giovedì 1 novembre 2018

L’uguaglianza affonda le sue radici nella differenza - Michela Calledda


Quello che sta succedendo in Italia è semplice quanto aberrante: in Italia, in questo momento sono sotto attacco i poveri, i migranti, le donne: in Italia è sotto attacco il principio cardine della nostra Costituzione: il principio di uguaglianza.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» Questo è l’art 3 della nostra straordinaria Costituzione. L’articolo che sancisce il principio di uguaglianza come imprescindibile e fondamentale. In un mondo zeppo di contraddizioni, sempre più spesso orride, ce n’è una bellissima e confortante: il principio di uguaglianza affonda le sue radici nella differenza. Perché crediamo nel principio di uguaglianza? Perché siamo ben consci di essere diversi, vogliamo essere liberi di esserlo, vogliamo che le nostre differenze vengano tutelate e pensiamo meritino tutte uguale dignità. Un gay e un etero sono diversi, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – lo stesso diritto di sposarsi, di fare dei figli, di essere “famiglia” nel senso giuridico del termine.
I maschi e le femmine sono diversi, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – stessi diritti e, a parità di lavoro, stesse retribuzioni oltre che pari opportunità occupazionali e di rappresentanza politica.
Un bianco povero è diverso da un nero povero, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – la stessa dignità sul lavoro e lo stesso diritto di muoversi nel mondo per cercare una vita migliore. Un cattolico, un buddista, un mussulmano sono diversi, ma tutti hanno – o meglio dovrebbero avere – lo stesso diritto di professare la propria fede. Un ex comunista e un ex democristiano sono diversi, ma entrambi hanno lo stesso diritto di esprimere quello che pensano attraverso il voto (a volte votano perfino la stessa cosa, ma questo è un discorso diverso). Io sono una donna eterosessuale, femminista, favorevole all’aborto e al divorzio (dati i tempi bisogna tornare a dirlo a voce alta), antirazzista, antifascista e vivo in un momento nel quale è necessario affermare a chiare lettere l’importanza della Costituzione, dell’art3, del principio di uguaglianza, perché ognuno sia libero di essere quello che è e sia libero di affermare la propria diversità e di vederla riconosciuta e tutelata dalla Legge e dallo Stato. E’ davanti alla legge che siamo – o dovremmo essere – tutti uguali a prescindere da tutte le situazioni personali e contingenti.
Eppure. Eppure non è sempre stato come oggi o, almeno, a me sembra che non sia sempre stato così. Forse ero semplicemente più giovane e pulita io, meno disincantata e più ottimista, forse la politica non esisteva nella mia vita in senso stretto, ma in senso più puro e ideale: era empatia, solidarietà, senso di giustizia, quello che può essere per una bambina e per un’adolescente. Non so se davvero è così, però mi sembra che prima, quando ero bambina e poi ragazzina e poi quasi studentessa universitaria, una discriminazione tanto sbandierata e impudica non esistesse o, se esisteva, la lasciavamo sopire nella nostra parte più nascosta, in quella peggiore, perché lo stigma, l’onta perfino, d’essere considerati razzisti e/o fascisti superavano la grettezza e il sudiciume di cui tutti – e ribadisco tutti – possiamo essere capaci. E infatti per giustificare il sordido che è in noi abbiamo inventato cose come “io non sono razzista, ma” ben consci – come diceva Beniamino Placido in un celebre dialogo televisivo con Indro Montanelli – che tutto il problema è racchiuso in quel “ma”.
Te lo insegnavano a casa e a scuola, prima, che siamo tutti uguali, perfino con troppa enfasi, a volte, annullando quasi il senso della differenza. Ma andava meglio così, mi sembra, perché a leggere le cose che leggo se metto in fila tutto il livore, la violenza, il furore e la maleducazione che mi investono tutti i giorni in situazioni diverse e contigue – partendo dai social, passando per tv e giornali, fino alla radio – io ho la nausea. E arrivo perfino a chiedermi se parlare, provare a spiegare, ragionare di diritti e uguaglianza non stia diventando un’operazione addirittura rischiosa. E mi fa paura questa cosa, sono atterrita perché questo fango ci invade e schizza ovunque.
Ed è qui che a mio avviso entra in gioco una dimensione politica che io considero “nuova”, inedita rispetto ai modi della politica che ho conosciuto io ed è il linguaggio, il modo nel quale la politica ci parla, ci chiama, decide di occuparsi di noi. Le parole o forse l’attitudine di chi ho di fronte, di quelli che ascolto. Non lo so. Sono settimane, mesi credo, che provo ad appigliarmi al bello, a ciò che è gentile, pacato, misurato. Ci si riversano addosso tutti i giorni quintali di violenza, siamo aggressivi, aggrovigliati, nervosi. Sempre. Anche quando abbiamo ragione. Forse soprattutto quando siamo convinti di averne. Motiviamo con arroganza, con rancore, senza pazienza, con boria, presunzione e insolenza. Stupido sarcasmo, spesso. 
I pozzi sono inquinati. Nel quotidiano e dunque, di riflesso, nella politica. E allora, mi meraviglio di fronte alle parole belle, accoglienti, modeste, semplici. Quelle che servono a capirsi, quelle che tendono la mano. Mi sembra che quelle della gentilezza, della pacatezza, della pazienza debbano essere considerate come nuove dimensioni della politica, una nuova strada per capirsi. Incontrarsi sulla via dell’umiltà, della dolcezza perfino. Riconoscersi, volersi bene, rinascere. Ma anche crescere, avere voglia di imparare, riconoscere che chi ci rappresenta non deve essere come noi, ma deve essere la parte migliore di noi: perché è a questo che serve la politica, a questo serve il politico, il rappresentante del popolo: a migliorare le nostre condizioni, perfino ad innalzarci. E, ve lo garantisco, con questo discorso non c’entrano nulla né i titoli di studio né i congiuntivi. Basti pensare al percorso di Giuseppe Di Vittorio.
In questo triste periodo di esposizione mediatica Di Mimmo Lucano mi hanno colpito la pacatezza e la dolcezza. È un uomo lieve, Mimmo Lucano, uno semplice, senza forzature. Le parole di Mimmo Lucano, i suoi occhi, quello che il suo corpo comunica all’esterno è riconducibile a una sola parola: accoglienza. E non mi riferisco alla sola questione migranti e alle politiche di gestione delle migrazioni. Mimmo Lucano abbraccia con la semplicità e la tenerezza di parole che arrivano immediate, dirette, profonde eppure familiari e accessibili. Mimmo Lucano trasmette una cosa che non mi è mai capitato di sentire in questi anni di abbrutimento generale: la dolcezza dei giusti. E mi piace questa cosa. Mi piace sentirmi abbracciata, per una volta, e non arrabbiata, frustrata, incompresa, esclusa. Mi piace farmi avvolgere dalla speranza che esistano soluzione capaci di trascendere l’idea e il concetto di sicurezza. Sicurezza non è e non può essere una parola che appartiene al vocabolario di una sinistra egualtaria e progressista, non può esserlo il concetto di stesso “decoro”.
La parola “integrazione” è scomparsa dal lessico politico insieme al concetto di prevenzione ed educazione. E guardate che non è bello, le parole sono importanti e “Sicurezza” fa il paio con “Repressione”. E noi non dobbiamo reprimere, dobbiamo parlare, educare, fare innamorare di nuovo le persone. E allora smettiamola di scimmiottare Lega e movimento, dimostriamo di essere migliori con le parole e con i fatti: io me li ricordo i grillini attaccati alle case popolari degli altri, agli stipendi degli altri, alle gaffe degli altri, alle indagini degli altri, agli scontrini degli altri. Tuttavia non infierisco perché è per questo che li detesto. Da Sempre. È per questo che non li ho mai votati né mai li voterò. Sono diversa da loro. Non mi sono mai piaciute le gare di purezza. Nemmeno adesso. E me ne vanto. Scelgo ogni giorno di essere diversa. Loro non sono né destra né sinistra, forse. Io però sono sinistra, vivo nel rispetto della Costituzione e rispettare la Costituzione significa anche essere garantisti. Sempre e con tutti. Anche con chi non ci piace. Significa rifiutare di fare dell’antipolitica un’arma per generare consenso politico.
Questa accondiscendenza sul piano del linguaggio è diventata una imbarazzante subalternità politica, ha portato a una carenza concettuale inammissibile e siamo infatti in una fase di regressione morale sconvolgente. Faccio un esempio: a me i frequentatori dei family day, le sentinelle in piedi, gli attivisti pro-life, gli antiabortisti, quelli contrari all’eutanasia, al suicidio assistito, mi facevano sorridere. Nella mia stupidità, in questa fiducia incondizionata nel progresso e nell’evoluzione umana ho sempre creduto nell’autodeterminazione e nel diritto di ognuno di scegliere per sé. Ho sempre pensato che si può essere contrari all’aborto, ma che vietare a qualcuno di abortire non avesse senso e fosse lesivo della libertà individuale e ho esteso questo discorso a molte altre cose: sono un’antiproibizionista convinta senza essermi mai drogata, sono favorevole alla GPA pur credendo che sia necessario normarla in maniera seria e consapevole, sono favorevole ai matrimoni gay e all’adozione da parte di coppie omosessuali, sono favorevole all’eutanasia.
Nella mia stupida ingenuità ho sempre pensato che chi faceva le battaglie contro l’autodeterminazione fosse inoffensivo e minoritario, conservatore, inadeguato ai tempi, vecchio e ottuso. Guardavo al futuro come un luogo di libertà in cui si può scegliere , senza costrizioni. Poi un giorno mi sono svegliata e ho trovato l’invasor: conservatori e bigotti fondamentalisti sono in Parlamento con un gruppo parlamentare che conta centocinquanta parlamentari. Non due o tre, centocinquanta. Gente che scrive e vota leggi. Pazzi, reazionari e illiberali. Misogini, perfino. Gente che per me era stupida e ottusa, che mi faceva ridere, che guardavo sprezzante e che invece è tutt’altro che inoffensiva, soprattutto per le donne.
Tutto quello che fino a ieri sembrava scontato oggi non lo è più. Vogliono toglierci il diritto di scegliere. Ci vogliono dipendenti, accondiscendenti e silenziose. E invece no. Non ci avranno. Pensiamo agli attacchi alla 194: la differenza tra una persona favorevole all’aborto e gli antiabortisti è che le persone favorevoli all’aborto non vogliono imporre niente a nessuno. Io – che sono favorevole all’aborto – voglio che ognuna sia libera di scegliere per sé. Gli antiabortisti, i pro-life, invece hanno l’ardire di decidere cosa sia più giusto per tutti. Viviamo in un’Italia miserabile, di invasati, in fase di regressione acuta, ogni giorno un pochino più misogina e senza alcuna consapevolezza dell’enormità e della centralità che torna ad assumere la questione femminile.
Mi viene in mente Josefa: emblema perché donna e migrante sopravvissuta a un naufragio, a luglio. La foto di quella donna, nera, con gli occhi carichi di terrore fece il giro del mondo: Ho pensato molto a lei, a quel miscuglio di orrore e disperazione che raccontavano i suoi occhi, ho provato a vestire i panni di una donna, più o meno mia coetanea, in fuga da un marito violento per il solo fatto di non potergli dare dei figli. No so se al posto suo avrei avuto il coraggio di tentare una strada tanto impervia, so per certo che non avrei voluto diventare simbolo di alcunché, avrei voluto che l’orrore dei miei occhi rimanesse cosa mia, avrei voluto essere riconsegnata come un foglio bianco ancora da scrivere a un mondo nuovo e cercato a dispetto di un rischio capitale. Una donna che ricomincia ha il diritto di ricominciare senza essere spogliata, ancora una volta, di dignità e orgoglio. Perché se il racconto è sacrosanto è anche vero che il racconto spesso impone di sacrificare spicchi di vita e dignità. Le presunte unghie laccate di quella donna (si scoprì poi che era un fotomontaggio, ma non importa) hanno scatenato un esercito di indignati perché, sostenevano, una donna non può scappare dalla guerra, dalla violenza, con le unghie laccate.
Perché, vedete, se siamo donne, nere e veniamo dalla guerra, abbiamo diritto a soccorso e rifugio se – e solo se – le nostre unghie non sono laccate. Se soffriamo dobbiamo andare in giro sporche, puzzolenti, con gli occhi pesti a testimoniare dolore, sofferenza. Non dobbiamo mica cercare di essere dignitose e decorose. Il decoro va bene nelle strade, dove le donne come Josefa, senza unghie laccate, sono fastidiose perché sporche, puzzolenti, con gli occhi pesti a rovinare l’idea dorata di mondo che vogliamo garantirci perfino visivamente. E invece, vedete, Josefa – come me e come voi – ha il diritto di laccarsi le unghie quando vuole, perfino in mezzo a una guerra. E il fatto che Josefa abbia le unghie laccate non c’entra nulla con il sacrosanto diritto di una persona di spostarsi dove vuole e quandolo ritiene opportuno e nemmeno con il sacrosanto diritto a essere soccorsa se e quando vittima di naufragio e/o di qualunque altro incidente.
Chiudo con un pezzo di vita personale. Qualche settimana fa ho cominciato a leggere un romanzo a mia figlia. Abbiamo scelto L’orso Paddington di Michael Bond, un classico della letteratura inglese pubblicato per la prima volta nel 1958. Non so bene come funziona questa cosa per cui i libri giusti finiscano per presentarsi sempre al momento giusto, quando ce n’è bisogno. Spesso accade. Paddington oggi ha sessant’anni come una delle nonne di Maria. È un orsetto emigrato che arriva a Londra dal Misterioso Perù dove, racconta lui, mangiava solo per le occasioni speciali. Ha viaggiato per tutto il tempo in una scialuppa di salvataggio. «Non dovrei essere qui» racconta «Sono un clandestino». Porta in testa un cappello rosso a tesa larga, addosso un cappotto blu con degli alamari, con sé ha una valigia vecchia e malconcia e appeso al collo un messaggio: «Per favore prendetevi cura di quest’orso. Grazie.» Sapendo che un giorno dovrà emigrare la sua zia Lucy gli ha insegnato le lingue, per garantirgli un futuro lontano.
La famiglia Brown lo trova per caso un giorno nella stazione di Paddington, a Londra, e non capendo quale sia il suo vero nome lo ribattezza così. La famiglia Brown è bella perché non esita a prendersene cura, a tendergli una mano. Se lo porta a casa. Lo ospita senza farsi troppe domande e porsi troppi problemi. «Il sole splendeva , quando il tassì uscì dal parcheggio della stazione, e dopo il buio e il chiasso, ogni cosa sembrava luminosa e allegra […] Il mondo intero aveva un aspetto cordiale. C’erano tante cose da vedere, dopo essere rimasto seduto da solo per settimane in una scialuppa di salvataggio. Gente e automobili e grandi autobus rossi dappertutto… Niente a che vedere col misterioso Perù» È così il mondo che voglio insegnare a Maria: fiducioso e cordiale, solidale. Abbiamo due armi, noi pochi che siamo rimasti a guardarci negli occhi con piccoli barlumi di speranza: bambin* e libri. Usiamole.
da qui

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