Quello che sta succedendo in Italia è semplice quanto
aberrante: in Italia, in questo momento sono sotto attacco i poveri, i
migranti, le donne: in Italia è sotto attacco il principio cardine della nostra
Costituzione: il principio di uguaglianza.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che limitano di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» Questo è l’art 3
della nostra straordinaria Costituzione. L’articolo che sancisce il principio
di uguaglianza come imprescindibile e fondamentale. In un mondo zeppo di
contraddizioni, sempre più spesso orride, ce n’è una bellissima e confortante:
il principio di uguaglianza affonda le sue radici nella differenza. Perché
crediamo nel principio di uguaglianza? Perché siamo ben consci di essere
diversi, vogliamo essere liberi di esserlo, vogliamo che le nostre differenze
vengano tutelate e pensiamo meritino tutte uguale dignità. Un gay e un etero
sono diversi, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – lo stesso diritto
di sposarsi, di fare dei figli, di essere “famiglia” nel senso giuridico del
termine.
I maschi e le femmine sono diversi, ma entrambi hanno
– o meglio dovrebbero avere – stessi diritti e, a parità di lavoro, stesse
retribuzioni oltre che pari opportunità occupazionali e di rappresentanza
politica.
Un bianco povero è diverso da un nero povero, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – la stessa dignità sul lavoro e lo stesso diritto di muoversi nel mondo per cercare una vita migliore. Un cattolico, un buddista, un mussulmano sono diversi, ma tutti hanno – o meglio dovrebbero avere – lo stesso diritto di professare la propria fede. Un ex comunista e un ex democristiano sono diversi, ma entrambi hanno lo stesso diritto di esprimere quello che pensano attraverso il voto (a volte votano perfino la stessa cosa, ma questo è un discorso diverso). Io sono una donna eterosessuale, femminista, favorevole all’aborto e al divorzio (dati i tempi bisogna tornare a dirlo a voce alta), antirazzista, antifascista e vivo in un momento nel quale è necessario affermare a chiare lettere l’importanza della Costituzione, dell’art3, del principio di uguaglianza, perché ognuno sia libero di essere quello che è e sia libero di affermare la propria diversità e di vederla riconosciuta e tutelata dalla Legge e dallo Stato. E’ davanti alla legge che siamo – o dovremmo essere – tutti uguali a prescindere da tutte le situazioni personali e contingenti.
Un bianco povero è diverso da un nero povero, ma entrambi hanno – o meglio dovrebbero avere – la stessa dignità sul lavoro e lo stesso diritto di muoversi nel mondo per cercare una vita migliore. Un cattolico, un buddista, un mussulmano sono diversi, ma tutti hanno – o meglio dovrebbero avere – lo stesso diritto di professare la propria fede. Un ex comunista e un ex democristiano sono diversi, ma entrambi hanno lo stesso diritto di esprimere quello che pensano attraverso il voto (a volte votano perfino la stessa cosa, ma questo è un discorso diverso). Io sono una donna eterosessuale, femminista, favorevole all’aborto e al divorzio (dati i tempi bisogna tornare a dirlo a voce alta), antirazzista, antifascista e vivo in un momento nel quale è necessario affermare a chiare lettere l’importanza della Costituzione, dell’art3, del principio di uguaglianza, perché ognuno sia libero di essere quello che è e sia libero di affermare la propria diversità e di vederla riconosciuta e tutelata dalla Legge e dallo Stato. E’ davanti alla legge che siamo – o dovremmo essere – tutti uguali a prescindere da tutte le situazioni personali e contingenti.
Eppure. Eppure non è sempre stato come oggi o, almeno,
a me sembra che non sia sempre stato così. Forse ero semplicemente più giovane
e pulita io, meno disincantata e più ottimista, forse la politica non esisteva
nella mia vita in senso stretto, ma in senso più puro e ideale: era empatia,
solidarietà, senso di giustizia, quello che può essere per una bambina e per
un’adolescente. Non so se davvero è così, però mi sembra che prima, quando ero
bambina e poi ragazzina e poi quasi studentessa universitaria, una
discriminazione tanto sbandierata e impudica non esistesse o, se esisteva, la
lasciavamo sopire nella nostra parte più nascosta, in quella peggiore, perché
lo stigma, l’onta perfino, d’essere considerati razzisti e/o fascisti
superavano la grettezza e il sudiciume di cui tutti – e ribadisco tutti –
possiamo essere capaci. E infatti per giustificare il sordido che è in noi
abbiamo inventato cose come “io non sono razzista, ma” ben consci – come diceva
Beniamino Placido in un celebre dialogo televisivo con Indro Montanelli – che
tutto il problema è racchiuso in quel “ma”.
Te lo insegnavano a casa e a
scuola, prima, che siamo tutti uguali, perfino con troppa enfasi, a volte,
annullando quasi il senso della differenza. Ma andava meglio così, mi sembra,
perché a leggere le cose che leggo se metto in fila tutto il livore, la
violenza, il furore e la maleducazione che mi investono tutti i giorni in
situazioni diverse e contigue – partendo dai social, passando per tv e
giornali, fino alla radio – io ho la nausea. E arrivo perfino a chiedermi se
parlare, provare a spiegare, ragionare di diritti e uguaglianza non stia
diventando un’operazione addirittura rischiosa. E mi fa paura questa cosa, sono
atterrita perché questo fango ci invade e schizza ovunque.
Ed è qui che a mio avviso entra in gioco una
dimensione politica che io considero “nuova”, inedita rispetto ai modi della
politica che ho conosciuto io ed è il linguaggio, il modo nel quale la politica
ci parla, ci chiama, decide di occuparsi di noi. Le parole o forse l’attitudine
di chi ho di fronte, di quelli che ascolto. Non lo so. Sono settimane, mesi
credo, che provo ad appigliarmi al bello, a ciò che è gentile, pacato,
misurato. Ci si riversano addosso tutti i giorni quintali di violenza, siamo
aggressivi, aggrovigliati, nervosi. Sempre. Anche quando abbiamo ragione. Forse
soprattutto quando siamo convinti di averne. Motiviamo con arroganza, con
rancore, senza pazienza, con boria, presunzione e insolenza. Stupido sarcasmo,
spesso.
I pozzi sono inquinati. Nel quotidiano e dunque, di riflesso, nella
politica. E allora, mi meraviglio di fronte alle parole belle, accoglienti,
modeste, semplici. Quelle che servono a capirsi, quelle che tendono la mano. Mi
sembra che quelle della gentilezza, della pacatezza, della pazienza debbano
essere considerate come nuove dimensioni della politica, una nuova strada per
capirsi. Incontrarsi sulla via dell’umiltà, della dolcezza perfino.
Riconoscersi, volersi bene, rinascere. Ma anche crescere, avere voglia di
imparare, riconoscere che chi ci rappresenta non deve essere come noi, ma deve
essere la parte migliore di noi: perché è a questo che serve la politica, a
questo serve il politico, il rappresentante del popolo: a migliorare le nostre
condizioni, perfino ad innalzarci. E, ve lo garantisco, con questo discorso non
c’entrano nulla né i titoli di studio né i congiuntivi. Basti pensare al
percorso di Giuseppe Di Vittorio.
In questo triste periodo di esposizione mediatica Di
Mimmo Lucano mi hanno colpito la pacatezza e la dolcezza. È un uomo lieve,
Mimmo Lucano, uno semplice, senza forzature. Le parole di Mimmo Lucano, i suoi
occhi, quello che il suo corpo comunica all’esterno è riconducibile a una sola
parola: accoglienza. E non mi riferisco alla sola questione migranti e alle
politiche di gestione delle migrazioni. Mimmo Lucano abbraccia con la
semplicità e la tenerezza di parole che arrivano immediate, dirette, profonde
eppure familiari e accessibili. Mimmo Lucano trasmette una cosa che non mi è
mai capitato di sentire in questi anni di abbrutimento generale: la dolcezza
dei giusti. E mi piace questa cosa. Mi piace sentirmi abbracciata, per una
volta, e non arrabbiata, frustrata, incompresa, esclusa. Mi piace farmi
avvolgere dalla speranza che esistano soluzione capaci di trascendere l’idea e
il concetto di sicurezza. Sicurezza non è e non può essere una parola che
appartiene al vocabolario di una sinistra egualtaria e progressista, non può
esserlo il concetto di stesso “decoro”.
La parola “integrazione” è scomparsa dal lessico
politico insieme al concetto di prevenzione ed educazione. E guardate che non è
bello, le parole sono importanti e “Sicurezza” fa il paio con “Repressione”. E
noi non dobbiamo reprimere, dobbiamo parlare, educare, fare innamorare di nuovo
le persone. E allora smettiamola di scimmiottare Lega e movimento, dimostriamo
di essere migliori con le parole e con i fatti: io me li ricordo i grillini
attaccati alle case popolari degli altri, agli stipendi degli altri, alle gaffe
degli altri, alle indagini degli altri, agli scontrini degli altri. Tuttavia
non infierisco perché è per questo che li detesto. Da Sempre. È per questo che
non li ho mai votati né mai li voterò. Sono diversa da loro. Non mi sono mai
piaciute le gare di purezza. Nemmeno adesso. E me ne vanto. Scelgo ogni giorno
di essere diversa. Loro non sono né destra né sinistra, forse. Io però sono
sinistra, vivo nel rispetto della Costituzione e rispettare la Costituzione
significa anche essere garantisti. Sempre e con tutti. Anche con chi non ci
piace. Significa rifiutare di fare dell’antipolitica un’arma per generare consenso
politico.
Questa accondiscendenza sul piano del linguaggio è
diventata una imbarazzante subalternità politica, ha portato a una carenza
concettuale inammissibile e siamo infatti in una fase di regressione morale
sconvolgente. Faccio un esempio: a me i frequentatori dei family day, le
sentinelle in piedi, gli attivisti pro-life, gli antiabortisti, quelli contrari
all’eutanasia, al suicidio assistito, mi facevano sorridere. Nella mia
stupidità, in questa fiducia incondizionata nel progresso e nell’evoluzione
umana ho sempre creduto nell’autodeterminazione e nel diritto di ognuno di
scegliere per sé. Ho sempre pensato che si può essere contrari all’aborto, ma
che vietare a qualcuno di abortire non avesse senso e fosse lesivo della
libertà individuale e ho esteso questo discorso a molte altre cose: sono
un’antiproibizionista convinta senza essermi mai drogata, sono favorevole alla
GPA pur credendo che sia necessario normarla in maniera seria e consapevole,
sono favorevole ai matrimoni gay e all’adozione da parte di coppie omosessuali,
sono favorevole all’eutanasia.
Nella mia stupida ingenuità ho sempre pensato che chi
faceva le battaglie contro l’autodeterminazione fosse inoffensivo e
minoritario, conservatore, inadeguato ai tempi, vecchio e ottuso. Guardavo al
futuro come un luogo di libertà in cui si può scegliere , senza costrizioni.
Poi un giorno mi sono svegliata e ho trovato l’invasor: conservatori e bigotti
fondamentalisti sono in Parlamento con un gruppo parlamentare che conta
centocinquanta parlamentari. Non due o tre, centocinquanta. Gente che scrive e
vota leggi. Pazzi, reazionari e illiberali. Misogini, perfino. Gente che per me
era stupida e ottusa, che mi faceva ridere, che guardavo sprezzante e che
invece è tutt’altro che inoffensiva, soprattutto per le donne.
Tutto quello che fino a ieri sembrava scontato oggi
non lo è più. Vogliono toglierci il diritto di scegliere. Ci vogliono
dipendenti, accondiscendenti e silenziose. E invece no. Non ci avranno.
Pensiamo agli attacchi alla 194: la differenza tra una persona favorevole
all’aborto e gli antiabortisti è che le persone favorevoli all’aborto non
vogliono imporre niente a nessuno. Io – che sono favorevole all’aborto – voglio
che ognuna sia libera di scegliere per sé. Gli antiabortisti, i pro-life, invece
hanno l’ardire di decidere cosa sia più giusto per tutti. Viviamo in un’Italia
miserabile, di invasati, in fase di regressione acuta, ogni giorno un pochino
più misogina e senza alcuna consapevolezza dell’enormità e della centralità che
torna ad assumere la questione femminile.
Mi viene in mente Josefa: emblema perché donna e
migrante sopravvissuta a un naufragio, a luglio. La foto di quella donna, nera,
con gli occhi carichi di terrore fece il giro del mondo: Ho pensato molto a
lei, a quel miscuglio di orrore e disperazione che raccontavano i suoi occhi,
ho provato a vestire i panni di una donna, più o meno mia coetanea, in fuga da
un marito violento per il solo fatto di non potergli dare dei figli. No so se
al posto suo avrei avuto il coraggio di tentare una strada tanto impervia, so
per certo che non avrei voluto diventare simbolo di alcunché, avrei voluto che
l’orrore dei miei occhi rimanesse cosa mia, avrei voluto essere riconsegnata
come un foglio bianco ancora da scrivere a un mondo nuovo e cercato a dispetto
di un rischio capitale. Una donna che ricomincia ha il diritto di ricominciare
senza essere spogliata, ancora una volta, di dignità e orgoglio. Perché se il
racconto è sacrosanto è anche vero che il racconto spesso impone di sacrificare
spicchi di vita e dignità. Le presunte unghie laccate di quella donna (si
scoprì poi che era un fotomontaggio, ma non importa) hanno scatenato un
esercito di indignati perché, sostenevano, una donna non può scappare dalla
guerra, dalla violenza, con le unghie laccate.
Perché, vedete, se siamo donne, nere e veniamo dalla
guerra, abbiamo diritto a soccorso e rifugio se – e solo se – le nostre unghie
non sono laccate. Se soffriamo dobbiamo andare in giro sporche, puzzolenti, con
gli occhi pesti a testimoniare dolore, sofferenza. Non dobbiamo mica cercare di
essere dignitose e decorose. Il decoro va bene nelle strade, dove le donne come
Josefa, senza unghie laccate, sono fastidiose perché sporche, puzzolenti, con
gli occhi pesti a rovinare l’idea dorata di mondo che vogliamo garantirci
perfino visivamente. E invece, vedete, Josefa – come me e come voi – ha il
diritto di laccarsi le unghie quando vuole, perfino in mezzo a una guerra. E il
fatto che Josefa abbia le unghie laccate non c’entra nulla con il sacrosanto
diritto di una persona di spostarsi dove vuole e quandolo ritiene opportuno e
nemmeno con il sacrosanto diritto a essere soccorsa se e quando vittima di
naufragio e/o di qualunque altro incidente.
Chiudo con un pezzo di vita personale. Qualche
settimana fa ho cominciato a leggere un romanzo a mia figlia. Abbiamo scelto
L’orso Paddington di Michael Bond, un classico della letteratura inglese
pubblicato per la prima volta nel 1958. Non so bene come funziona questa cosa
per cui i libri giusti finiscano per presentarsi sempre al momento giusto,
quando ce n’è bisogno. Spesso accade. Paddington oggi ha sessant’anni come una
delle nonne di Maria. È un orsetto emigrato che arriva a Londra dal Misterioso
Perù dove, racconta lui, mangiava solo per le occasioni speciali. Ha viaggiato
per tutto il tempo in una scialuppa di salvataggio. «Non dovrei essere qui»
racconta «Sono un clandestino». Porta in testa un cappello rosso a tesa larga,
addosso un cappotto blu con degli alamari, con sé ha una valigia vecchia e
malconcia e appeso al collo un messaggio: «Per favore prendetevi cura di
quest’orso. Grazie.» Sapendo che un giorno dovrà emigrare la sua zia Lucy gli
ha insegnato le lingue, per garantirgli un futuro lontano.
La famiglia Brown lo trova per caso un giorno nella
stazione di Paddington, a Londra, e non capendo quale sia il suo vero nome lo
ribattezza così. La famiglia Brown è bella perché non esita a prendersene cura,
a tendergli una mano. Se lo porta a casa. Lo ospita senza farsi troppe domande
e porsi troppi problemi. «Il sole splendeva , quando il tassì uscì dal
parcheggio della stazione, e dopo il buio e il chiasso, ogni cosa sembrava
luminosa e allegra […] Il mondo intero aveva un aspetto cordiale. C’erano tante
cose da vedere, dopo essere rimasto seduto da solo per settimane in una
scialuppa di salvataggio. Gente e automobili e grandi autobus rossi
dappertutto… Niente a che vedere col misterioso Perù» È così il mondo che
voglio insegnare a Maria: fiducioso e cordiale, solidale. Abbiamo due armi, noi
pochi che siamo rimasti a guardarci negli occhi con piccoli barlumi di
speranza: bambin* e libri. Usiamole.
da qui
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