Ad alta velocità verso la catastrofe
Le
discussioni capziose sulla necessità o meno della Tav e soprattutto sulla
definizione dei costi e dei benefici è così raso terra che non si vorrebbe
neppure ascoltarla. Come se davvero il problema fosse quello. Come se il
problema oggi delle politiche delle Grandi (ma sarebbe meglio definirle
Gigantesche) Opere o comunque in genere degli investimenti sulle Alte Velocità,
su un modello di sviluppo forsennato di
cui ben conosciamo gli esiti, sia ambientali che umani e psicologici, fosse
davvero quello.
La scelta di fare la Tav, che non a caso ha visto in
piazza i 40.000 (chissà perché questo numero mi ricorda qualcosa, specie a
Torino) colletti bianchi dell’infinita crescita e dell’avanzata del capitalismo
a qualunque prezzo, non è una scelta
economica. È una scelta simbolica, politica e morale.
Dove vogliamo andare ancora? Da un pezzo ci siamo lasciati
alle spalle prendendo la strada sbagliata il bivio che indicava da una parte la
moderazione, il ritiro da questo assetto aggressivo verso la natura, le
persone, le cose che è quello che ci trasciniamo appresso da alcuni secoli
senza considerare che ci sta portando alla catastrofe (anzi
che nella catastrofe ci ha già sprofondati fino al collo e non solo per motivi
ambientali, molto evidenti ma soprattutto per motivi umani!) e dall’altra i
cavalieri dell’apocalisse, quelli del muoia Sansone con tutti i Filistei.
Non ci rendiamo ancora conto che ogni scelta in
funzione di una crescita che vuole solo dire mortificazione dell’ambiente,
accelerazione delirante del lavoro di tutti, frenesia, dipendenza da forme di
comfort sempre più ridicole e dannose e da farmaci e droghe che ci consentano
di sostenere un ritmo di vita del tutto incongruo alla nostra e altrui natura, sperequazioni
economiche tra ricchi e poveri sempre più pronunciate e saccheggio e massacro
delle poche risorse rimaste su questo misero pianeta, è una scelta folle?
Davvero
vogliamo questo? Siamo a tal punto anestetizzati da non renderci conto che ogni
piccolo passo, o grande passo (come la Tav) ci porta un gradino o un abisso più
avanti nella nostra corsa al suicidio?
Una mutazione antropologica
Ogni giorno
che passa e che noi non prendiamo decisioni risolute per fermare tutto questo è
un giorno che va moltiplicato per gli infiniti danni che la nostra indolenza su
questo fronte produce. E ripeto, non è
solo questione di natura(per quanto la natura sia non solo quella cosa
che riteniamo bizzarramente separata da noi e chiamiamo ambiente ma anche la
nostra natura, ciò di cui siamo fatti e che ogni giorno di più si contamina, si
esaurisce e impazzisce).
È questione di una mutazione antropologica che va assolutamente frenata e se possibile
fermata. La mutazione che ci sta portando a
divenire sempre più impermeabili al dolore del mondo, al nostro stesso dolore,
alla necessità del silenzio e dell’armonia tra uomini e cose, la mutazione vero
una sorta di homo idiota che ha a cuore solo la propria presunta realizzazione
lavorativa, il proprio successo, la propria affermazione a discapito di tutto
il resto, anche semplicemente del tempo del riposo o dell’amore, del tempo
della convivialità e dell’assaporamento lento della materia stessa
dell’essere qui in questo mondo per un’unica volta.
Mai l’uomo è stato così ridicolmente centrato sul
proprio ombelico come oggi. Ognuno è lanciato ad alta velocità verso il proprio deserto umano,
verso la propria solitudine, verso la propria immolazione sull’altare di non si
sa bene cosa, se non il vuoto. Basta guardarli i campioni del nostro successo e
del nostro mondo per rendersene conto, nel loro livore, nella loro angoscia (di
perdere quello straccio di potere che hanno ottenuto facendo a pezzi tutto
nella propria vita, di perdere audience, di perdere
l’appuntamento con le infinite occasioni in cui si devono rendere presenti
passando come un treno ( ad Alta Velocità) su qualsiasi altra necessità di chi
gli sta intorno (sempre che sia rimasto qualcuno), nella loro rabbia, nei loro
volti maniacali, nelle loro risate rumorose e sgangherate.
È questa
umanità che deve farci paura, ancor prima della catastrofe della natura,
esterna e interna, nella quale volenti o nolenti dobbiamo ancora vivere, fin
tanto che non saremo totalmente macchinizzati.
E
allora è chiaro che la Tav ma altre infinite
scelte, anche scelte quotidiane, diventano scelte morali, scelte politiche,
scelte simboliche, scelte di vita o di morte.
Non ci sono alternative alla decrescita
Ogni volta che acquistiamo un aggeggio assurdo e
inutile, ogni volta che accettiamo di aggiornare i nostri smartphone al delirio che avanza imponendoci
forme di dipendenza sempre più astute e raffinate per non far smettere mai la
ruota del supplizio del lavoro e del consumo di viaggiare ad Alta Velocità pur
di stritolare il nostro tempo, la nostra soggettività e le nostre residue
possibilità di prendere consapevolezza del circolo vizioso nel quale siamo
intrappolati, ogni volta, ogni giorno, noi
ci allontaniamo da quel bivio e da una vita che abbia senso vivere.
Oggi più che mai il tema della decrescita è cruciale, Anzi è vitale, sempre che sia
ancora possibile salvare un’umanità che è già in camera di rianimazione da un
bel po’.
Una decrescita non illudiamoci, che non sarà felice. No. Perché se è probabile che il
giorno in cui ci saremo liberati dal fardello di merda in cui siamo affondati
cominceremo a intravedere uno stile di vita che, in assenza di quella, possa
essere ben vissuto, intanto avremo dovuto liberarci da tutte le dipendenze che
abbiamo acquisito. Anzi, che il mercato ci ha imposto di acquisire. Decrescere, fondamentalmente,
questo vuol dire. Rinunciare ad una ad una a quasi tutte quelle dipendenze.
Quella dei mille canali televisivi e della qualità di un’immagine sempre più
perfetta quanto mostruosa. Rinunciare all’infinita gamma di prodotti per la
nutrizione, la cosmesi, la salute della nostra casa come del nostro corpo, che
mentre ci guarisce però anche ci mette al lavoro di nuovo per ammalarci.
Rinunciare agli aerei low cost, rinunciare a tecnologie sempre più
inutili quanto dannose, concentrare le spese solo su ciò che davvero è vitale,
la salute, quella vera, che deve essere riappropriata, non delegata a
specialisti sempre più persi anch’essi nella ricerca devota solo alle leggi dei
brevetti e di una farmaceutica ultramiliardaria, l’educazione, quella vera,
diffusa, partecipata e non riposta in agenzie criminose che mettono ai ceppi il
diritto di vivere dei nostri cuccioli (l’autore di questo articolo è
tra i promotori del Manifesto dell’educazione diffusa).
Dovremo
rinunciare al dannato ottovolante dell’industria dello spettacolo, dell’entertainment senza capo né coda, del turismo
obbligatorio, dell’industria della cultura e del sesso per ritrovare il piacere
di intrattenerci con la cultura
condivisa, con nuove
forme di convivialità, già sperimentate da molti ma comunque
minoritarie, con il piacere ritrovato, sessuale e affettivo, a un raggio più
corto e più ridotto di opportunità ma certamente anche più intenso.
Reddito universale
Come si fa a non capire che il reddito minimo garantito, universale, è l’unica misura che possa andare incontro al delirio del lavoro ad ogni costo anche quando con tutta evidenza avremmo i mezzi per ridurlo anch’esso al minimo necessario? E che occorre pagare tutti per questo? Crediamo di poter dare a tutti la possibilità di vivere più decentemente senza rinunciare un po’ alle nostre prebende? Incredibile sentire teste che dovrebbero essere provviste di grossi cervelli sostenere che i costi del reddito di cittadinanza non devono ricadere sulle tasche della popolazione. E di chi se no? Chiaro che un mondo umano non impazzito lo capirebbe. Ma noi no, noi vogliamo la salute garantita, l’educazione, tutti gli infiniti gadget dell’idiozia imperante senza dover intaccare i nostri risparmiucci. Personalmente, se potessi, se un dio mi desse una bacchetta magica, non si può immaginare che razza di patrimoniale infliggerei a questo mondo di vigliacchi, me compreso. I nostri risparmiucci potrebbero compensare enormemente il famoso debito e forse emanciparci dal cappio delle corporazioni, dei manager del nulla, dei governanti beceri e dei giornalisti al servizio del rimbecillimento ad Alta Velocità.
Come si fa a non capire che il reddito minimo garantito, universale, è l’unica misura che possa andare incontro al delirio del lavoro ad ogni costo anche quando con tutta evidenza avremmo i mezzi per ridurlo anch’esso al minimo necessario? E che occorre pagare tutti per questo? Crediamo di poter dare a tutti la possibilità di vivere più decentemente senza rinunciare un po’ alle nostre prebende? Incredibile sentire teste che dovrebbero essere provviste di grossi cervelli sostenere che i costi del reddito di cittadinanza non devono ricadere sulle tasche della popolazione. E di chi se no? Chiaro che un mondo umano non impazzito lo capirebbe. Ma noi no, noi vogliamo la salute garantita, l’educazione, tutti gli infiniti gadget dell’idiozia imperante senza dover intaccare i nostri risparmiucci. Personalmente, se potessi, se un dio mi desse una bacchetta magica, non si può immaginare che razza di patrimoniale infliggerei a questo mondo di vigliacchi, me compreso. I nostri risparmiucci potrebbero compensare enormemente il famoso debito e forse emanciparci dal cappio delle corporazioni, dei manager del nulla, dei governanti beceri e dei giornalisti al servizio del rimbecillimento ad Alta Velocità.
Forse è venuto il momento di rompere i nostri porcellini
di ceramica, di aprire gli occhi su un mondo che è totalmente deragliato
e di fermarsi, di fare sciopero
dalle fesserie con cui arrediamo le nostre giornate per guardarci in faccia,
guardare in faccia tutti gli esseri che popolano questo nostro pianeta
straziato e saccheggiato e fare causa
comune per rallentare, desaturare, abbassare il volume del nulla vociante e
tornare a quel maledetto bivio.
E questa
volta girare dall’altra parte, pronti a sacrificare quella parte del nostro
tempo e delle nostre presunte ricchezze, quella che viaggia ad Alta Velocità,
che sta finendo di distruggere quel poco di buono che forse un’altra umanità
avrebbe anche potuto offrire al mondo, se non fosse totalmente impazzita.
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