Le convulse
fasi preparatorie della Conferenza
di Palermo sulla Libia, con un viaggio
“fantasma”del presidente del consiglio Giuseppe
Conte dal generale Haftar a Bengasi, rischiano di nascondere le
ragioni profonde di un fallimento
annunciato da tempo, non solo per le defezioni dei principali leader mondiali
che erano stati invitati con una operazione propagandistica in grande stile, ma
soprattutto per le posizioni assunte dal governo Salvini-Di Maio. Un
governo che si avvale della figura del presidente
del consiglio per le “foto
di famiglia”, ma che in politica estera, malgrado
gli sforzi della Farnesina, e di Enzo Moavero, risulta sempre più
caratterizzato dall’estremismo
isolazionaista della Lega e del suo vicepresidente del consiglio.
Che si avvale del ruolo di ministro dell’interno per perseguire evidenti fini
elettorali, in vista delle prossime elezioni europee e forse di nuove elezioni
politiche nazionali.
Tre sono le
ragioni principali dell’esito inconcludente che si verificherà dopo la chiusura
della Conferenza di Palermo, di fatto limitata a un incontro di mezza giornata,
con solo due ore di discussione plenaria, e una
agenda di lavori che rimane ancora oscura, come i nomi e i ruoli dei
partecipanti. Poco importa a questo punto se Haftar,il
principale attore dello scenario militare libico, arriverà a Palermo, o
rifiuterà l’incontro lungamente sollecitato dal governo italiano. Già in
passato altri tentativi di “avvicinamento” erano falliti. L’Italia era troppo
sbilanciata nel sostegno
a Serraj e alla Guardia costiera di Tripoli, che
di fatto coordinava, mentre imponeva alle Ong un codice di condotta che le
subordinava alle motovedette tripoline. Sulle presunte violazioni di questo
codice si sono imbastiti procedimenti penali contro operatori umanitari. Non
sono mai stati chiariti però i destinatari finali dei finanziamenti
elargiti dall’Unione europea tramite il governo italiano alle milizie libiche incaricate
di arrestare le partenze dei migranti. La
politica estera italiana in Libia veniva affidata all’ENI ed all’ambasciata
italiana a Tripoli, con un
ruolo sempre più controverso dell’ambasciatore Perrone. E oggi in
Libia, nella capitale, nell’ambasciata italiana manca ancora l’ambasciatore,
proprio mentre l’Italia organizza una Conferenza internazionale per la
risoluzione della crisi libica.
L’assenza
dell’uomo forte di Bengasi alla Conferenza di Palermo potrebbe solo rendere più
evidente le ragioni di un
fallimento che la propaganda governativa è già pronta a spacciare come un
successo italiano. Come dimostra l’iniziativa
fissata da Macron a Parigi in materia di difesa comune europea, proprio lunedì
12 novembre, non sono certo Francia e Germania a essere
isolati, ma è proprio il governo giallo-verde che è stato abbandonato dall’asse franco-tedesco e
anche dagli alleati sovranistiai quali si era rivolto con maggiore
insistenza. Quei partiti populisti che governano in Europa e che Salvini
vorrebbe come alleati alle prossime elezioni europee. Sul populismo che
dilaga in Europa, alimentato dalla paura delle migrazioni, si misura il fallimento
delle politiche dell’Unione Europea in rapporto ai paesi terzi come la Libia.
La
Conferenza fallisce innanzitutto, quale che
sia la partecipazione più volte annunciata e poi smentita
dell’uomo forte della Cirenaica, il
generale Haftar, perché le politiche del governo “del cambiamento” a
trazione leghista hanno determinato una
frattura insanabile con la maggior parte dei paesi europei. A partire dalla
decisione di chiudere i porti alle navi che avevano effettuato soccorsi sulla
rotta del Mediterraneo centrale, come arma di ricatto verso
l’Unione Europea per ottenere l’immediato trasferimento dei naufraghi verso
altri paesi europei. Gli
attuali governanti italiani non hanno neppure contribuito agli sforzi del Parlamento
europeo per modificare il Regolamento Dublino III, ed hanno
dichiarato alleanze con quei paesi che, come l’Austria di Kurz e l’Ungheria di
Orban, sono i più strenui avversari di qualsiasi ipotesi di condivisione degli
oneri e di redistribuzione dei migranti che arrivano dall’Africa in Grecia, in
Italia, in Spagna ed a Malta.
In secondo
luogo, l’Italia ha dimostrato ampiamente, a partire dalla lotta senza quartiere alle
Organizzazioni non governative e al diritto internazionale, di non
rispettare gli
obblighi di soccorso imposti in acque internazionalinon solo ai
singoli stati titolari delle rispettive zone SAR (di ricerca e salvataggio), ma
a tutti gli stati titolari di aree limitrofe, quando il paese responsabile non
è nelle condizioni di intervenire o non vuole rispondere alle chiamate di
soccorso. Una politica della deterrenza dei soccorsi fomentata da quella stessa
destra che si dichiara, come Gasparri,
sempre più critica nei confronti della politica estera del governo, dopo averne
anticipato e sollecitato le misure più estreme, anche sul piano giudiziario,
nelle attività di contrasto dell’immigrazione cosiddetta ”illegale”, unico
canale di fuga dalla Libia. Una
politica che ha visto anche la maggioranza del partito democratico complice con
la guardia costiera libica nella negazione del diritto al salvataggio ed
all’accoglienza in un porto sicuro. In totale spregio del diritto alla
vita e del divieto di trattamenti inumani o degradanti che continuano ad essere
inflitti ai migranti intrappolati in Libia.
La
ripartizione delle zone di soccorso non può costituire un alibi per eludere,
come ha fatto il governo italiano a partire dal mese di giugno di quest’anno,
l’obbligo assoluto di salvaguardare la vita in mare e di fornire nel modo più
sollecito un porto sicuro di sbarco. Queste violazioni si pagano, se
non davanti ai tribunali, sul piano politico internazionale.
Per effetto
di una lunga serie di violazioni del diritto internazionale del mare, sulle
quali la magistratura nazionale non è stata capace di intervenire, adducendo
una lettura errata dell’interesse nazionale e del principio di difesa dei
confini, a scapito del diritto alla vita, si
è riacceso un contenzioso con Malta, e uno scontro latente con il
governo francese, che hanno reso impensabile un qualunque accordo europeo sulla
gestione della Conferenza di Palermo sulla Libia. Accordo che presupporrebbe il
rispetto assoluto del dettato delle Convenzioni
internazionali che impongono lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro,
e dunque non in Libia, come
l’UNHCR ha di recente ricordato. Salvini è giunto invece a
minacciare le istituzioni europee di sbarcare in Libia persino i migranti
soccorsi dalla nave
della guardia costiera Diciotti. Un ricatto che, se
non è stato sanzionato dalla magistratura italiana, ha prodotto
un guasto irreversibile nelle relazioni tra l’Italia e gli altri paesi
dell’Unione Europea. Adesso il ricatto addirittura arriva fino alla minaccia
di bloccare il contributo economico italiano all’Unione Europea, una
scommessa sulle future elezioni europee, un risiko che, comunque vadano le
elezioni, vedrà perdente proprio la popolazione italiana che si vorrebbe difendere,
e che nel 2019 non sarà certo aiutata a superare la crisi finanziaria dai paesi
del patto di Visegrad o dall’Austria nazionalista del cancelliere Kurz.
La terza
ragione del fallimento della Conferenza di Palermo sulla Libiaè la confermata volontà
di utilizzare
la Libia come “piattaforma di sbarco” dei migranti soccorsi in acque
internazionali, una prospettiva che la Libia, come tutti
gli altri stati africani che si affacciano sul Mediterraneo hanno respinto. Una
proposta che è stata formalizzata in modo maldestro a livello internazionale, e
che a livello interno corrisponde alla peggiore formulazione del
maxiemendamento al Decreto legge n.113 in materia di immigrazione e sicurezza,
secondo cui sarebbero possibili
i rimpatri anche in “paesi terzi non sicuri”, secondo gli standard del diritto
internazionale, ma in “aree interne sicure”.Aree che non potrebbero
essere garantite se non con interventi militari, sul modello Afghanistan, per
intenderci.
Anche l’idea
di fortificare le frontiere a sud della Libia risponde soltanto ad esclusive
finalità dei paesi europei e non tiene conto dei reali rapporti dei paesi del
lago Chad e del Sahel. Il processo di Khartoum voluto dal governo Renzi appare
ormai fallito, ed il Sudan è
ancora uno snodo dei traffici, piuttosto che un attore capace di
risolvere la crisi migratoria della regione. La ricerca di un appoggio
dell’Egitto di Al Sisi, al fine di ottenere un atteggiamento più
condiscendente del generale Haftar, rischia di legittimare un governo dispotico
al Cairo e di cancellare le responsabilità per l’uccisione sotto tortura di
Giulio Regeni.
Oltre a
queste ragioni, che hanno determinato l’isolamento internazionale dell’Italia,
non ha giovato alla riuscita della Conferenza di Palermo la pretesa di
spacciare come un successo italiano, che dovrebbe valere per tutta l’Unione
Europea, la riduzione degli sbarchi, che in
termini percentuali (meno 80
per cento) appare consistente, almeno nella propaganda governativa, ma che in termini assoluti –
100.000 persone in meno, molte delle quali internate in Libia in veri e propri
lager – non rappresenta alcuna reale diminuzione della presenza di richiedenti
asilo o rifugiati in Europa. Si sono infatti aperte altre rotte per
entrare comunque nell’area Schengen, e anche il cosiddetto blocco degli sbarchi
appare più una visione propagandistica diffusa dal ministero dell’interno, che la
realtà corrispondente allo stillicidio
continuo di arrivi a Lampedusa e sulle coste siciliane, sarde e
calabresi. Anzi, per effetto del combinato disposto dei
provvedimenti adottati con il Decreto legge n.113, in particolare per effetto
dello smantellamento del sistema di accoglienza degli Sprar e per l’abolizione
della protezione umanitaria, sono migliaia e migliaia i migranti, già residenti
in Italia, richiedenti asilo, o già denegati (sulla richiesta di protezione)
che stanno passando in altri paesi europei, circostanza che certamente viene
vissuta in modo conflittuale dalle autorità di questi paesi, come
confermano i fatti di Claviere e lo
scontro durissimo con la Francia di Macron. E sono decine di migliaia i
migranti che vengono riportati in Italia per effetto del Regolamento Dublino
ancora vigente.
Un governo
che viola il diritto internazionale, che fa accordi con paesi terzi che non
rispettano i diritti fondamentali della persona, che
poggia sul ricatto la sua politica estera, non può pretendere
che gli venga riconosciuto un ruolo risolutore nei conflitti internazionali e
regionali. Le politiche di rimpatri di massa sono inevitabilmente destinate a
fallire, come
è confermato dal flop della missione di Salvini in Ghana e la persistente
lentezza dei rimpatri in Tunisia. Sotto questo punto di vista non è
neppure una novità, perché già le politiche dei governi precedenti, a guida Pd,
con uomini come Minniti,
avevano legittimato prassi detentive e misure di allontanamento
forzato in violazione delle normative internazionali, ma non erano
riusciti a dare effettività alle espulsioni ed ai respingimenti, come
richiedeva l’Unione Europea. Per questo motivo era fallita anche la
Conferenza di Malta del 3 febbraio 2017 che poneva con forza
l’accento sui rimpatri forzati e sugli accordi con i paesi terzi, piuttosto che
sul rispetto dei diritti umani e sulla pacificazione dei territori.
Con il
governo Salvini-Di Maio-Conte si è andati ancora oltre, senza
neppure tentare di nascondere l’aperta violazione delle Convenzioni
internazionali e delle garanzie costituzionali. D’altra parte è
ormai scontata l’assenza di una politica estera comune europea. Come si avrà
modo di vedere, al
di là delle dichiarazioni di principio del vicepremier Di Maio,
anche nella prossima Conferenza di Palermo sulla Libia. dove la Commissaria
Ue Mogherini porterà le posizioni che anche sulla missione
EUNAVFOR MED, oltre che sulle operazioni Triton e poi Thenis dell’agenzia
europea Frontex, hanno determinato uno scollamento tra i paesi membri, e un
abbandono degli obblighi di soccorso e sbarco pure sanciti dai Regolamenti
europei n.656 del 2014 e n.1624 del 2016. Sono tanti che portano la
responsabilità delle intercettazioni
in acque internazionalioperate dalla sedicente Guardia costiera
libica, che riporta indietro persone fuggite da mesi di abusi e torture nei
lager controllati dalle diverse milizie. L’esigenza di contrastare quella che
si definisce come “immigrazione illegale” ha nascosto traffici di ogni genere,
anche da parte di rappresentanti istituzionali, o con il loro avallo.
Anche le Nazioni
Unite hanno le loro colpe, basti
pensare al ruolo giocato da Bernardino Leon, già rappresentante Onu in Libia
fino al 2015, sul fallimento di una prospettiva di
pacificazione della Libia che appare troppo legata agli interessi delle grandi
potenze e sembra ricadere sulla pelle della popolazione civile libica e
dei migranti,
intrappolati nei centri di detenzione o nelle grandi aree
agricole nelle quali sono sottoposti ai lavori forzati. Negli ultimi mesi ci
sono stati sforzi diretti a attribuire un maggiore protagonismo alle diverse
componenti libiche , e persino a riconoscere la
situazione terribile nella quale si trovano tutti i migranti, e non
solo i cosiddetti “vulnerabili”, ostaggio delle diverse milizie che si
contendono la Libia. Da allora è cominciato il tiro a bersaglio dei governi
europei più apertamente populisti, ed anche di alcune
parti libiche, sulle posizioni dell’UNSMIL che
confermava gli abusi
subiti dai migranti in Libia, anche nei cd. centri “governativi” ed
apriva all’esigenza di una loro evacuazione da un territorio nel quale i
migranti erano torturati e la sicurezza non era garantita neppure alla
popolazione autoctona.
Adesso anche l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati indica come una priorità lo
sbarco dei migranti soccorsi in mare in paesi sicuri diversi dalla Libia.
Se non vi fossero stati gli attacchi del governo italiano ai partner europei
che potevano condividere una politica estera comune rispetto alla mobilità dei
migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale, e se il governo italiano avesse
rispettato gli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali, la
Conferenza di Palermo avrebbe potuto costituire una tappa importante per la
contestuale soluzione della crisi migratoria e per il processo di
riconciliazione delle diverse autorità che si contendono il controllo della
Libia. Ma così, evidentemente, non è stato. La partita andava giocata anche sul
fronte dei visti di ingresso, ai cittadini libici ed ai migranti per ragioni
umanitarie, ma
soltanto la Turchia sembra intenzionata ad intraprendere questa via, anche se
solo in favore dei cittadini libici. I conflitti si risolvono
incentivando la mobilità volontaria e i canali
di ingresso legali, non erigendo muri che arricchiscono le mafie e le
milizie. La
società civile libica esiste e va ascoltata. Le ipotesi di
pacificazione e di unificazione dell’esercito devono essere discusse
innanzitutto in Libia, senza soluzioni imposte dagli interessi, economici, o in
materia di immigrazione, di altri paesi.
Appare
evidente che governi che stanno massacrando l’idea stessa di una Unione Europea
forte e coesa, in nome del populismo e del nazionalismo dominanti, al motto “prima gli italiani”, come “prima
gli ungheresi”, non hanno alcuna possibilità di risultare determinanti sulla
scena internazionale, riuscendo forse a proteggere un residuo di rapporti
commerciali in campo energetico, ma abbandonando al loro destino centinaia di
migliaia di persone e determinando un prolungamento endemico dei conflitti
internazionali. Ed è ormai sotto
gli occhi di tutti come la quotidiana disumanità, praticata impunemente ai
danni di persone abbandonate nelle mani di sequestratori e torturatori, con la
complicità della sedicente guardia costiera libica, e di chi vi ha fornito
mezzi e coordinamento, non possa produrre alcun avanzamento in un processo di
pace nell’area del Mediterraneo. Il coinvolgimento dell’Egitto e della
Turchia nella crisi libica è sempre più evidente. Come la presenza militare
delle grandi potenze mondiali, che però non parteciperanno alla Conferenza di
Palermo sulla Libia. Una smentita degli annunci sui quali si e’ basata in
queste ultime settimane la politica estera italiana.
Questo
richiamo all’interesse nazionale prevalente, e la incapacità di una risposta
europea al conflitto libico, come già verificato nel caso della Siria, rimetterà a queste grandi
potenze (Stati Uniti, Russia,
ma anche Cina, ormai presente in modo capillare in tutta l’Africa) la soluzione
di una crisi che, se non verrà risolta in tempo, potrebbe aprire spazi
preoccupanti alle iniziative
di gruppi terroristicigià presenti in tutto il Nordafrica. Un
problema che non si potrà certo affrontare con il blocco dei porti, con i
ricatti ed i veti incrociati, o con le esasperazioni delle pulsioni
nazionalistiche, se non sull’onda del razzismo
istituzionale e della violazione sistematica delle Convenzioni
internazionali.
Pace subito
in Libia, nel rispetto della autodeterminazione delle popolazioni
libiche, e del diritto internazionale violato dagli stati, e anche
per garantire la sicurezza, per tutti, per i migranti, come per i cittadini
europei. Giustizia e sicurezza non sono entità divisibili, né sul piano
internazionale, né sul piano interno. O valgono per tutti, nessuno escluso,
o non
possono valere soltanto per una parte di privilegiati. Se non lo
ricorderanno i politici presenti alla Conferenza di Palermo sulla Libia,
saranno le Organizzazioni
non governative e i cittadini solidali a fare diventare
inscindibile questo binomio, con una azione quotidiana, di difesa e di controinformazione, ma anche
di ricostruzione di legami di solidarietà,
a partire dai territori e dalle comunità locali.
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