La dignità e il rispetto possono essere concetti
astratti. Finché qualcuno o qualcosa te li consegna in carne ed ossa.
E se questa carne e queste ossa appartengono a
bambini, allora la lezione diventa storica. Per te
che la racconti e per gli altri – si spera.
Più lunga è la mia permanenza in territorio africano,
meno mi attardo a fotografare le persone. Esseri umani, come
me. Che la maggior parte delle volte non hanno nessuna voglia di
finire sui tuoi social a generare commenti o like a cui loro non potranno replicare. Lo
raccontavo anche qui, quanto fastidioso diventa, con il tempo, fare i conti con
la pornografia
della povertà, che ha trasformato gli africani in
oggetti e noi in consumatori voraci di storie e facce disperate. Sicuro che
sono disperate? O siamo noi alla ricerca continua di realtà che ci facciano
sentire, inconsciamente ma evidentemente – fortunati, migliori, civilizzati,
diversi.
No, non siamo diversi. E
loro, i ragazzi che vedete nella foto, me lo hanno sbattuto in faccia.
Prenderne coscienza è stato illuminante. E come vorrei, come vorrei che questo
gesto passasse e circolasse tra tutti quelli che vanno in giro a rubare volti e
situazioni. Tra tutti quelli che l’Africa la usano. Tra tutti quelli per cui
esiste un “loro” ma non un “noi”.
Quella foto volevo prenderla per testimoniare la
difficoltà di frequentare la scuola per bambini che vivono in villaggi – in questo
caso un villaggio sulla costa occidentale del Ghana – dove mezzi di trasporto
non se ne possono prendere e si deve camminare a lungo sulla spiaggia e
attraversare un ponte, singolare ma instabile, per arrivare all’edificio
scolastico. E questo tutti i giorni, andare e venire.
Dopo averne scattata una da lontano, li ho raggiunti
e gli ho fatto cenno che volevo fotografarli. A quel
punto è successo questo: si sono piegati, uno accanto all’altro, e hanno
abbassato la testa, in modo che non potessi riprendere il loro volto. Non ho
capito in un lampo, ma mentre scattavo la foto. Ho capito che mi stavano combattendo. Che mi stavano sfidando. Che mi
stavano rifiutando.
Non me. Ma tutti noi. Tutta la nostra arroganza,
presunzione di poter fare quello che ci pare. Di
poter passare sopra desideri e consensi. Sopra volontà e rifiuti. Passare sopra
a tutto. Disumanizzare gli altri solo per vanità, superficialità. Perché tanto
noi possiamo. Se la negritudine – che questi
bambini non hanno in mente cosa sia – ha un aspetto, per me sta in questa foto.
Mostrare la propria dignità, la propria capacità di decidere. Affrontare la
mancanza di rispetto con l’azione, con la protesta silenziosa. Con un atto che
umilia, finalmente, quella parte di gente che ha sempre pensato – e continua a
farlo – “Noi possiamo tutto”.
La pornografia della povertà è odiosa e alimenta visioni distorte dell’Africa e degli africani. Poi
capita che con un solo gesto di ribellione,
dei bambini ti mostrino la loro visione delle cose. E tu rimani lì a
interrogarti su quanti fiumi di letture non siano nulla di fronte all’azione
concreta di chi ti sbatte in faccia la tua mancanza di rispetto, la tua e
quella di tutti coloro per cui le persone non sono esseri umani ma oggetti da
condividere, mostrare, raccontare. Riderne, magari. Dimenticandone le vite
reali, dimenticandone le volontà, dimenticandone le storie.
Questi bambini hanno detto “non sono in vendita.” Hanno detto “esisto”. Non
perché nero tra neri, ma perché sono io. Hanno messo in atto l’orgoglio. Un
orgoglio giovane, ma nello stesso tempo tanto, tanto antico.
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