lunedì 15 agosto 2016

TRE BIRRE CON BOHUMIL HRABAL - Alessandro Toppi

(da U Zlatého tygra, in Husova 17, ci sono passato anch'io - franz)


Bohumil passa intere serate in un angolo della birreria “Alla tigre d’oro”, via Husova 17, Praga. Il capo chinato su un grosso boccale di vetro spesso, colmo fino all’orlo di Velké Popovice 12.
Bohumil ha scarpe grosse di camoscio, pantaloni felpati, una camicia bianca sotto un gilet blu o una maglia a righine orizzontali, una borsa troppo piccola, da cui fuoriescono angoli sporchi di libri, piccoli album di foto, cartoline con gatti o paesaggi. Respira quest’aria da bettola, intrisa di odori fortissimi: aceto, canapa, cetrioli. Il suo volto è come “solcato dai segni dello zodiaco” mentre la sua voce è un mugolio poco chiaro, simile a quello di chi ha la lingua arrostita da un cibo bollente. È come se le lettere gli si arrotolassero in bocca.
Con questo tono che incespica Bohumil si racconta le storie.
“La mia vita comincia a prendere una piega drammatica fin dal periodo prenatale”. Sei mesi prima della sua nascita colei che sarà sua madre rientra a casa, dopo la messa della domenica, confessa d’aspettare un bambino e che l’uomo con cui ha giaciuto non vuol esserne il padre. Il nonno prende lo schioppo, lo punta al ventre della ragazza e urla: “In ginocchio, che devo spararti!”. La nonna entra dalla cucina portando un grosso tegame colmo di minestra di fagioli: “Smettetela e venite a mangiare”. I tre si siedono, intingendo tozzi di pane bruciato nella melassa fumante di legumi. Bohumil inizia ora a bere.
Bohumil quando ha calore, come adesso, sembra un ritratto d’Arcimboldo: gli occhi somigliano a tocchetti di verdura, il naso è un grosso papagno, in testa ha fili di mais, la bocca sembra fatta d’uva pestata dalla vendemmia. Due schiocche rosse alle guance, una goccia di sudore alla fronte, un sospiro più profondo degli altri. Ricorda, chissà perché, i dipinti che ha visto quando è sgattaiolato in segreto in un museo accodandosi alle file straniere: l’autoritratto di Henri Rousseau, madornale figura con alle spalle la Senna, un ponte, un veliero; ed i quadri di Muzika, Mrkvička, Piskač e certi disegni senza nome di negri, marinai, ballerini, giocolieri circensi, clown, fiere in gabbia, acrobati, cinesi da music-hall, domatrici di leoni e pantere. 
Bohumil, bevendo, pensa a quando voleva fare il calciatore, a quando correva come un fenomeno (ala sinistra delle giovanili del Polan Nymburk) fino al fondo, per poi fintare, controfintare, attendere il movimento dell’attaccante e servirgli un cross davvero perfetto. Pensa a quando, inavvertitamente, s’è intimidito, bloccato, fermato; a quando – per la prima volta – è rimasto immobile al centro del campo; a quando è stato sostituito dopo quattro minuti e ne ha passati ottantasei, più recupero, a piangere: sulla panca di uno spogliatoio bianco, vuoto, profumato di disinfettante e d’asciugamani sudate.
Bohumil pensa alla rottura del gomito destro, alla rottura della spalla sinistra, alla frattura della clavicola, all’operazione al ginocchio, ai dolori alla schiena, ai denti caduti, al dolore provato quando – durante una zuffa a una festa – alcuni litiganti gli cadono addosso facendogli perdere serata e, forse, la donna della sua vita.
Continuando a bere Bohumil pensa alla tesi di laurea interrotta; al primo libro che ha ricevuto in regalo; al momento nel quale, sognando di fare l’attore, avanza in una commedia qualsiasi e – dopo poche battute e qualche gesto – sente uno spettatore borbottare a voce alta: “Fatelo smettere, per cortesia! Non ti avessi mai messo al mondo…”. È il padre.
Bohumil ama i nubifragi, le squadre di demolizione, i giganteschi pneumatici; ama trascorrere i pomeriggi ad osservare come le case vengono abbattute: i mattoni che si sollevano, le tegole che crollano, le finestre che si piegano in se stesse, le travi spezzate che mostrano gli artigli in legname, il nugolo della polvere che sale dal terreno e diventa una nuvola a mezz’aria. Domani distruggeranno un intero condominio: andrà a dare un’occhiata.
Bohumil si considera un “pábitel” ovvero uno “stamparlone”, uno di quegli sbruffoni che hanno abitato l’Europa centrale per secoli colmandola di chiacchiere, di sghignazzi e amarezze. È in questa maniera che ha continuato, per tutta la vita, “a lavorare per un’immagine più umana del mondo”.
“Ho sempre cercato di mettermi in situazioni che non mi si confacevano, sgradevoli per me, contrarie alla mia natura” blatera, impastando le parole, bevendo un altro sorso di birra. Se non fosse già ubriaco avrebbe articolato meglio: “Io ho addirittura escogitato per me stesso la teoria del Destino Artificiale, sono andato a cacciarmi dove non avrei mai voluto essere. Io, con la mia timidezza, mi sono messo a proporre assicurazioni sulla vita, a vendere cosmetici, a lavorare nelle acciaierie mentre scrivevo, scrivevo, scrivevo…”.
Bohumil è stato: minutante notarile, magazziniere di una cooperativa di consumo, manovale delle ferrovie, telegrafista, macchinista di scena, muratore, fabbro, capo movimento in un piccolo scalo di mezzi di trasporto, manovratore di montacarichi, addetto ai semafori, scaricatore di bibite, tuttofare in un birrificio, commesso viaggiatore, operaio in acciaieria, bigliettaio, impiegato in un autolavaggio, rappresentante di un’azienda di merceria e giocattoli, venditore di bengala e fuochi d’artificio, addetto vendita ai Grandi Magazzini Statali di Praga, assicuratore presso il Fondo di Anzianità e Invalidità per Artigiani e Commercianti.
Bohumil scrive questi versi: “Ero così tranquillo, / perché non mi restava altro / che andare per il mondo come forbici da sarto / … / sicché la gente innocente pensava / che fossi un mulino a vento… / che alla clessidra fosse venuta la sete” e, adesso, mormorando “la sete” ritiene necessario affondare le labbra nella schiuma.
Bohumil adora le trottole colorate tenute da un filo nero di cotone sottile, adora le cialde ripiene di scaglie minuscole di cioccolata e nocciola, adora il viola dei timbri quando stampano piccole immagini o firme d’ufficio. Adora anche i lamponi, la frescura del quarzo, un tè italiano che ha assaggiato una sola volta e di cui non riesce più a ricordare il nome. Adora i taccuini neri su cui scrivere con una penna blu.
Beve e continua a bere, Bohumil: “Adesso che posso guardare a me stesso come a una terza persona e ad un uomo anziano, adesso mi accorgo che per me la misura delle cose è l’uomo comune”. “Per questo” – aggiunge prima di bere ancora – “invece che scrittore preferisco definirmi trascrittore, perché non ho fatto che descrivere avvenimenti e situazioni limite, come un buon reporter”. Quindi sorseggia, sorride, poi ripensa al destino maligno toccato alla sua prima raccolta di poesie (la tipografia viene nazionalizzata e, nel breve volgere dei giorni, chiusa: i suoi componimenti finiscono al macero) o ad un suo libro di racconti (gli operai del deposito gli sono ostili: abbandonano copie tra i corridoi, sotto i macchinari, nel giardino che circonda la casa editrice disperdendo gran parte della produzione). Ne ridacchia, calmo, stringendo le palpebre.
Ordinando un’altra birra pensa alla sua frase preferita: “L’incredibile diventa realtà”. Per questo immagina nei suoi scritti masnade di gradassi, falliti, vecchi ciarloni; di parassiti, scrocconi, poeti incapaci; di fannulloni squattrinati e sconfitti, di pagliacci sbruffoni e sballati; di cacastorie che parlano a vanvera e li immagina coinvolti in picaresche avventure colme di seni femminili, grasse risate, mangiate gustose, bevute d’alcol, fumate intense, assaggi poderosi di zucchero.
Non sorride quando pensa – invece – alla carta perduta, alle opere che sono state e che sono scomparse, ai fogli che vengono tagliati, sminuzzati, ridotti in poltiglia: ha visto, Bohumil, intere produzioni affogare nel buio. L’ha visto lavorando in un deposito di carta da macero: libri intonsi – mai letti da qualcuno ma da qualcuno pur scritti – che finiscono assieme agli steli appassiti delle fiorerie, alle carte dei grandi magazzini, ai programmi ed ai tagliandi scaduti, alle bustine dei cremini, ai cartoni inzaccherati dagli imbianchini, ai mucchi di carta bagnata o avariata, ai disegni gettati al cestino, ai progetti che non hanno più corso, ai documenti ridotti in strisce sottili, ai mucchi di fogli insanguinati dalle macellerie, alle trinciature taglienti degli studi fotografici, agli avanzi degli uffici, ai biglietti d’auguri di compleanni e onomastici che sono trascorsi. No, non sorride Bohumil, quando pensa che ha pressato, sfatto, scomposto, scolorito e ridotto in frammenti copie e copie di Faust, Don Carlos, Amleto, Così parlò Zarathustra, Il sosia, Memorie del sottosuolo, Anna Karenina, Orlando Furioso, de Il gabbiano o de Il giardino dei ciliegi.
Buhumil ha bisogno di una terza birra per chiedersi ciò che sta per chiedersi: “Ho ancora fedeltà nella meraviglia?”.
Buhumil non si dà una risposta. Beve la sua terza birra tutta d’un fiato, preferendo asciugarsi le labbra col dorso della mano piuttosto che con questo tovagliolo ingiallito, alla destra del tavolo. Scosta leggermente i piedi, divaricandoli, tende la schiena sentendo il duro del legno tra le scapole, china la testa all’indietro, scorge una piccola crosta sporcare il soffitto, ne segue il tracciato immaginando altri piani, altre stanze, altri mondi dietro quel rigagnolo nero ma viene distratto da un avventore, che lo riconosce chiedendogli di Una solitudine troppo rumorosa. Bofonchia un lamento, s’affretta a lasciare sulla tovaglia quanto deve, s’alza fuggendo verso la notte accesa di Praga.
Col mento scivolato sul petto, seduto alla prima panchina che incontra, s’addormenta salivando l’ultima considerazione della serata: “Nulla posso dire di me, nulla. Io sono ormai un vecchio signore e ho pudore e vergogna a parlare dei libri che ho scritto, perché sogno ancora di scrivere un libro nel quale ci sarà tutto, attraverso le impressioni e le esperienze, che potrei andare là dove per ora nessuno mi attende, là dove il presente è inesistente, il passato minaccioso e il futuro così ben… ah, così ben conosciuto, come ha scritto il mio amato György Lukács”.
Respira russando, adesso; la testa calata, l’alito muove il fazzoletto verde al taschino. Due passanti, giovani ed innamorati, si distraggono dalla passione per un attimo, lo guardano, sorridono scuotendo la testa. “Un altro ubriaco” dice lui a lei, o forse lei a lui.
Una foglia cade da un ramo secco, il vento trascina la perduta perlina di una collana sul fondo di un tombino.

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