La
globalizzazione non è solo circolazione di capitali, merci e informazioni.
Oltre al suo risvolto esterno, internazionale, la globalizzazione ne ha uno
interno, locale e personale. È il primato incondizionato della competitività,
il totem di governi, finanza, manager, economisti. Ma non è concorrenza tra
operatori su un piede di parità, bensì sopraffazione del più debole,
colpevolizzazione del soccombente, emarginazione di chi “non ce la fa”. Prove?
La Libia, una volta liberata, se mai lo sarà, venderà il suo petrolio al
miglior offerente o a chi sta accaparrandosi il controllo dei suoi pozzi? E un
lavoratore senza tutele né contratto può negoziare con il suo datore di lavoro
su un piede di parità, quando uno può assumerlo e licenziarlo quando vuole e l’altro
non può fare né una cosa né l’altra?
Questo
predominio dei rapporti di forza viene mascherato dall’ideologia neoliberista
del mercato e dall’esaltazione del merito. Ma chi giudica del merito altrui?
Questa situazione viene percepita come un regime di generale insicurezza che
spinge le persone a ripiegarsi su se stesse; a rifugiarsi in un’identità,
nazionale, culturale o comunitaria fittizia; come le “radici celtiche” ai tempi
di Bossi, quelle “giudaico-cristiane” di Giuliano Ferrara (ma, ovviamente, non
solo sue), quelle “british” riemerse nel Regno unito, o il primatismo bianco
dei sostenitori di Trump. Di fatto, spinge sulla strada di un crescente
razzismo, dapprima inconsapevole, poi sempre più esplicito, da cui è difficile
tornare indietro.
Ma
rinchiudendosi su se stessi non si sfugge alla legge ferrea della
competitività, che continua a dominare anche nelle enclave nazionali, etniche e
comunitarie in cui si cerca riparo. Qui produce soprattutto diffidenza: fa del
nostro compagno di lavoro un concorrente, del nostro vicino di casa un possibile
aggressore, di una donna libera un’aspirante al tradimento, del nostro ex-uomo
un potenziale femminicida, dei nostri figli degli usurpatori… È quello stesso
meschino sentire autocentrato che ci spinge a disinteressarci sia delle guerre
che crescono ai confini dell’Europa, e di cui i nostri governi portano pesanti
responsabilità, sia dei profughi che esse generano insieme al dissesto
ambientale che spesso le precede e sempre le segue.
Paghi
del fatto che in fin dei conti “si ammazzano tra di loro” (ce ne preoccupiamo
solo se quelle guerre arrivano a casa nostra sotto forma di terrorismo) e che,
se Stati ed eserciti occidentali intervengono, è per legittime operazioni di
“polizia internazionale” di cui farsi un merito. Come se non ci fosse
“competitività”, e nelle forme più estreme, nella promozione e nella gestione
di quelle guerre. In questo modo la dimensione esterna, internazionale, della
globalizzazione e quella interna, l’individualismo esasperato, si avvitano in
una spirale: in un mondo di orrori.
Impossibile
cambiar rotta senza sovvertire la visione del mondo che mette al centro i totem
della competitività e del merito, sostituendola, a tutti i livelli, con
pratiche, progetti e rivendicazioni improntate a solidarietà e collaborazione.
Ma da dove cominciare? Da ciò che sta al centro dello scontro politico, sociale
e culturale di oggi, quello da cui dipende il destino dell’Europa:
l’accoglienza.
«Non
possiamo accogliere tutta la miseria del mondo» aveva detto Michel Rocard, oggi
ripreso da coloro che cercano di dare alle politiche di respingimento
un’apparenza di realismo. Nel 2050 – aggiungono – in Africa ci sarà un miliardo
di esseri umani in più: se apriamo e porte verranno tutti qui. Certo, tutta la
miseria del mondo non possiamo accoglierla: va distribuita equamente per
combatterla ovunque. Ma un po’ ne possiamo accogliere. E molta di quella
miseria è già qui. L’abbiamo creata noi, senza bisogno di importarla: nei
ghetti urbani, con la disoccupazione e il precariato, con i working poor, con le nuove povertà,
nell’abbandono dei giovani. Dobbiamo forse respingere altrove anche questa? E
dove? E come? Non è che milioni di cittadini europei sono disoccupati o
emarginati perché il loro posto, o il loro welfare, o le loro case vengono dati
ai profughi. È che si respingono profughi e migranti (o li si tiene a far
niente in isolamento, incattivendoli e suscitandone il risentimento) perché si
è già verificato che quelle stesse cose si possono fare a milioni di europei.
Il riscatto degli uni non può avvenire senza quello degli altri.
Comunque,
quel miliardo di esseri umani “in più” non cercherà di venir tutto da noi. Non
tutti i profughi dell’Africa e del Medioriente, costretti a fuggire da guerre,
miseria o dissesti ambientali, imboccano la via dell’Europa; se possono si
fermano il più vicino possibile ai luoghi da cui sono fuggiti, sperando di
tornarvi. La maggioranza di loro riempie i campi dei paesi vicini e non i
gommoni che cercano di traversare il Mediterraneo. Poi la migrazione verso le
città, come quella verso l’Europa è selettiva: partono, con le risorse di
intere famiglie, contando di procurarsi un reddito con cui aiutarle, le persone
più giovani, più forti, più istruite. E molti di quelli che riescono a
raggiungere l’Europa vorrebbero ritornare, se solo si creeranno le condizioni
per farlo. È a questo che dovremmo lavorare tutti; non “sulla loro testa”,
ma collaborando con loro: sono intraprendenti; conoscono il loro paese e le
loro comunità; in poco tempo possono acquisire conoscenze, professionalità,
relazioni e persino risorse per fare da ponte tra i nostri paesi, le nostre
culture, la nostra economia e le loro; innescare, insieme a tanti giovani
europei desiderosi di farlo, circuiti di interscambio per migliorare i
rispettivi paesi, rendendo reversibili molti percorsi migratori. Ma occorre che
possano organizzarsi, per contribuire da protagonisti a riportare pace e
risanamento sociale e ambientale nei loro paesi di origine.
L’Europa
ha comunque bisogno di braccia e personale qualificato: senza immigrazione
verrebbero a mancare, di qui al 2050, quasi cento milioni di nuovi europei
mentre la popolazione rimasta sarà sempre più scarsa, più vecchia, più stanca.
Ma l’Europa ha bisogno soprattutto di persone: portatrici di culture
differenti, meno impregnate di individualismo, di diffidenza e di rivalità
(quelle instillateci dal pensiero unico), più attente ai legami di solidarietà;
ma soprattutto portatrici di indicibili storie di sofferenza con cui farci
riscoprire la virtù dell’empatia. Dobbiamo far nascere in noi la capacità di
confrontarci con ciascuno di loro senza pretese di superiorità; “imparando a
imparare” ciascuno da tutti gli altri, come tante esperienze di incontro tra i
bambini nelle scuole ci fanno vedere. Le risorse umane per promuovere la
solidarietà non mancano: bisogna valorizzarle meglio. Quelle finanziarie
neanche; ma sono state sequestrate dalle politiche di austerità. Se gli 80
miliardi che la Bce regala ogni mese alle banche in cambio di carta straccia
venissero destinati a progetti di conversione ecologica ci sarebbero
occupazione, reddito e futuro per tutti: cittadine e cittadini europei,
profughi e migranti.
Il
respingimento dei profughi ha davanti solo un futuro di guerre, razzismo,
miseria e apartheid. La ricostruzione dell’Europa è invece legata alle
opportunità che, pur tra ostacoli e difficoltà, ci offrono i profughi con il
loro arrivo, le loro vicende, la loro presenza. Ma anche allo slancio con cui
migliaia di persone, e soprattutto di giovani, si adoperano per rendere meno
acute le loro sofferenze.
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