Le marce di protesta e di proposta sono state nella
storia fra gli strumenti più potenti di cambiamento
sociale dal basso. La Marcia del sale guidata da Gandhi in India nel 1930, la Marcia su
Washington per il lavoro e la libertà del 1963 chiusa con il celebre discorso
di Martin Luther King “I have a dream”, la nostra stessa Marcia Perugia-Assisi per la
pace e la fratellanza fra i popoli: sono quelle che prime saltano alla mente e
fanno ormai parte di quella che potremmo definire una storia popolare del
mondo.
Le marce sono tuttora un potente strumento politico di
cambiamento, grazie alla dimostrata capacità di portare alla ribalta temi ignorati dalla politica
ufficiale, dai media mainstream, da
opinioni pubbliche assuefatte all’agenda imposta dal sistema
economico-finanziario che domina il mondo.
Di recente, in Afghanistan,
un paese in apparenza impossibile, devastato da guerre infinite, annichilito
dai lutti e dall’occupazione militare, è stato attraversato da una
straordinaria marcia della pace. Sono così venute alla luce risorse sociali
inaspettate. La marcia ha mostrato che c’è
un Afghanistan in lotta, che vuole dire la
sua, che non accetta d’essere preda e vittima di interessi altrui; è un
Afghanistan che non si accontenta della democrazia formale, diciamo pure
fasulla, calata dal cielo insieme con gli ordigni dei bombardieri. La storia
del paese è già cambiata; i cittadini afghani che si sono messi in marcia, c’è
da scommetterci, saranno protagonisti della vita pubblica anche nei mesi e anni
a venire.
Un’altra marcia è in corso,
stavolta nel continente americano: migliaia di persone sono partite
dall’Honduras dirette negli Stati Uniti; aspirano a una vita migliore, a
un’opportunità da cogliere nel ricco paese nordamericano, storica meta dei migranti
di tutto il mondo. Marciano intere
famiglie, cercano lavoro e l’occasione di condurre vite normali, come
quelle dei cittadini statunitensi, eppure sono descritti dai media, e dalla
politica mainstream, con un lessico preso dal mondo militare: si
parla di un esercito di migranti, di un’armata. I camminanti vengono additati come una minaccia per i sacri confini della
più grande potenza militare del mondo.
Il presidente Trump ha già
messo in campo una risposta delle sue, schierando 5.000 marines e descrivendo
il popolo in cammino come un’accozzaglia di indesiderabili che mette a rischio
la sicurezza del paese, in un’escalation verbale ormai collaudata, tutta spesa
sul mercato elettorale della paura. Da questo punto di vista la marcia è un
toccasana propagandistico: permette al presidente, alla vigilia di una scadenza elettorale, di
esasperare i toni, agitare lo spauracchio dell’invasione
e proporsi come comandante in capo pronto a difendere, costi quel che
costi, il popolo statunitense.
Non sappiamo come andrà a
finire questa storia. I camminanti saranno probabilmente bloccati alla
frontiera e dovranno accomodarsi nella tendopoli in allestimento, ma di certo la marcia non sarà un
fallimento, qualunque cosa
avvenga: che sia la dispersione delle persone o la trasformazione del
cammino in un inedito sit-in di massa. Non sarà un fallimento perché le
immagini della marcia hanno già fatto il giro del mondo e messo in allarme
le cancellerie di numerosi paesi (non solo centro e nordamericani), portando
sulla scena pubblica quello che potrebbe diventare un principio ordinatore delle lotte di liberazione di
questo inizio di millennio: il
diritto di emigrare (e quindi il corrispondente diritto di
immigrazione).
È un diritto che ha radici storiche antiche, come ci ricorda Luigi Ferrajoli,
e che è servito per affermare il capitalismo nel mondo, nonché, per l’appunto,
ciò che intendiamo per civiltà occidentale: il diritto di occupare nuove terre,
impiantarvi attività e più tardi cercarvi lavoro, è stato una prerogativa
implicita, considerata naturale, per chi sia nato e vissuto nella nostra parte
di mondo. Oggi il diritto di migrare è rivendicato dall’altra parte di mondo e
si tenta quindi di trasformarlo in delitto. È quanto avviene negli Stati Uniti
di Trump, ma anche in quell’Europa che il diritto di emigrare lo ha esercitato
per secoli, sia nelle sue élite sia nelle sue masse popolari.
La marcia in Centro America ricorda al mondo che il
diritto di emigrare è uno dei diritti fondamentali del nostro tempo, in un
mondo segnato da diseguaglianze mai
viste prima, da un’inedità facilità di spostamento e da minacce
incombenti di natura politica, sociale, ambientale. Donatella Di Cesare afferma con argomenti
persuasivi che lo
“jus migrandi” è il diritto di questo millennio, tutto da
conquistare.
Non basteranno i marines per
fermare il movimento di liberazione incarnato oggi dagli honduregni,
salvadoregni, guatemaltechi in cammino: queste persone sono testimoni e
protagoniste di un processo di trasformazione che va oltre la lotta del momento.
È una lotta che ci riguarda, perché il
diritto di emigrare è il traguardo che dovrebbe oggi ispirare chi si batte in
difesa della democrazia e del principio di giustizia sociale. La libertà
di movimento è oggi l’utopia concreta da coltivare per opporsi con la mente e
con i corpi a chi sta sfruttando la cosiddetta emergenza immigrazione per
trasformare in senso autoritario le già carenti democrazie occidentali. Quella marcia è la nostra marcia.
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