È la prassi che è stata drammaticamente diversa. Szasz dedito all’esercizio della lieve psicoterapia, e Antonucci la cui impresa più rilevante è stata troppo veloce, pretenziosa e controproducente. Nel senso che non sono confrontabili la marginale e irrilevante esperienza di Cividale (durata poco più di sei mesi, conclusasi con un’occupazione del reparto con i dodici pazienti rimasti – tanti quanti ve ne sono oggi in un SPDC) che vide protagonisti Cotti e Antonucci, con l’impegno sisifico che si assunse Basaglia, di interi manicomi da svuotare, ma facendolo gradualmente, attento a non causare l’incidente, l’incidente sempre atteso che rischia di confermare, per eterogenesi dei fini, che pratiche troppo liberatorie non sono possibili e dunque non è possibile fare a meno dei manicomi. Per cui, tra Antonucci e Basaglia, io non ho dubbi.
Contro la psicanalisi, ma non in senso univoco
Nel tuo ultimo libro La società dei devianti (Elèuthera, 2016), figuro come uno dei rari casi di terapeuti che si occupano di inconscio e di cui tu hai fiducia. Ma, a parte rare eccezioni, sembra quasi che il tuo sia un “j’accuse” generale verso la psicoanalisi, da intendersi quale onerosa pratica borghese che diventa cialtrona non tanto per via di un suo mancato pragmatismo quanto per una tua mancata conoscenza. Voglio dire: come mai la posizione di pensiero riluttante parrebbe non farsi spazio anche sulla questione psicoanalitica? Non corri così il rischio di diventare monodimensionale ed etichettante pure tu, a tuo modo?
Ma la psicanalisi questo a me pare, in genere: un’onerosa pratica borghese dalla quale il poco abbiente è estromesso, salvo qualche eccezione. E c’è poco da essere originali. Non è la mia visione della psicanalisi un cliché, è la psicanalisi a essere un cliché, e sapessi quante macchiette ho visto al lavoro. Un cliché per individui abbienti, e poco gravi. Ma sbagli a dire che il libro è un “j’accuse” univoco alla psicanalisi. Nel lunghissimo capitolo in cui cerco di raccontare cos’è quella cosa che da circa un secolo chiamiamo schizofrenia, scrivo di Jung antinosografico e sostenitore della curabilità degli psicotici, e perfino lo considero un precursore di Basaglia (attraverso Minkowski, ovviamente).
Diciamo che non ne vedo molti di psicanalisti in giro (salvo alcuni, che cito pure nel libro, non so, Mario Colucci il lacaniano che lavora in un CSM di Trieste, Gianluigi Di Cesare lo junghiano che opera in un CSM di Roma) che hanno voglia di uscire dal circuito privato e occuparsi, nei servizi pubblici, di pazienti molto sofferenti. Gli altri, la gran massa degli psicanalisti: cosa ha fatto (diceva Basaglia) di buono la multinazionale della psicanalisi, nel 900, per tutti gli internati dei manicomi? E cosa fa di buono adesso, per tutti i pazienti “hard” dei SPDC, dei cronicari vari, dei mille contenitori della follia sparsi nel territorio? Perfino Thomas Szasz l’antipsichiatra era uno di loro, un bravo narratore ma terapeuta esclusivamente per quel pezzo di clientela che si poteva pagare la seduta con lui. Cosa fa la gran massa degli psicanalisti se non: parlare e lasciar parlare in uno studio borghese, in un quartiere borghese, pazienti borghesi, prendendo un tanto all’ora, dove quelli quasi esenti da disturbi o sofferenze si gioveranno di questa colta e gentile relazione, gli altri più problematici non ce la faranno e dopo cinque dieci sedute non li vedranno più. E nemmeno lo sapranno se saranno finiti legati in un letto di SPDC o bivaccheranno in una clinica privata a ingoiare farmaci. Allora, a chi serve la psicanalisi?
Tuttavia, non sei la prima che mi provoca su questo punto: la psicanalisi mi starebbe antipatica perché non la conosco, non le ho mai stretto la mano e non ho mai depositato il mio danaro nella bianca mano di un analista, perché non mi sono mai allettato su un lettino analitico. Rispondo, nel mio piccolo, come rispose Foucault alla stessa provocazione. Disse: io ne voglio parlare, di psicanalisi, e contestarla, ma restandone fuori. Per cui è vero il contrario, cioè, proprio in quanto non psicanalizzato mi posso permettere di parlarne. Altrimenti che obiettività potrei avere. Diceva Tobie Nathan, probabilmente il più interessante etnopsichiatra vivente, che molti psicanalizzati sono come degli zombie, un po’ come i posseduti da certi stregoni africani, sono gusci vuoti, che dentro non hanno più se stessi ma la teoria dell’analista che li possiede.
Diciamo che mi sento molto etnopsichiatra, da questo punto di vista. A volte, quando vedo individui (anche psicanalisti giunti all’ultimo grado di iniziazione) che al primo inceppo esistenziale ritornano dal proprio analista, a rifare il tagliando, un po’ come un farmacofilo ritorna a farsi prescrivere l’antidepressivo, ecco, ci trovo un tale grado di non emancipazione, di dipendenza, che mi pare più perniciosa ancora della dipendenza dagli psicofarmaci.
Tu dici: parli di ciò che non conosci. Ma perché (ora mi vengono in mente molti lacaniani) pensi che davvero si capisca ciò che scrive Lacan?, o che tra lacaniani si capiscano? Ricordo un fisico, Alan Sokal, irritato dalla lettura di Lacan e dei suoi epigoni e dal loro esoterismo lessicale, che scrisse un testo davvero astruso, lo inviò a una rivista, fu pubblicato, e dopo un po’ di mesi raccontò il fatto in un libro, dal titolo Imposture intellettuali, dove parlava di tutti questi autori fumosi alla Lacan, che, quando li leggi (scrive Marco Innamorati in un ottimo articolo) hai la sensazione di essere preso per il culo, un po’ come ti prendono per il culo i protagonisti di “Amici miei” quando ti fanno la supercazzola prematurata. Ecco, io ho semplicemente detto che molti di questi parlano di supercazzole. Non si tratta di monodimensionalità. Ma di essere, anche nel mio lavoro, sufficientemente anarchico, da rifiutare certi dogmi, soprattutto se sono pure incomprensibili.
Ma la psicanalisi questo a me pare, in genere: un’onerosa pratica borghese dalla quale il poco abbiente è estromesso, salvo qualche eccezione. E c’è poco da essere originali. Non è la mia visione della psicanalisi un cliché, è la psicanalisi a essere un cliché, e sapessi quante macchiette ho visto al lavoro. Un cliché per individui abbienti, e poco gravi. Ma sbagli a dire che il libro è un “j’accuse” univoco alla psicanalisi. Nel lunghissimo capitolo in cui cerco di raccontare cos’è quella cosa che da circa un secolo chiamiamo schizofrenia, scrivo di Jung antinosografico e sostenitore della curabilità degli psicotici, e perfino lo considero un precursore di Basaglia (attraverso Minkowski, ovviamente).
Diciamo che non ne vedo molti di psicanalisti in giro (salvo alcuni, che cito pure nel libro, non so, Mario Colucci il lacaniano che lavora in un CSM di Trieste, Gianluigi Di Cesare lo junghiano che opera in un CSM di Roma) che hanno voglia di uscire dal circuito privato e occuparsi, nei servizi pubblici, di pazienti molto sofferenti. Gli altri, la gran massa degli psicanalisti: cosa ha fatto (diceva Basaglia) di buono la multinazionale della psicanalisi, nel 900, per tutti gli internati dei manicomi? E cosa fa di buono adesso, per tutti i pazienti “hard” dei SPDC, dei cronicari vari, dei mille contenitori della follia sparsi nel territorio? Perfino Thomas Szasz l’antipsichiatra era uno di loro, un bravo narratore ma terapeuta esclusivamente per quel pezzo di clientela che si poteva pagare la seduta con lui. Cosa fa la gran massa degli psicanalisti se non: parlare e lasciar parlare in uno studio borghese, in un quartiere borghese, pazienti borghesi, prendendo un tanto all’ora, dove quelli quasi esenti da disturbi o sofferenze si gioveranno di questa colta e gentile relazione, gli altri più problematici non ce la faranno e dopo cinque dieci sedute non li vedranno più. E nemmeno lo sapranno se saranno finiti legati in un letto di SPDC o bivaccheranno in una clinica privata a ingoiare farmaci. Allora, a chi serve la psicanalisi?
Tuttavia, non sei la prima che mi provoca su questo punto: la psicanalisi mi starebbe antipatica perché non la conosco, non le ho mai stretto la mano e non ho mai depositato il mio danaro nella bianca mano di un analista, perché non mi sono mai allettato su un lettino analitico. Rispondo, nel mio piccolo, come rispose Foucault alla stessa provocazione. Disse: io ne voglio parlare, di psicanalisi, e contestarla, ma restandone fuori. Per cui è vero il contrario, cioè, proprio in quanto non psicanalizzato mi posso permettere di parlarne. Altrimenti che obiettività potrei avere. Diceva Tobie Nathan, probabilmente il più interessante etnopsichiatra vivente, che molti psicanalizzati sono come degli zombie, un po’ come i posseduti da certi stregoni africani, sono gusci vuoti, che dentro non hanno più se stessi ma la teoria dell’analista che li possiede.
Diciamo che mi sento molto etnopsichiatra, da questo punto di vista. A volte, quando vedo individui (anche psicanalisti giunti all’ultimo grado di iniziazione) che al primo inceppo esistenziale ritornano dal proprio analista, a rifare il tagliando, un po’ come un farmacofilo ritorna a farsi prescrivere l’antidepressivo, ecco, ci trovo un tale grado di non emancipazione, di dipendenza, che mi pare più perniciosa ancora della dipendenza dagli psicofarmaci.
Tu dici: parli di ciò che non conosci. Ma perché (ora mi vengono in mente molti lacaniani) pensi che davvero si capisca ciò che scrive Lacan?, o che tra lacaniani si capiscano? Ricordo un fisico, Alan Sokal, irritato dalla lettura di Lacan e dei suoi epigoni e dal loro esoterismo lessicale, che scrisse un testo davvero astruso, lo inviò a una rivista, fu pubblicato, e dopo un po’ di mesi raccontò il fatto in un libro, dal titolo Imposture intellettuali, dove parlava di tutti questi autori fumosi alla Lacan, che, quando li leggi (scrive Marco Innamorati in un ottimo articolo) hai la sensazione di essere preso per il culo, un po’ come ti prendono per il culo i protagonisti di “Amici miei” quando ti fanno la supercazzola prematurata. Ecco, io ho semplicemente detto che molti di questi parlano di supercazzole. Non si tratta di monodimensionalità. Ma di essere, anche nel mio lavoro, sufficientemente anarchico, da rifiutare certi dogmi, soprattutto se sono pure incomprensibili.
Il diritto al suicidio
Appare chiara, dunque, questa tua modalità di voler andare “in direzione ostinata e contraria” dalla parte dei disperati – per parafrasare De André – ma questa perseveranza nel rimanere a lavorare in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ospedaliero di cui tu denunci l’orrore e l’errore della pratica, non è forse più una necessità di raccontarti di poter essere l’unico psichiatra diverso in un luogo di psichiatri uguali?
Potrei rispondere di no, perché è necessario un infiltrato, nei piccoli manicomi, per rompere l’ingranaggio oliato della manicomialità. Invece ti rispondo: forse sì. Infatti me ne vorrei andare, dopo una dozzina d’anni di lavoro ospedaliero vorrei tornare a lavorare in un Centro di Salute Mentale. Ritornare sul cosiddetto territorio. Andare di casa in casa a trovare le persone. Prevenire, se possibile, le crisi. Impedire che le persone poi arrivino furiose nei pronto soccorsi, dove vengono accolte con le armi pesanti: farmaci e fasce. Ma per ora mi hanno bloccato il trasferimento. Però ti dico, anche, che si può (capita spessissimo) lavorare da manicomiale in un CSM (o perfino in uno studio privato, per tornare al discorso di prima sugli psicanalisti o su chi esercita la psicoterapia in studioli privati) e lavorare da territoriale in un SPDC. Facendo, in fondo, ciò che Antonucci sostiene di fare: revocare i TSO o non convalidarli, sciogliere i legati o non legarli, ridurre il carico di farmaci, dimettere qualche paziente, prendere (come ho fatto alcuni giorni fa) un paziente da molti mesi ricoverato in SPDC e, con la mia auto (perché la ASL non ne ha a disposizione), portarlo a visitare sua madre che non vede da tre anni in casa di riposo, e poi andare a pranzo insieme a lui a ristorante. Ora: come mai tutto ciò non lo ha fatto lo psichiatra del CSM che lo ha in cura? Probabilmente perché il manicomio non è un luogo, ma è nella testa delle persone.
Potrei rispondere di no, perché è necessario un infiltrato, nei piccoli manicomi, per rompere l’ingranaggio oliato della manicomialità. Invece ti rispondo: forse sì. Infatti me ne vorrei andare, dopo una dozzina d’anni di lavoro ospedaliero vorrei tornare a lavorare in un Centro di Salute Mentale. Ritornare sul cosiddetto territorio. Andare di casa in casa a trovare le persone. Prevenire, se possibile, le crisi. Impedire che le persone poi arrivino furiose nei pronto soccorsi, dove vengono accolte con le armi pesanti: farmaci e fasce. Ma per ora mi hanno bloccato il trasferimento. Però ti dico, anche, che si può (capita spessissimo) lavorare da manicomiale in un CSM (o perfino in uno studio privato, per tornare al discorso di prima sugli psicanalisti o su chi esercita la psicoterapia in studioli privati) e lavorare da territoriale in un SPDC. Facendo, in fondo, ciò che Antonucci sostiene di fare: revocare i TSO o non convalidarli, sciogliere i legati o non legarli, ridurre il carico di farmaci, dimettere qualche paziente, prendere (come ho fatto alcuni giorni fa) un paziente da molti mesi ricoverato in SPDC e, con la mia auto (perché la ASL non ne ha a disposizione), portarlo a visitare sua madre che non vede da tre anni in casa di riposo, e poi andare a pranzo insieme a lui a ristorante. Ora: come mai tutto ciò non lo ha fatto lo psichiatra del CSM che lo ha in cura? Probabilmente perché il manicomio non è un luogo, ma è nella testa delle persone.
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio”. Camus, ne Il Mito di Sisifo, apre il varco di questo buco su cui tu ti riaffacci. Qual è – se c’è – la soglia per definire un suicidio diverso da un altro? Si può parlare di responsabilità dello psichiatra? Quale eredità ti hanno lasciato coloro che lo hanno messo in atto?
Domanda molto complessa, troppo, a cui serve una risposta semplice e pragmatica (chi vuole poi si legge il capitolo: “Il dovere di vivere, il divieto di morire”, nell’ultimo libro). Di solito gli psichiatri (me compreso) rispetto ai gesti di suicidio, potenziali o messi in atto, si difendono. Perché, altrimenti, il rischio è che uno (il suicida) muoia, e l’altro (lo psichiatra) muoia socialmente (finisce in galera, o viene sospeso dall’esercizio del suo mestiere). Perché c’è un terzo elemento (un giudice), che per mestiere cerca la colpa. Io penso (in quest’ultimo libro lo scrivo chiaramente) che le persone debbano avere il diritto di disporre del proprio corpo (habeas corpus), e dunque di scegliere se vivere o morire. Ma nel paese confessionale che siamo ciò è incredibilmente difficile. Se uno muore c’è bisogno, sempre, di un colpevole. E questa è un’ulteriore ragione del manicomio.
Domanda molto complessa, troppo, a cui serve una risposta semplice e pragmatica (chi vuole poi si legge il capitolo: “Il dovere di vivere, il divieto di morire”, nell’ultimo libro). Di solito gli psichiatri (me compreso) rispetto ai gesti di suicidio, potenziali o messi in atto, si difendono. Perché, altrimenti, il rischio è che uno (il suicida) muoia, e l’altro (lo psichiatra) muoia socialmente (finisce in galera, o viene sospeso dall’esercizio del suo mestiere). Perché c’è un terzo elemento (un giudice), che per mestiere cerca la colpa. Io penso (in quest’ultimo libro lo scrivo chiaramente) che le persone debbano avere il diritto di disporre del proprio corpo (habeas corpus), e dunque di scegliere se vivere o morire. Ma nel paese confessionale che siamo ciò è incredibilmente difficile. Se uno muore c’è bisogno, sempre, di un colpevole. E questa è un’ulteriore ragione del manicomio.
Il riluttante è un anarchico che…
A proposito del personaggio narrativo dello psichiatra riluttante, non temi che possa essere un azzardo? Nel senso, non temi che questa non-fiction novel alla Carrère possa falsificare la professione dello psichiatra e farla quasi eroica? (Il carteggio con una Madonna, poi, farebbe il verso a una dimensione quasi mistica).
Non sono d’accordo con questa tua visione. Pochi giorni fa il cantante Capovilla del Teatro degli Orrori mi diceva esattamente il contrario. Diceva: cazzo, Piero, in questo libro ci sei andato giù duro. In che senso, gli domando. Ti dai addosso come non mai, ti definisci un killer, un boia gentile, un carnefice. E così via. Allora, non mi pare di aver raccontato un personaggio, lo psichiatra riluttante, così eroico come dici: è sempre sul punto di lasciare, minaccia di abbandonare il campo, la partita, smettere. Proprio nel capitolo sulla psicanalista Centauro, che ti riguarda, dice che non vuole cadere nella sindrome del salvatore onnipotente, che lui con questo lavoro in fondo ci piglia lo stipendio per campare la famiglia.
Dove lo vedi l’eroe? Io non ce lo vedo. Il carteggio con la madonna, dici, rasenta il mistico? Ma no. Innanzitutto è la decima madonna, non la prima. Poi è una madonna designata tale (decima appunto) da uno che ha passato la vita nei manicomi e si credeva dio. Per questo, più che deriva mistica, è un carteggio blasfemo, dove io mi confesso a una madonna nominata tale da un pazzo, diciamo. Cosa le confesso? Le confesso proprio il mio non riuscire a fare a meno di raccontare queste storie di persone stritolate, annientate dai manicomi. E lei è stata la madonna di un pazzo e di uno psichiatra, che sono le due facce della stessa medaglia. Due onnipotenti, se ci pensi. Un uomo che si crede dio, e un altro uomo che si crede psichiatra e in quanto tale più potente dell’uomo che si crede dio, quindi più potente di dio, perché lo può obbligare a curarsi, a prendere farmaci, a scrollarsi di dosso la folle convinzione di essere dio. Ma allo psichiatra nessuno mai lo potrà convincere (o curare) del suo errore, della sua presunzione di verità. E di essere ancora più dio di dio.
Non sono d’accordo con questa tua visione. Pochi giorni fa il cantante Capovilla del Teatro degli Orrori mi diceva esattamente il contrario. Diceva: cazzo, Piero, in questo libro ci sei andato giù duro. In che senso, gli domando. Ti dai addosso come non mai, ti definisci un killer, un boia gentile, un carnefice. E così via. Allora, non mi pare di aver raccontato un personaggio, lo psichiatra riluttante, così eroico come dici: è sempre sul punto di lasciare, minaccia di abbandonare il campo, la partita, smettere. Proprio nel capitolo sulla psicanalista Centauro, che ti riguarda, dice che non vuole cadere nella sindrome del salvatore onnipotente, che lui con questo lavoro in fondo ci piglia lo stipendio per campare la famiglia.
Dove lo vedi l’eroe? Io non ce lo vedo. Il carteggio con la madonna, dici, rasenta il mistico? Ma no. Innanzitutto è la decima madonna, non la prima. Poi è una madonna designata tale (decima appunto) da uno che ha passato la vita nei manicomi e si credeva dio. Per questo, più che deriva mistica, è un carteggio blasfemo, dove io mi confesso a una madonna nominata tale da un pazzo, diciamo. Cosa le confesso? Le confesso proprio il mio non riuscire a fare a meno di raccontare queste storie di persone stritolate, annientate dai manicomi. E lei è stata la madonna di un pazzo e di uno psichiatra, che sono le due facce della stessa medaglia. Due onnipotenti, se ci pensi. Un uomo che si crede dio, e un altro uomo che si crede psichiatra e in quanto tale più potente dell’uomo che si crede dio, quindi più potente di dio, perché lo può obbligare a curarsi, a prendere farmaci, a scrollarsi di dosso la folle convinzione di essere dio. Ma allo psichiatra nessuno mai lo potrà convincere (o curare) del suo errore, della sua presunzione di verità. E di essere ancora più dio di dio.
Colpisce che in tutto il libro non compaia mai la parola desiderio che a me pare, invece, una parola assai preziosa, un moto perpetuo che mai soddisfa e che mai può soddisfare finché c’è orizzonte. In questo modo, forse il desiderio è da intendersi anarchico. Quale è allora il tuo desiderio adesso e dove è la tua anarchia?
Non compare la parola desiderio però il desiderio c’è. Non serve metterci la parola perché una cosa esista. Ci sono molti desideri, nel libro. E non li elenco che forse non c’è più spazio in quest’intervista. Il desiderio di convincere, per esempio. Il riluttante è uno psichiatra ego distonico, uno psichiatra contro voglia, apparentemente non più desiderante, appunto, sempre sul punto di mollare, però non molla, resta lì, a fare la sentinella, l’infiltrato, perché, in fondo, vuole convincere, ma convincere chi? I giovani infermieri, i tirocinanti, gli specializzandi in psichiatria, quelli che ancora non si sono arresi e consegnati alla logica della custodia, del manicomio, della securità. Fargli vedere che se arriva un agitato è possibile rassicurarlo senza legarlo. Fargli vedere quanto è semplice sciogliere un uomo legato. E poi quando è notte, durante le guardie di notte, scrive. E pubblica libri. Perché? Perché desidera ancora convincere. Convincere chi non sa nulla di questo nostro mondo a parte. E se non vincere, che non si può, almeno convincere.
E la sua anarchia, non molto esibita, ostentata, c’è, nascosta in questa sua riluttanza al potere psichiatrico. Nella prima versione de La fabbrica della cura mentale che proposi a Elèuthera il protagonista era lo psichiatra anarchico, ma l’ossimoro era troppo scandaloso, e virai, avendo apprezzato Il fondamentalista riluttante, su quest’altro aggettivo.
Il riluttante è un anarchico che accetta di fare a meno della purezza cui sempre gli anarchici anelano, rispetto al potere, accetta la contraddizione, di poter disporre della vita, della salute, della libertà degli altri. E prova a ridimensionarsi in quanto psichiatra, e tutto il suo lavoro è un attacco al potere psichiatrico. Potere che si esprime sia con armi pesanti (farmaci, fasce, elettrochoc, ricoveri coatti) sia con armi apparentemente più innocue (diagnosi, interpretazioni, buoni consigli).
Non compare la parola desiderio però il desiderio c’è. Non serve metterci la parola perché una cosa esista. Ci sono molti desideri, nel libro. E non li elenco che forse non c’è più spazio in quest’intervista. Il desiderio di convincere, per esempio. Il riluttante è uno psichiatra ego distonico, uno psichiatra contro voglia, apparentemente non più desiderante, appunto, sempre sul punto di mollare, però non molla, resta lì, a fare la sentinella, l’infiltrato, perché, in fondo, vuole convincere, ma convincere chi? I giovani infermieri, i tirocinanti, gli specializzandi in psichiatria, quelli che ancora non si sono arresi e consegnati alla logica della custodia, del manicomio, della securità. Fargli vedere che se arriva un agitato è possibile rassicurarlo senza legarlo. Fargli vedere quanto è semplice sciogliere un uomo legato. E poi quando è notte, durante le guardie di notte, scrive. E pubblica libri. Perché? Perché desidera ancora convincere. Convincere chi non sa nulla di questo nostro mondo a parte. E se non vincere, che non si può, almeno convincere.
E la sua anarchia, non molto esibita, ostentata, c’è, nascosta in questa sua riluttanza al potere psichiatrico. Nella prima versione de La fabbrica della cura mentale che proposi a Elèuthera il protagonista era lo psichiatra anarchico, ma l’ossimoro era troppo scandaloso, e virai, avendo apprezzato Il fondamentalista riluttante, su quest’altro aggettivo.
Il riluttante è un anarchico che accetta di fare a meno della purezza cui sempre gli anarchici anelano, rispetto al potere, accetta la contraddizione, di poter disporre della vita, della salute, della libertà degli altri. E prova a ridimensionarsi in quanto psichiatra, e tutto il suo lavoro è un attacco al potere psichiatrico. Potere che si esprime sia con armi pesanti (farmaci, fasce, elettrochoc, ricoveri coatti) sia con armi apparentemente più innocue (diagnosi, interpretazioni, buoni consigli).
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